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Autore: Irina_89    01/08/2010    0 recensioni
Tolse il cuscino dal suo viso e lo riportò sulla poltrona, coprendolo leggermente con un altro.
Osservò, poi, il corpo scomposto dell’uomo che giaceva senza vita sul letto e si avvicinò nuovamente a lui. Lo scoprì dalle coperte, gli sistemò le gambe in posizione più naturale e rilassata, lo ricoprì e gli posò le mani lungo i fianchi, mentre il debole ma continuo suono prodotto dalle macchine che rilevavano l’assenza del battito cardiaco, lo accompagnava.
Poi uscì, chiudendosi la porta alle spalle.
“Addio, signor Rosenbaum.”
Genere: Thriller, Suspence, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Come se ne va?”

“Già.”

“Ma non avevi detto che sarebbe rimasto nella tua stanza per tutto il resto della tua permanenza?” fece Camille, avvicinandosi con la sedia al letto su cui era stravaccata Beatrice.

“Bè, perché così credevo.” Replicò lei.

“Che peccato, però.” Mormorò la bionda, alzandosi e sdraiandosi sul proprio letto, affianco all’amica. “Da quello che mi raccontavi, ti stava anche simpatico.”

“Oddio,” tentò di scherzare l’altra. “Simpatico è un parolone. Diciamo che non lo odiavo più…” guardò la francese sorridendo.

“Sempre la solita.” Le diede un buffetto sulla spalla. “E dillo che sotto sotto eri contenta.”

“Sì, voglio dire,” farfugliò imbarazzata. “Finalmente mi ascoltava e mi parlava…”

Camille si alzò su un gomito e guardò l’amica saccente, per poi arricciare gli angoli della bocca in un sorrisetto malizioso.

“No, non è così.” Mise le mani avanti Beatrice.

La bionda alzò un sopracciglio eloquente e lei sbuffò.

“E allora pensa cosa ti pare.”

“Lo farò.” Ridacchiò Camille.

“Comunque,” riprese Bea. “Partirà tra poco. Credo questione di qualche ora.” E portò le mani sulla pancia, incrociandole, mentre con gli occhi guardava il soffitto bianco.

“E tu cosa ci fai qui?” sbottò, quindi, l’altra.

“Me ne sono andata perché me l’ha chiesto lui.”

“E tu non lo vuoi nemmeno salutare?” le domandò scettica.

“No, vorrei, ma sembra che lui non voglia.” Ammise la ragazza. Da quando aveva ricevuto quella telefonata non le aveva più rivolto parola. Non le parlava più, come se veramente ora non volesse più stare con lei. Stava cercando di allontanarla. Si vedeva. E ci era riuscito.

“Ma falla finita!” la scosse per un braccio. “Ora tu torni in camera tua e ci parli. Magari ne ha bisogno.”

“Dici?” storse le labbra Bea. Certo, poteva essere anche così, però…

La porta della camera si aprì proprio in quel momento.

“Ciao!” le salutò Heidi, la ragazza svizzera che divideva la camera con Camille.

“Ciao!” la salutò sorridente la bionda, mentre Beatrice mugolò un saluto malinconico.

“Ehi, che hai?” si informò la rossa, sedendosi sulla sedia lasciata libera dalla sua coinquilina.

“Oh, lascia stare.” Rise Camille. “È triste perché il suo compagno di stanza se ne va.”

“Chi?” si informò Heidi. “Jacob Rosenbaum?”

“Eh, già.” Sospirò la francese.

Beatrice, subito si alzò e le tirò una gomitata. “Camille!” gridò sommessa.

“Ho sentito dire che ha causato fastidi.” Disse la ragazza svizzera, appoggiandosi allo schienale della sedia.

“Fastidi?” ripeterono le altre due all’unisono.

Heidi annuì. “Dicono abbia causato una rissa e quasi violentato una ragazza.”

Beatrice sgranò gli occhi. “Scherzi?”

“No, ho sentito due professori che ne parlavano quando sono rientrata dal bagno.” Spiegò la rossa. “Ci sono state anche testimonianze.”

Beatrice e Camille si guardarono perplesse e leggermente preoccupate.

“Sì, dicono che abbia picchiato un gruppo di finlandesi,” precisò la ragazza. Beatrice si ricordò di uno dei primi giorni, quando qualcuno gli procurò il taglio sotto l’occhio e la mano rossa. Era vero, c’era stata una rissa, questo l’aveva capito pure lei, ma Jake non era assolutamente il tipo da crearla. Come minimo ci s’era trovato nel mezzo e… “E Anna Lindberg – quella svedese che praticamente s’è fatta tutti – dice che lui le ha messo le mani addosso.”

“Io crederei piuttosto al contrario.” Commentò sarcastica Camille.

“E chi non lo farebbe?” convenne Heidi. “Ma mettiti nei panni della direttrice. S’è vista capitare questo ragazzo che in solo una settimana sembra aver fatto tutto questo… Che altro poteva fare se non chiamare i suoi famigliari e mandarlo via?” alzò le spalle.

“Effettivamente…” fece la francese.

Beatrice rimase in silenzio tutto il tempo. Possibile che Jake fosse stato capace di fare tutto questo? No. Assolutamente! Con quello che poi aveva passato…! Tuttavia, lei era l’unica a sapere di quel particolare, per questo sembrava pure l’unica a preoccuparsi realmente. Anche perché, se fosse tornato a casa sua, chissà che…

“Dicono che tra poco il padre giungerà all’ufficio della direttrice.”

“Accidenti, addirittura nell’ufficio della direttrice?” mormorò Camille.

Beatrice sgranò gli occhi.

“Ma suo padre…” non era morto?

Ma suo padre…?” ripeterono le altre due ragazze.

“Jake mi aveva raccontato che suo padre era morto.” Spiegò lei, tralasciando volontariamente il come.

“Non risulta.” Obbiettò Heidi. “Sta venendo qui proprio in questo momento.”

“Non è che ti ha mentito?” osò la bionda.

Bea sentì come un vuoto allo stomaco. Se gli aveva mentito su suo padre – su una cosa così importante – su cos’altro poteva avergli mentito? Su tutto! Allora era anche possibile che tutte quelle accuse su di lui fossero fondate. Però dal comportamento del ragazzo nei suoi confronti, non sembrava che le cose fossero così.

“Scusate,” si alzò dal letto. “Me ne torno in camera mia.” E si diresse verso la porta.

“Vai a salutarlo?” si informò Camille.

Bea si girò ed annuì distrattamente, quindi uscì e lentamente si incamminò il piano superiore. Quando raggiunse la porta della sua camera, bussò, ma nessuno le rispose, così aprì. La stanza era vuota. Sembrava molto più grande di quel che si ricordava. Tutta la roba di Jacob non c’era più. Ed ovviamente nemmeno lui.

Che fosse già andato nell’ufficio della direttrice ad aspettare suo padre?

Prese il cellulare dalla tasca e cercò il numero del ragazzo nella rubrica. Avviò poi la chiamata ed attese che lui rispondesse. Ma questo non avvenne. Chiamò un’altra volta per sicurezza, ma anche questa non ebbe esito positivo. Chiuse di nuovo la porta e scese le scale, per poi uscì dal dormitorio e corse verso l’edificio C, in cui si trovava l’ufficio della direttrice. Quando raggiunse il palazzo, vi notò una macchina nera parcheggiata davanti all’ingresso. Che fosse quella la macchina del cosiddetto padre? Notò anche un vecchio furgone mai visto prima che sbucava da dietro l’edificio.

Senza pensarci due volte, arrivò al portone e varcò la soglia del palazzo bianco. Cercò il cartello con le indicazioni per capire a che piano si trovasse l’ufficio della preside, ma non vide niente. Iniziò, allora, a salire le scale facendo attenzione alle targhette presenti ad ogni piano. Arrivò fino al quinto ed ultimo piano, ma non trovò niente che potesse aiutarla. Decise perciò di dare un’occhiata lì e di chiedere informazioni se magari avesse incontrato qualcuno. Aprì la porta a vetri che si trovava di fronte e mise la testa all’interno. Il corridoio che si ritrovò davanti era piccolo e stretto. Bianco. Senza alcun segno di decorazione. Le parve strano che l’ufficio che stava cercando si trovasse a questo piano, ma volle entrare lo stesso per accertarsene. Passò qualche porta ai lati del corridoio, poi finalmente trovò una donna delle pulizie e si schiarì la voce per annunciare la sua presenza.

La donna di voltò e la guardò stupita.

“Ha bisogno di qualcosa signorina?” chiese educatamente.

“Sì, stavo cercando l’ufficio della direttrice.”

“Ah, ma allora ha sbagliato piano.” Le sorrise gentile. “Il suo ufficio è al terzo. Non può sbagliarsi: è l’ultimo del corridoio.”

“Grazie.” E se ne andò. Richiuse la porta a vetri dietro di sé e scese le scale, ma arrivata a metà della rampa tra il quarto ed il terzo piano, sentì delle voci per niente rassicuranti. Era una voce rauca che aveva tutta l’aria di aver appena dato un comando, tutto questo in una lingua che lei non conosceva. A rispondere con tono forte a quell’ordine fu una voce a lei molto nota.

Jacob!

Beatrice fece per scendere gli ultimi gradini, ma improvvisamente si fermò, sentendo il rumore di uno schiaffo. Subito si portò le mani alla bocca e si accucciò. Con voce atona l’uomo continuò a parlare, come se stesse seguendo delle istruzioni. Poi, qualche verso strano fece capire alla ragazza che Jake stava cercando di ribellarsi, forse perché era stato preso per un braccio, o per le spalle… L’uomo parlò ancora con la sua voce roca e atona, come se lo stesse minacciando. Anche in questo caso Jacob replicò e Bea poté sentire un lamento, molto probabilmente di Jacob, per qualcosa che doveva avergli fatto quell’uomo. Li sentì poi scendere le scale goffamente.

La ragazza si fece coraggio e si alzò, tentando di essere più silenziosa possibile. Li seguì, rimanendo ad una rampa di scale di distanza da loro, finché non si affacciò temerariamente e li vide uscire dalla porta. Jacob tentò di sottrarsi ancora una volta dalla presa dell’uomo – un uomo decisamente grosso – che lo teneva per un braccio, ma nemmeno questa volta riuscì nel suo intento e dal lamento che emise per la seconda volta, Beatrice capì che l’uomo doveva aver stretto la presa.

La ragazza aspettò qualche secondo, poi corse giù per gli ultimi scalini e aprì la porta. La macchina nera davanti al portone c’era ancora ed ancora era vuota, quindi il loro mezzo, molto probabilmente era l’altro: il furgone. Lentamente si avvicinò al vialetto di fianco all’edificio e si affacciò. Non c’era nessuno in vista.

Strano

Anche perché non potevano essersi volatilizzati nel nulla. Si avvicinò, quindi, silenziosamente al furgone blu e tentò di guardare dall’interno da una dei due finestrini sul retro. Si alzò in punta dei piedi, ma non fece in tempo a mettere a fuoco l’interno, che si sentì improvvisamente mancare e cadde a terra priva di sensi.

“No!” urlò il ragazzo dentro il furgone, le mani dietro la schiena e un pezzo di stoffa intorno al collo.

L’uomo aprì lo sportello posteriore del furgone e posò il bastone con cui aveva colpito la ragazza alla testa sulle borse del ragazzo. Poi si voltò e la prese da sotto le ascelle per alzarla e legarla. Afferrò un pezzo di corda dall’interno del veicolo ed iniziò a passarla intorno alle mani della ragazza inerme.

Nel silenzio che li avvolgeva, solo un rumore lo fece distrarre. L’uomo si girò di scatto, pronto a capire cosa stesse tentando di fare il suo obiettivo, ma l’unica cosa che vide, fu un grosso bastone contro il suo naso, e subito l’uomo sbatté violentemente la testa contro il metallo del portellone, cadendo poi a terra sopra la ragazza.

Jacob si alzò velocemente e scese dal furgone, liberando il corpo della ragazza dal peso del suo rapitore. La portò sul sedile anteriore, accanto a quella del guidatore, e le mise la cintura. Poi tornò dall’uomo e tentò di farlo salire sul retro del veicolo. Quando ci riuscì, lo legò con la corda intorno alle mani ed intorno ai piedi, per poi mettergli quel pezzo di stoffa che prima lui gli aveva messo in bocca, alla stessa maniera e chiudere lo sportello. Infine salì al posto di guida. Fortunatamente le chiavi erano nel quadro, perché non era ancora capace di azionare le macchine con solo i fili come nei film. Quindi mise in moto e partì.

 

***

“Orsini!”

Era una voce lontana, sembrava quasi familiare, ma non così tanto fa farle capire chi la stesse chiamando.

“Orsini! Porca puttana, svegliati!”

Fu il colpo al braccio a farle aprire gli occhi, sebbene non riuscisse a vedere niente di quello che aveva davanti. Era strano, sembrava fosse in movimento su qualcosa, in macchina, forse. Chiuse gli occhi ancora una volta strizzandoli per cercare di togliere quel velo annebbiato che le impediva di vedere, e se li strusciò con le mani.

“Orsini!”

“Ma cosa…?” balbettò, portandosi una mano sulla nuca, che le pulsava insistentemente. Si pentì di essersi toccata quel punto, perché una fitta di dolore le fece serrare gli occhi. “Ma che diavolo…?”

“Ti sei svegliata, finalmente!”

La ragazza si voltò e vide Jacob al suo fianco che guidava. Aveva la fronte aggrottata e il viso che sembrava quasi invecchiato dalla serietà che gli si poteva leggere sul suo volto. Le lanciò un’occhiata di sfuggita, come per appurare che si rendesse conto della situazione, ma le ci volle qualche altro secondo per ricordare tutto quello che era successo. Rimase senza fiato quando la memoria ripercorse gli ultimi avvenimenti.

“Jacob, ma cosa…?”

“Senti, non è il caso che tu venga con me. Ti faccio scendere al primo slargo che trovo.” Le spiegò in italiano. “Non dovevi seguirmi! Chi cazzo te l’ha chiesto? Sei una stupida!”

“Stronzo! Ti ho visto portare via da quell’energumeno! A proposito dov’è?”

“Dietro, legato ed imbavagliato.”

Lei si voltò e osservò quell’uomo oltre una rete che permetteva solo una minima comunicazione tra l’abitacolo e il resto del furgone. Era un energumeno che sarà stato grosso come tre di lei messe insieme. La guardava con uno sguardo di odio profondo, divincolandosi per potersi liberare dalle corde che lo tenevano immobilizzato.

“Ma chi è? Cosa voleva da te?” aveva i brividi su tutto il corpo, oltre che la sensazione di essersi immischiata in una faccenda troppo pericolosa.

“Ti ricordi cosa ti ho raccontato, no? Non penso che ci voglia la scienza infusa per capire che lui fa parte dell’organizzazione che ha ucciso mio padre.”

“Ma cosa c’entri tu con tutto questo?” quasi lo stava implorando, sentendo la paura aumentare in lei.

“Non lo so, immagino sia per il patrimonio che era di mio padre e che ora mi appartiene.” Stava sudando freddo e serrava i denti con forza, mentre con abile manovre superava le rare macchine che gli si paravano davanti sulla strada.

“Cosa… Cosa farai ora?”

“Scappo.” Rispose sempre più serio. “Per questo tu devi scendere al più presto.”

“Ma io… come posso tornare poi all’istituto?”

“Farai autostop.”

Una grassa risata sovrastò ogni altra cosa all’interno del furgone e Bea si sentì il sangue gelare. Si voltò lentamente verso l’uomo legato e ebbe un tuffo al cuore a vederlo slegato e con il grosso viso unto contro la rete metallica che la guardava trionfante. Aveva il naso storto e il viso macchiato da del sangue secco.

“Mi dispiace per voi, ma sono già sulle vostre tracce.”

Scheisse!” Jacob colpì con una mano il volante, corrugando ancora di più la fronte, come per riuscire a trovare una soluzione.

“Anche se la ragazza scendesse ormai non ha possibilità di tornare indietro.”

“C… Cosa?” sgranò gli occhi Bea. “Cosa vuol dire?” le lacrime erano pronte per uscire dai suoi occhi. “Cosa vuol dire Jacob?” lo strattonò per un braccio, piangendo. “Perché non posso tornare indietro?”

“Zitta! È colpa tua! Non dovevi seguirmi!” ruggì il ragazzo, liberandosi dalla presa supplichevole della ragazza con un colpo secco.

“Io… io ero preoccupata per te…” farfugliò lei, continuando a piangere. Le lacrime le offuscarono la vista e si sentì in trappola. Si era immischiata in una faccenda troppo grossa per lei. La grassa risata dell’uomo era l’unica cosa che riusciva a sentire e le parve che suonasse come un canto di vittoria su di lei. Sembrava volesse urlarle che non c’era più via d’uscita. “Fammi scendere…” sussurrò senza riuscire ad articolare bene le parole per il pianto e la paura che le immobilizzavano i muscoli facciali.

“No.”

“Fammi scendere! Voglio andare via!”

“Hai sentito cosa ha detto!”

“Fermati, ti prego!”

“Saresti in pericolo!”

“Non è vero! Lasciami andare via!”

“Zitta!” urlò di rabbia il ragazzo, distogliendo lo sguardo dalla strada per poterla guardare pieno di odio dritto negli occhi. “Ti ho detto che non ti faccio scendere!”

“Jacob… Io non voglio…”

Ancora una volta, fu la risata fragorosa dell’uomo dietro di loro che li interruppe. Jacob guardò attraverso lo specchietto laterale e imprecò ancora. Bea lo imitò, senza capire. Dietro di loro c’era solo una macchina nera che sembrava andare altrettanto veloce, superando senza riguardi il limite di velocità segnalato per tutta la strada che stavano percorrendo. Solo in quel momento le tornò in mente l’altra macchina parcheggiata davanti all’edificio C. Quella era la stessa macchina. Allora era vero… Li stavano seriamente seguendo.

“Siete spacciati, ragazzi!” rise l’uomo. “Vi uccideranno, piano e lentamente!”

“Tappati quella fogna!” e colpì il metallo che separava i due ambienti con qualcosa di duro.

Gli occhi di Bea si girarono per capire cosa fosse, ma non appena capì, avrebbe voluto non vederlo. Jacob stava impugnando una pistola. Una di quelle pistole che aveva sempre visto nei film polizieschi e che mai avrebbe pensato di trovarsi ad una così breve distanza.

“Che vuoi fare? Spararmi?” lo derise l’uomo.

“Dove l’hai trovata, Jacob?” chiese impaurita.

“Lì.” Ed indicò con la testa il vano portaoggetti del cruscotto.

“Mettila via…” piagnucolò Bea. “Per piacere, è pericolosa!”

“Zitta!” ringhiò. “Credi che se non fosse necessaria, l’avrei presa?”

“Ma…”

“Zitta, ho detto!”

Bea obbedì, tremando, non riuscendo a staccare gli occhi da quella canna di metallo che ancora Jacob impugnava saldamente. Beatrice non aveva mai creduto in nessun Dio, ma vista la situazione pensò che quello fosse il momento di mettere da parte le sue incertezze sulla religione e pregare che non succedesse niente di irreparabile. Pregò perché fosse tutto un sogno e provò a mordersi la lingua, credendo che sentendo dolore si sarebbe svegliata, ma ottenne solo un piccolo taglio dovuto all’impazienza di ritrovarsi sdraiata sul letto della sua stanza.

“Legati bene la cintura di sicurezza.” Ordinò Jacob. “Ho un’idea.”

La ragazza non se lo fece ripetere due volte e controllò che fosse ben inserita, mentre l’uomo sbirciava da oltre la rete, senza capire, proprio come lei.

“Ora stai attenta, proteggiti il viso, capito?” il suo tono era duro, sembrava che dietro nascondesse una tragica verità molto simile all’eventualità che il suo piano fallisse.

“Cosa vuoi fare?” domandò l’uomo, aggrappandosi con le mani alla rete.

Jacob diede un’ultima occhiata dietro di sé tramite lo specchietto e fece un respiro profondo, per poi agire. Il freno del furgone venne premuto con tutta la forza che il ragazzo potesse mettere in quel gesto e Beatrice serrò con vigore gli occhi per la paura, portandosi le braccia sul viso, mentre si piegava leggermente su se stessa, per cercare di proteggersi il più possibile. In nemmeno mezzo secondo, un colpo fortissimo colpì il retro del furgone e entrambi vennero fatti sobbalzare in avanti, mentre Jacob tentava ti mantenere fermo il furgone per non sbandare. La ragazza stava trattenendo il fiato, ritrovandosi a supplicare un po’ d’aria che non riusciva a raggiungere. Rantolò per qualche istante, per poi riuscire a riempire i polmoni e a respirare nuovamente.

Sentì il rumore del motore del furgone ripartire con fatica e guardò Jacob, che concentrato come non l’aveva mai visto, proseguiva nella fuga, intralciata dalle condizioni del furgone, conseguenza dell’urto con la macchina che li seguiva. Bea si sporse dal finestrino, adocchiando la macchina nera accartocciata su se stessa e due individui all’interno privi di sensi.

“Cosa…?”

“Abbiamo poco tempo per scappare senza essere avvistati.” Spiegò. “Dobbiamo lasciare questo furgone e proseguire in un altro modo. Potrebbero rintracciarci senza problemi, altrimenti.”

Beatrice ci mise qualche attimo a metabolizzare quelle notizie che Jacob sembrava aver calcolato da un po’, poi si voltò verso l’interno del furgone per adocchiare l’uomo. Era steso per terra e una grande macchia di liquido scuro lo circondava.

“È… È sangue?”

Jacob annuì.

“È morto…?”

“Probabilmente l’urto gli ha fatto colpire la testa contro la parete violentemente.”

La ragazza ebbe un conato di vomito che cercò di rimandare giù con sforzo. Si portò le mani davanti alla bocca per ogni evenienza e cercò con tutta se stessa di cancellare dalla sua mente quella terribile immagine. Le lacrime tornarono a bagnarle il viso con violenza. Voleva tornare a casa, ma ormai era impossibile.

“Stiamo andando all’aeroporto. Prenderemo un volo per nasconderci da qualche parte.”

“Vuoi dire che… ?”

“Sì, molto probabilmente non torneremo più qua.”

Bea si sentì mancare e dovette far appello a tutte le sue forze per evitare di svenire. Le sembrava impossibile tutto questo… Questo succedeva nei film, nei libri… Non nella vita reale!

“Non… non possiamo chiedere aiuto alla polizia?” propose lei.

“Non lo so. Questa è una faccenda che riguarda me, la mia famiglia. Non ha niente a che fare con l’Inghilterra.”

“Ma siamo pur sempre in pericolo!”

“Lo so, ma l’unica cosa che mi viene in mente è raggiungere un posto tranquillo in cui pensare. In queste condizioni non posso fare altro.”

“E dove vuoi andare?”

“A Parigi, da mia nonna.” Le sorrise determinato.

Beatrice trovò inconcepibile la forma delle sue labbra in una situazione del genere, ma accettò la sua proposta senza protestare ulteriormente. Al momento non poteva fare nient’altro che avere fiducia in lui.

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Ok, è passato quasi un anno dall'ultimo aggiornamento, ma meglio tardi che mai, no?

Oh, dunque! La faccenda inizia a farsi difficile: la storia sta entrando nel vivo, e ora vediamo cosa succederà ai nostri due protagonisti. Non sarà facile fronteggiare tutto questo... Ma chissà che la nonna non porti sorprese!

Ringrazio Sweet Love per aver commentato lo scorso capitolo, rattristandomi per averla fatta aspettare così tanto (proprio come tutti gli altri che la seguivano in silenzio)!

E detto questo mi eclisso per chissà quanto altro tempo! Speriamo meno di un anno questa volta! ;)

Alla prossima!

Irina

 

  
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