Storie originali > Soprannaturale
Segui la storia  |       
Autore: Jan Wilde    20/08/2010    7 recensioni
“Ho sempre pensato che vivere fosse solo un modo come un altro per passare il proprio tempo. L’ho sempre pensato fino a quel giorno, fino a quando, trovandomi di fronte alla scelta più difficile della mia vita, ho dovuto scegliere la strada più impervia. Da quel momento ho incominciato realmente a vivere, a soffrire forse, a trovare un ostacolo dietro l’altro, ma a vivere.”
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Night in the Night

 

La bestia si innamorò della ragazza
Senza ritegno, senza sapere cosa fosse l'amore
Lo fece e basta, costringendola ad aprire il suo cuore
E lei, lei si fece sua senza non temer la sua razza.


E in silenzio questo amore andò avanti
Come l'aquila guarda fissa il sole
La ragazza affrontò la bestia e la sua mole
Giocando senza pedine, cavalieri né fanti.

 

Ma la ragazza dette l’anima per quell’amore

Perché in fondo allo sguardo severo

Dietro alla pelle chiara e all’occhio nero

Davvero in silenzio palpitava un cuore.

 

L’amore vissuto fu dai due

Fra speranze, bugie, notti di intenso amore

Non violento non fu, né mancò furore

Ma mai smisero di amarsi quei due.

 

 

La prima cosa che notai fu il colore della sua pelle. Era chiara, quasi sembrava brillare alla luce lunare. Su di essa pareva che si alternassero sfumature argentee e color dell’avorio. Brillava in mezzo alla semioscurità della notte, in quel giardino fatto di cespugli incolti che non vedevano cura da chissà quanto tempo. Era bellissima. I suoi occhi scuri erano esaltati dalla pelle diafana, così come le labbra rosee. La sua espressione era un misto di paura e smarrimento. Sembrava una regina estirpata al proprio regno. La curva dolce del suo collo proseguiva lungo le spalle delicate e per tutto il suo corpo. Sembrava di cristallo, una sensazione di fragilità la circondava come circonda una rosa in pieno inverno. Qualunque uomo avrebbe voluto farla sua, baciare quelle labbra così perfette, seguire i lineamenti del suo viso con una carezza, scendere fino a stringerla con una passione che superava ogni immaginazione. Ma io, in quel momento, volevo solo ucciderla.

Si mosse lentamente, come un cerbiatto impaurito dopo la morte della madre. Io mi sentivo il cacciatore. La osservavo mentre mille immagini si susseguivano nella mia mente. Mai una volta desiderai privarla di quel soffice vestito di seta, mai una volta desiderai assaggiare il sapore delle sue labbra, mai una volta desiderai avere le sue tenerezze. Mi mossi lentamente lungo la parete dell’edifico sotto al quale mi ero acquattato. I miei passi silenziosi mi portavano sempre più vicino a lei, ogni centimetro che facevo sembrava essere una condanna a morte in più per la ragazza. Sfilai silenziosamente lungo una serie di arbusti, mai lei mi sentì, mai lei, quella notte, si accorse completamente della mia presenza. Mi ritrovai a spiarla da un piccolo boschetto di ulivi. Un tempo quel giardino aveva contenuto un fiorente orto: ortaggi e alberi da frutto lo animavano di mille colori insieme ai fiori primaverili. Adesso sembrava che la morte fosse sopraggiunta dovunque. La morte. Il suo sguardo si era posato anche su di lei. Così ignara di ciò che poteva succederle da un momento all’altro. Ero pronto a farlo. I miei muscoli erano tesi nello sforzo di rimanere silenzioso. Non avrebbe provato dolore, non si sarebbe neppure accorta di quel che le stava accadendo. Mi mossi all’interno del mio rifugio, ma qualcosa andò storto. Un volatile notturno si librò nell’oscurità della notte, proprio sopra al mio nascondiglio. E fu lì che lei rivolse il suo sguardo. Lessi qualcosa nei suoi occhi. Non solo terrore, come se fosse consapevole del destino che la aspettava. Insieme al terrore vi lessi la forza di affrontare la propria esistenza. I suoi occhi incrociarono i miei e un brivido, dopo anni di estenuante insensibilità di fronte alla vita, corse lungo la mia schiena. Sembrò non accorgersi del tutto della mia presenza, ma sul suo volto si dipinse un’espressione di profondo sconcerto. Ogni desiderio mortale nei suoi confronti sparì in un istante. Ero incuriosito e affascinato da quella ragazza. Una folata di vento si levò leggera portando alle mie narici il dolce profumo della sua pelle. Mi sentii ingenuo, stupido, come un bambino che si ritrova a desiderare l’impossibile, finendo poi per accorgersi di quanto il suo desiderio fosse irrealizzabile. Non potevo ucciderla, fu questo che pensai in quel momento. Ma dentro di me ero consapevole che quel desiderio che tanto mi aveva attanagliato poco prima sarebbe tornato, improvviso, a torturarmi. Mi odiai per quel che ero. Mi odiai perché non potevo cambiare. Mi odiai perché mai prima di allora non ero riuscito ad assecondare la mia natura.  Lentamente mi ritirai e, silenzioso, ritornai al mio nascondiglio iniziale. La ragazza sembrò tranquillizzarsi e una semiserenità alleggerì la sua espressione. Un’altra folata di vento, scompigliando i suoi capelli scuri, riportò l’aroma della sua pelle verso di me. Lo stomaco mi si contrasse. E il desiderio tornò. In quel momento capii che mai avrei potuto fare a meno di lei, il desiderio di ucciderla era così dolce da deliziarmi, ma contemporaneamente non mi sarei mai voluto privare della sua bellezza. Decisi che l’unica soluzione era andarsene. Qualcosa mi bloccava dal prendermi la sua vita. Ma se volevo cancellare ogni rischio dovevo andarmene. Fuggire da quel desiderio e non tentarlo mai più. Mi allontanai dalla mia tentazione. Mi ripromisi di non tornare a stuzzicarla la notte seguente. Ma sapevo già che  avrei fallito. Ogni volta mi ripromettevo di fuggire da questa tortura, da questa maledetta indecisione. Ogni volta il desiderio di vederla e di impossessarmi della sua essenza mi riportava da lei. Non sapevo a cosa mi avrebbero portato queste sensazioni. Ma finii per abbandonarmi a questa mia nuova droga, senza però mai assaggiarla.

 

 

“Ho sempre pensato che vivere fosse solo un modo come un altro per passare il proprio tempo. L’ho sempre pensato fino a quel giorno, fino a quando, trovandomi di fronte alla scelta più difficile della mia vita, dovetti scegliere la strada più impervia. Da quel momento incominciai realmente a vivere, a soffrire forse, a trovare un ostacolo dietro l’altro, ma a vivere.”

 

Entrare in quella scuola la terrorizzava. Una settimana prima, quando i suoi genitori le avevano dato la notizia, Ginevra si era sentita sprofondare. La sua vita aveva toccato il fondo con quella notizia. Da quell’estate le cose avevano iniziato a precipitare, una discesa che non accennava a finire e la ragazza tremava al pensiero di cosa sarebbe potuto accadere là dentro. Sospirò sistemandosi lo zaino sulla spalla. La Sweet Company, dello stato di New York, la stava aspettando. I suoi genitori l’avevano lasciata all’entrata senza neppure avere il coraggio di salutarla come si deve. Era sempre stata di troppo per loro, ecco perché l’avevano spedita in quel collegio. Ma almeno non avrebbe più dovuto sopportare i loro sguardi accusatori, come se lei fosse la causa di ogni loro problema. Loro che prima del suo arrivo avevano vissuto fra nebbia e locali, fino a quando sua madre non era rimasta incinta. Avevano sempre programmato una vita fatta di viaggi e frivolezze, lei aveva rovinato tutto. Senza contare che la ritenevano pure pazza. Per anni l’avevano portata da un psicologo a causa di ciò che riusciva a vedere.

Neppure ricordava quando aveva visto le ombre per la prima volta. Creature contorte che sembravano fatte di semplice e terrificante oscurità. Ogni volta che apparivano un brivido freddo le correva sotto la pelle, la testa le martellava e si sentiva come se ogni briciolo di felicità venisse divorato da quelle creature. Quell’estate le ombre l’avevano portata vicino alla morte. In campeggio i capo-scout le avevano affidato il compito di andare a raccogliere la legna per il fuoco. La notte era scesa improvvisa, senza che lei se ne accorgesse. Le ombre erano strisciate fuori dal loro nascondiglio, circondandola. Le era sembrato di impazzire. In quel momento, pur di mettere fine a quella sofferenza, aveva desiderato solo morire. C’era andata vicina. Se non fosse stato per Robert Turner il mattino seguente l’avrebbero ritrovata in un burrone. Lui era andato a cercarla, l’aveva trovata e l’aveva portata al sicuro nella sua tenda.

 Ripensando al ragazzo la sua malinconia aumentò. Gli sarebbero mancati i suoi occhi azzurri, la battuta sempre pronta e i capelli color dell’oro.

Sospirò nuovamente, soffermandosi sulla soglia dell’edificio. Era una tipica struttura ottocentesca. Sin da bambino ogni ragazzo, ad ogni malefatta, era stato minacciato dai genitori di essere spedito in quel luogo. La disciplina e la severità di quel luogo erano tristemente famose. C’era chi era impazzito, c’era chi aveva preferito privarsi della vita pur di rimanere un solo giorno in più in quella prigione. “E’ successo molti anni fa…” pensò la ragazza cercando di tranquillizzarsi da sola. Ma non era facile, per niente.

-Ragazzina hai intenzione di rimanere lì impalata a lungo?-

Ginevra sussultò nel sentire quella voce, così aspra che in confronto un limone acerbo non era nulla. Si voltò per vedere chi le avesse parlato e ciò che si trovò davanti fu nn ometto tutto secco e rugoso, vestito di tutto punto, con pantaloni scuri, giacca, cravatta e tanto di foulard blu scuro. Sembrava uscito da un romanzo dell’ottocento. Anzi a dirla tutta sembrava uno di quei personaggi che un autore creava e poi scartava per quanto era venuto male. La ragazza lo osservò ancora, prendendosi qualche secondo in più per ripensare per l’ennesima volta a una possibile fuga. Ma non poteva.

 Si sentiva in trappola, sull’orlo di una crisi di nervi. Ripensò a come aveva litigato con sua madre, l’unica più comprensiva fra i due genitori. La donna aveva sostenuto che quel collegio le avrebbe fatto bene, che sarebbe entrata in quel posto come una ragazza uscendone come una donna. Parlava lei. Tutto era fuor che una donna. “Questa è la mia vita! Tieniteli tu i tuoi consigli, se ho bisogno te lo dico! Sono io che guido, io che vado fuori strada, sempre io che pago! Pago un vostro stupido errore! Mi avete consegnato ad una vita orribile!” le aveva urlato prima di uscire a grandi falcate di casa per andarsene da suo nonno. Questo era l’unico parente che in diciassette anni di vita le aveva voluto realmente bene. Lui le aveva detto che doveva essere forte, che sarebbe uscita da quella situazione, che presto avrebbe potuto vivere la sua vita come una persona normale.

-Si, scusi.- Disse all’uomo mentre si avviava verso la segreteria. Doveva ritirare la chiave della sua stanza e prendere l’orario delle lezioni. Queste sarebbero iniziate quella mattina stessa, senza neppure dare ai ragazzi il tempo di ambientarsi. “Ma cosa mi aspetto, sono in un carcere”. Pensò tristemente.

La segreteria si trovava lungo il corridoio Ovest, la prima stanza a sinistra. Ginevra trovò al suo interno altre tre persone, un ragazzo dai capelli unticci e l’aria apatica, una ragazza dai capelli rosso fuoco, con due occhi verdi estremamente svegli, e un giovane che sembrava preso dal terrore al solo pensiero di passare un intero anno in quella scuola. A Ginevra venne da sorridere. La confortava il fatto che non fosse l’unica a desiderare di trovarsi in un altro posto.

La segretaria era una donna grassoccia, il cui mento sembrava non avere mai fine. Portava due occhiali spessi sugli occhi porcini e i vestiti scuri, troppo stretti, sembravano stare per esplodere da un momento all’altro. –Su, su, svelti!- Sbraitò la donna chiamandoli uno ad uno. Quando fu il suo turno, consegnò a Ginevra l’orario delle lezioni, una mappa della scuola e la chiave della sua stanza, la numero diciannove.

-Ei, ciao, piacere, Serena, Serena Stonebiss- Si presentò la ragazza dai capelli rossi, una volta che furono usciti dalla stanza. –E’ il primo anno anche per te? Quattro ragazzi nuovi che non siano del primo, è quasi un record da quel che ho sentito.-

-Oh…- fece Ginevra rimanendo spiazzata,-Piacere mio, Ginevra Cole… Record?- Chiese guardandola stupita.

-Si, di solito i nuovi iscritti non superano una persona. Sono in pochi i genitori abbastanza pazzi da mandare i propri figli qua dentro… tra questi c’è mio padre purtroppo…

“Parla tanto”. Pensò Ginevra sorridendo fra se e se. – Pensi che davvero sia così terribile questo posto?- Chiese alla sua nuova conoscenza.

-Mmmh… a giudicare dal custode rugoso e dalla balena cicciona… si direi di si-. Rispose Serena con una mezza risata. –Che stanza hai?- chiese poi guardando la chiave che aveva in mano.

-La diciannove… dovrebbe dare con la finestra sul cortile interno più piccolo-. Disse osservando la mappa che la segretaria le aveva dato insieme agli orari. “Molto meglio che avere la stanza davanti al cimitero…” pensò studiando la mappa. Questo si trovava sul lato nord della scuola, occupando una parte del più grande cortile interno. Ma cosa ci faceva un cimitero in una scuola?

-Oh, quell’ala della scuola è in disuso ormai da anni-. La infornò Serena, che aveva seguito il suo sguardo. –Mio padre mi ha detto che da quasi quarant’anni tutta l’ala Nord della scuola non viene utilizzata. Gli iscritti sono andati diminuendo di anno in anno e col tempo si sono resi sufficienti i tre piani dell’ala sud. Ci saranno si e no novanta studenti. Comunque, Io ho la ventuno, siamo vicine!

Ginevra sorrise sovrappensiero. Novanta iscritti erano pochissimi. Continuò ad osservare la propria cartina. La scuola era divisa in due sezioni da un grande cortile interno: la sud e la nord. Entrambe erano costituite da tre piani e sulla sua cartina era riportata solo quella ancora in uso. Il primo piano contava quasi quarantacinque dormitori, ospitava la grande biblioteca, la segreteria, i bagni pubblici e un piccolo cortile interno. Le aule delle lezioni erano quasi esclusivamente al secondo piano, dove erano presenti un’altra ventina di stanze per gli studenti; al terzo piano invece si trovava la mensa e il resto dei dormitori.

-Già…- Disse con un sorriso, tornando alla realtà. Si chiese cosa ci fosse nella parte inutilizzata della scuola, ma qualcosa dentro di lei le disse che sarebbe stato meglio non scoprirlo.

-Tra mezz’ora c’è la prima lezione, biologia, sarà meglio sbrigarsi-. Affermò poi Serena guardando l’orologio. Ginevra annuì e insieme si avviarono verso le proprie stanze.

-Troviamoci qui fra dieci minuti…- le disse una volta che furono arrivate davanti alla diciannove. Le annuì e dopo che la nuova amica fu sparita dietro l’angolo del corridoio entrò in quella che sarebbe stata la sua stanza per i prossimi due anni. Rimase allibita nello scoprire che non era poi tanto male. Le pareti erano di un intenso blu elettrico, la scrivania era posta sotto la finestra che dava sul cortiletto interno, sulla parete di sinistra un piccolo armadio color mogano avrebbe ospitato i suoi vestiti e affianco alla parete di destra un letto col materasso spoglio aspettava di essere avvolto da soffici coperte. Avrebbe voluto soffermarsi a dare un’identità a quella stanza, ma arrivare tardi alla sua prima lezione non sarebbe stato proprio il massimo. Posò la borsa con la propria roba sul letto, andò nel piccolo bagno per sciacquarsi il viso e si cambiò di abiti, mettendosi la divisa scolastica, composta da una gonna blu scuro, una camicetta a righe verticali bianca e blu, calze del medesimo colore della gonna e cravatta.  Dopo di che uscì dalla stanza giusto in tempo per vedere Serena che spuntava da dietro un angolo e si dirigeva verso di lei.

 

L’aula di biologia era sovraffollata da barattoli in cui esseri contorti levitavano in un liquido viscido e giallastro. I banchi erano suddivisi a due a due, in quattro file da cinque gruppi. Ginevra e Serena si sedettero nella terza, vicino ad uno dei grandi finestroni che dava sul cortile e sul cimitero.

-Bella vista.- Commentò ironicamente Serena.

Ginevra si perse ad osservare il cortile: era enorme, così tanto che non riusciva a vederne la fine. Sembrava un parco più che un semplice giardino e si chiese come facessero un tempo gli alunni a passare velocemente dall’ala Nord all’ala Sud.

Gli studenti fluirono nella classe a gruppi di due o tre. Fra di essi Ginevra riconobbe anche il ragazzo dall’aria apatica. Si sedette nella fila dietro di lei e prese subito a scarabocchiare su un foglio bianco. I suoi occhi grigi non si alzarono dal banco neppure quando il professore entrò in classe, ma quest’ultimo non sembrò neppure accorgersene.

-Bene-. Esordì l’uomo osservando gli studenti con due occhi grandi, di un marrone apatico,-Non starò a fare tante cerimonie, tre di voi sono nuovi, adattatevi alle mie lezioni o sarete bocciati. Non mi interessa delle difficoltà che troverete, affari vostri, badate solo a tenere il passo. Se i cinquemila dollari annui che i vostri genitori spendono per tenervi qua saranno sprecati, sarà solo colpa vostra, non di certo mia.

“Si inizia bene”, pensò Ginevra guardandolo perplessa. “Non che bocciare sia troppo un problema per i miei… si venderebbero l’anima pur di avermi fuori dai piedi…”

Il professore continuò a parlare per un’altra mezz’ora poi, improvvisamente, consegnò loro un test d’ingresso. La ragazza conosceva a malapena la metà delle risposte. Certi termini non li aveva neppure mai sentiti nominare.  Il tempo sembrava non scorrere mai, l’orologio batteva i secondi in modo lento e snervante mentre il foglio della ragazza rimaneva in bianco. Quando le due ore furono passate la situazione non era migliorata per nulla.

-Terribile, non trovi? Quell’uomo è odioso!- Esclamò Serena dopo che furono uscite dalla classe. La rossa aveva sbuffato spesso durante il compito, segno che anche lei doveva averlo trovato ostico.

-Era solo il primo giorno, magari migliora…- provò a dire Ginevra, senza neppure credere nelle proprie parole. Serena sbuffò alzando gli occhi al cielo. –Certo… speriamo solo che quello di storia della letteratura non sia peggio!

L’aula di letteratura si trovava a circa quaranta metri da quella di biologia. Quando entrarono Ginevra si sentì spaesata. Libri su libri erano ammassati dovunque, i banchi non erano predisposti come nell’aula precedente, ma a semicerchio intorno alla cattedra. Alla lavagna era segnato un nome, Tomas Melton, evidentemente scritto dall’insegnante che si teneva, pronto ad accoglierli, in piedi vicino alla porta. Nonostante i capelli brizzolati e le rughe che apparivano sotto i suoi occhi, l’uomo aveva un’aria giovanile. Era vestito in modo semplice con un paio di jeans e una camicia a scacchi sbottonata, sotto la quale appariva una maglietta bianca. Gli occhi erano di un azzurro intenso e emanavano un senso di cordialità e serenità. Ginevra lo salutò con un sorriso, chiedendosi se ci fosse la seppur remota possibilità che in quella scuola esistesse un professore con un minimo di umanità.

Si andò a sedere vicino alla finestra, seguita da Serena. Avere un esterno da osservare la faceva sentire meno prigioniera di quello che in realtà era.

Fu allora che lo vide per la prima volta. Si chiese come avesse fatto a non vederlo a biologia, si chiese come una persona del genere potesse passare inosservata agli occhi di qualcuno. La sua pelle era lievemente abbronzata, il suo viso, incorniciato da dei capelli castani, simili alla seta, era leggermente schiacciato, il naso perfetto portava lo sguardo dell’osservatore sulla morbida linea delle labbra, gli occhi verdi erano così profondi che Ginevra ebbe la sensazione di sprofondarci dentro.

-Ei! Non lo consumare!- le sussurrò Serena con una mezza risata. Il ragazzo sembrò accorgersi del suo sguardo e la osservò a sua volta.  Il cuore della giovane perse un colpo.  Lui le sorrise mestamente e poi tornò a concentrarsi sul professore che aveva appena iniziato a parlare.

-Buon giorno, ragazzi-.

Disse quest’ultimo dopo che l’ultimo studente si fu seduto. -Sono il professor Melton, il vecchio insegnante, il Signor Cullen è andato finalmente in pensione e io ho ottenuto la cattedra. Spero solo di non risultarvi palloso come era solito fare lui-. disse con una mezza risata seguita a ruota da quella degli studenti. –So di andare contro la tradizione di questa scuola ma sono convinto che uno studente vada coinvolto e non spaventato a morte.-

Si avvicinò alla cattedra per sedersi su di essa. Prese in mano il manuale di letteratura, “Roddy Rogers, volume 1”, recitava il titolo.

-Vedete questo?- chiese ai ragazzi indicando il libro. Potete anche gettarlo nel fuoco. Pieno di inutili e noiosissimi saggi critici. La letteratura va vissuta, bisogna capire che ha un’anima, non basta imparare a memoria ciò che dice qualcun altro per affermare di fare letteratura! Cosa che ormai in pochi capiscono!

-Penso mi piacerà quest’uomo…- bisbiglio Serena all’orecchio di Ginevra. La ragazza annuì. Piaceva anche a lei. Mai si sarebbe aspettata di trovare un insegnante così in quella scuola. Ma la sua attenzione era ancora attirata dal ragazzo seduto all’altro lato della stanza. Si voltò ancora una volta ad osservarlo, finche il signor Melton non tornò a parlare, costringendola a seguire ciò che stava dicendo.

-Per iniziare-, disse sfogliando le prime pagine del manuale,- strappate tutto il capitolo introduttivo. Ciò che serve sapere verrà fuori discutendo i testi.

E così dicendo strappò le prime sette pagine, le accartocciò e le buttò nel cestino. I ragazzi lo osservarono sconcertati. Immobili, finchè non si sentì risuonare uno strappo nella stanza. Il ragazzo che Ginevra aveva fissato sino a quel momento si alzò accartocciando le proprie pagine e le gettò nel cestino.

-Ottimo lavoro, Signor?-

-Parker, Jaren Parker, professore.- Rispose il ragazzo con un sorriso accattivante mentre tornava al suo posto. Il professore annuì compiaciuto. Dopo quell’episodio la classe si riempì di strappi e di fogli che si accartocciavano. Ginevra strappò le pagine dal proprio libro, confusa dalla presenza del ragazzo nella stanza e da quello strano metodo messo in atto dall’insegnante.

-Bene! Benissimo direi! Ora si che possiamo iniziare! Pagina otto, William Wordsworth. Trovo che “I narcisi” sia una delle poesie più belle che siano mai state scritte, almeno se non ci limitiamo a leggerla superficialmente. Signor Parker, premiando il suo spirito di iniziativa la invito a leggere la poesia.

Jaren annuì col medesimo sorriso e, senza neppure alzarsi iniziò a leggere. La sua voce suonò calda e avvolgente nel silenzio che improvvisamente era calato dentro l’aula.

 

Ho vagato solitario come una nuvola
Che galleggia in alto sovra valli e colline,
Quando a un tratto vidi una folla,
Una moltitudine, di narcisi dorati;
Accanto al lago, sotto gli alberi,
Svolazzando e danzando nella brezza.

Continui come le stelle che brillano
E scintillano sulla via lattea,
Si stendevano in una linea senza fine
Lungo il margine della baia:
Diecimila ho visto a colpo d'occhio,
Scuotendo le loro teste in un vivace ballo.

Le onde accanto a loro danzavano, ma essi
Fuori le scintillanti onde in allegria
Un poeta non poteva che essere gay,
In una tale società giocondo
Guardavo - e guardavo - ma poco pensiero
Che ricchezza lo spettacolo mi aveva portato:

Per spesso, quando sul mio divano mi sdraio
In vacanti o di umore pensieroso,
Essi balenano su quell'occhio interiore
Che è la beatitudine della solitudine;
E poi il mio cuore si riempie di piacere,
E balla con i narcisi.

 

Quando Jaren smise di leggere un leggero silenzio rimase nell’aria per qualche secondo. Ginevra si era ritrovata con gli occhi umidi. Non capiva il perché. Quella voce così profonda, unita a quelle parole avevano avvolto la sua anima di una soffice dolcezza. Osservò Jaren che aveva ancora lo sguardo fisso sulla poesia. Si chiese come fosse possibile che qualcuno riuscisse a coinvolgerla così tanto con il semplice suono della sua voce. Jaren sembrò avvertire nuovamente il suo sguardo e si voltò per sorriderle ancora.

-Bene. Bella interpretazione Parker-. Esclamò il professore Melton interrompendo quel silenzio. –Qualcuno adesso saprebbe dirmi cosa voleva dire il nostro Wordsworth con queste parole?

-Che si portava a letto gli uomini?- sghignazzò un ragazzo seduto a pochi posti da Jaren. Delle deboli risate seguirono alla sua battuta. Il professore si avvicinò studiandolo con uno sguardo ironico.

-Signor?- chiese serio.

 –Stones-. Affermò il ragazzo con aria di sfida. Il professore sorrise divertito. –Se ha dei dubbi sulla propria identità sessuale, Signor Stones, non se la rifaccia col nostro povero Wordsworth.

La classe scoppiò a ridere e il ragazzo sembrò sprofondare dietro il proprio banco.

-Qualcuno ha un’idea diversa?

Ginevra alzò timidamente la mano. aveva già studiato quell’autore nella sua vecchia scuola e, anche se non era certa della sua idea, provò a rispondere. Non aveva mai preso l’iniziativa ad una discussione in classe. Erano sempre stati i professori a porle delle domande per farle spiccicare almeno qualche parola. Ma adesso era diverso. Jaren era lì e lei non poteva passare da ragazza anonima.

-Sono Ginevra Cole, signore. – Disse la ragazza anticipando la domanda del professore che annuì con un sorriso di incoraggiamento dipinto sul volto. E Ginevra si fece coraggio.

-Bè, credo che il tema della poesia 'narcisi' sia una raccolta di emozioni umane ispirate dalla natura che possiamo avere trascurato a causa della nostra vita attiva. The daffodils imply rebirth, a new beginning for human beings, blessed with the grace of nature. I narcisi forse implicano rinascita, un nuovo inizio per gli esseri umani.

Il professore annuì soddisfatto. -Ottima interpretazione signorina Cole!

Ginevra sorrise compiaciuta e questa volta non fu lei a farsi scoprire a guardare Jaren. Infatti fu l’attenzione del ragazzo ad essere attirata. Ma non le sorrise come nelle altre due occasioni. La osservò come se lei gli apparisse in quel momento sotto una nuova luce. Il suo sguardo era dubbioso e interrogativo, poi una sfumatura di comprensione apparve sul suo volto.

“Ma che diamine… che ho detto di strano”, si chiese Ginevra distogliendo lo sguardo. Aveva solo risposto ad una domanda e non si spiegava quella reazione da parte del giovane. Provò a guardarlo nuovamente ma ormai l’attenzione di lui era nuovamente rivolta verso l’insegnante. Non si voltò più verso di lei e per tutta la lezione la giovane cercò di trovare il perché di quell’atteggiamento. Alla fine delle due ore Jaren uscì dall’aula senza degnarla di una minima attenzione. Ma Ginevra non ebbe il tempo di rimanere a pensare al ragazzo per un secondo di più. Serena la tirò per il braccio e con un sorriso la obbligò a seguirla lungo le scale che portavano al piano di sopra. Ginevra si lasciò trascinare, sperando di vedere il ragazzo a pranzo, ma non fu così.

 

   
 
Leggi le 7 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: Jan Wilde