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Autore: Figlia di Sephiroth    21/08/2010    1 recensioni
Storia fantasy con tipici protagonisti teenager. Il giorno del suo quindicesimo compleanno Chiara riceve un dono misterioso dai suoi amici, e guidata da una forza ignota finisce catapultata in una dimensione diversa dalla sua. Cosa vogliono da lei i Propiziatori? E chi sono i Guardiani dei Mondi di cui tutti cantano una strana profezia? Una storia d'avventura, amicizia e amore si intreccia con il destino di un universo spezzato tra le sabbie del tempo...
Genere: Avventura, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questo è un libro che iniziai a scrivere nel 1999, quando Harry Potter e Il Signore degli Anelli non avevano ancora scatenato la 'Fantasy Rush' nelle pellicole cinematografiche, e scrivere fantasy era ancora qualcosa di originale e innovativo. Purtroppo ora ce ne sono così tante di storie come la mia che non apparirà neppure originale nel suo contenuto. Non spero più che diventi un libro di successo, ma mi piacerebbe che divenisse il soggetto di una serie animata o un fumetto o anche un videogioco, perchè no? Chi lo sa chi potrebbe leggerla...

Dedico questo racconto a Golden, che mi ha reso quella che sono. E a tutti coloro che, quando ero sul punto di arrendermi, mi hanno risposto con un secco: “ma non dire fesserie.”

Lo voglio dedicare anche a te, Corinne. Ovunque tu sia. Comunque vada. E se mai un giorno dovessimo rivederci, vorrei presentarti Dante.

Ma a più di tutti ora lo dedico a Salem, mancato il 12 Marzo 2012. Grazie per essermi sempre stato vicino anche se non ho mai fatto niente per te. Il tuo amore disinteressato è un miracolo che rimarrà sempre nella mia memoria. Addio amore mio.
Chiara


Prologo: L’ANELLO

1

Fine della giornata.
La campanella suonò nel corridoio di una scuola come tante altre. Una scuola con banchi, aule, lavagne, professori e alunni come tanti altri.
- La prima campanella. Forza, ragazzi di Cerro fuori.
Finiva così un’altra giornata di scuola a inizio Maggio, un’altra giornata d’interrogazioni, verifiche, prese in giro e voglia di buttarsi dalla finestra perché eri stufo del mondo e il mondo era stufo di te.
Radunai in fretta la roba nello zaino, diedi un saluto alla classe (al quale risposero solo la professoressa d’italiano e il mio compagno di banco Fabio) e mi diressi verso l’uscita della scuola media. Dietro di me, sentivo i passi svelti, decisi e prettamente maschili di Ruggero e Alberto. Eravamo gli unici tre della classe che abitavano a Cerro Tanaro.
Come ogni altra giornata, scesi le solite scale e attraversai la solita porta che conduceva al solito parcheggio dove si aspettava il solito autobus che avrebbe rifatto la solita strada per portarci a casa.
Che vita monotona.
Ma cosa potevo pretendere? Non ero nessuno. Una ragazza di quattordici anni con nessuna differenza dalle altre se non un carattere chiuso e alquanto mascolino, una lieve cadenza genovese e una cicatrice da morso di cane sulla guancia destra. Non ero un pozzo d’intelligenza, a scuola facevo giusto il necessario a non essere bocciata (e l’anno prima non mi era comunque andata bene, visto che stavo ripetendo la terza media), non ero un’avventuriera, o un’atleta famosa, o un’attrice… cos’ero? Non lo sapevo. La prima cosa che mi detti in risposta fu: niente di speciale.
L’autobus si fermò davanti a noi con uno stridio che sarebbe risultato fastidioso se non fosse stato che per tutti noi ormai era sub udibile.
Mi sedetti senza neanche guardare l’interno dell’abitacolo sul primo posto vuoto che c’era e mi levai lo zaino. Lo aprii e riordinai le cose. La schiena mi faceva male e non volevo spigoli fastidiosi sulle costole mentre marciavo verso casa.
- Ehi, cavalla, ma non usi la sella anziché lo zaino? – esclamò un grosso ragazzo di colore in fondo all’autobus, scatenando un’esplosione di risa tra i suoi compagni.
Sospirando, presi il diario e lo misi davanti al libro di storia mentre replicavo senza il minimo entusiasmo. – No Eduard, basti già tu come animale…
Eduard ribatté con il suo più esplosivo invito a dare via il mio corpo per denaro su un’autostrada come sempre faceva quando non sapeva che dire, gli altri risero e tutto tornò inesistente per me. Mi ero stancata di ascoltarli.
Scendemmo dall’autobus pochi minuti dopo nella solita piazza del solito paesino. E mi chiesi se fosse mai capitato che il conducente per una svista si fosse fermato in Guatemala anziché lì. Probabilmente no. Saluti tra amici e battute di scherno (sicuramente almeno una era rivolta a me, ma non lo scoprii mai e neanche m’importava) invadevano le mie orecchie, ma non le sentivo, ero troppo persa nei miei pensieri. Come sempre.
A dire il vero stavo pensando ad una cosa banale, una di quelle cose senza senso tipo: quasi quasi oggi mi butto dall’Everest e poi mi faccio una nuotata fino in fondo alla Fossa delle Marianne…
Fu strano e allo stesso tempo normale, ma fu proprio il soggetto di quei pensieri a ridestarmi dalla mia “trance meditativa”.
- Spostati, cavalla!
La voce di Alberto fu quasi come un fulmine a ciel sereno: l’Everest e la Fossa delle Marianne dei miei pensieri sparirono all’istante.
- Eh?
- Ho detto “SPOSTATI”.
Mi scansai di lato mentre Alberto mi spingeva con una spallata da giocatore di rugby e gli occhi fissi sulla strada. Wow! Un contatto fisico! Era un inizio.
“Se fossi la Chiara di un tempo ti avrei già dato un pugno da farti vomitare quello che devi ancora mangiare…”
Ma non ero più la Chiara di un tempo, fredda e violenta come un bulletto di strada. Ora ero sensibile, anche troppo. Bastava una giornata di sole a far sì che ridessi tutto il giorno, e il cielo grigio mi rattristava. Anche se la pioggia mi piaceva. Oh sì.
Era stato il ritorno in campagna a cambiarmi, sicuramente. Non vestivo più di nero, non avevo più le sopracciglia continuamente corrugate verso il basso e il sorriso mi veniva alle labbra molto più spesso. Solo quando andavo a scuola tutto diveniva grigio, e non era certamente colpa dello studio. Erano gli alunni. Il mio ritorno alla sensibilità umana, che la misantropia un tempo mi aiutava a non avere, mi aveva procurato quell’inguaribile bisogno che tutti i sensibili hanno: la necessità di avere amici. E pensare che ad Alessandria ne avevo anche… come dimenticarmi di Andrej, Michele, Davide, Simone e gli altri? Non li vedevo più da un anno ormai… proprio quando avevo cominciato a sentirli indispensabili per me. Il giorno del trasloco da Alessandria a Cerro Tanaro ricordo di aver pianto per loro.
E adesso, il bisogno si faceva risentire, più forte che mai. Era difficile per me, che dopo essere stata bocciata in terza media mi ritrovavo a ripetere l’anno dell’esame con ragazzi sconosciuti che si conoscevano tra loro già dalle elementari, e per di più in un paese nuovo. Io per loro ero probabilmente solo una stupida ragazzina venuta dalla città, che non parlava d’altro che di cavalli e videogiochi, non sapeva vestirsi bene e a cui non piaceva truccarsi. Avevo voglia di parlare, di ascoltare, di avere qualcuno a fianco, ed era una cosa di cui avevo paura più che dei cani rabbiosi. Non volevo più perdere nessuno, e per non perdere nessuno, bisogna non avere nessuno.
Ma l’amicizia è come una droga: è bella, ti fa avere allucinazioni e soprattutto si fa sentire ancor di più quando cerchi di farne a meno. Se così era la droga, almeno. Non ho mai avuto ne l’occasione ne il desiderio di verificarlo.
Purtroppo, almeno al momento, non potevo farci niente. Così m’incamminai verso casa, passando davanti all’auto parcheggiata dove il padre di Ruggero aspettava il figlio per portarlo a casa o chissà dove, e prima ancora che passassi vicino al finestrino, lui alzò la mano. Doveva avermi visto dallo specchietto, comunque risposi al suo saluto con un sorriso tanto smagliante quanto falso, non ero decisamente in vena.
Feci per attraversare il sottopasso del treno quando Alberto m'invase di nuovo la mente, con la forza di un uragano. Mi girai verso la curva che precedeva il sottopasso dove dopo ogni santa giornata di scuola quel cafone svoltava per andare a casa. Riuscii a intravvederlo all’ultimo istante, prima che sparisse dalla mia vista, mi accorsi di guardarlo con occhi languidi senza volerlo e ripresi la solita strada che mi portava a casa.
“Dannazione! Ma perché proprio lui?”, pensai, “perché proprio io?”
Mai mi sarei aspettata che sarebbe successo. Mai.
Da piccola dicevo sempre che non mi sarei mai innamorata. Quanto avevo torto.
“Coglierai l’attimo, Chiara”, mi dissi, “Carpe diem”.
Costeggiai un piccolo tratto di ferrovia, come sempre. Non passò nessun treno, il che per me fu in parte un sollievo, perché ogni volta che accadeva dovevo allontanarmi per non beccarmi i sassolini che rimbalzavano sulle rotaie. E poi, così potevo sentire i “suoi” passi. Era incredibile, non credo di aver mai conosciuto uno che si emozionava solo a sentire i passi di una persona. Non avevo un udito così sviluppato, eppure, nonostante “lui” fosse dall’altra parte dell’argine, riuscivo a sentirli.
A malincuore, dovetti lasciare la ferrovia, per curvare nella strada asfaltata che conduceva a casa mia, una cascina enorme, con tanto di campi, tavernetta, capannone, fienile, serra e stalle. C’era anche un lago che pullulava di pesci, e un cortile tanto ampio da poterci atterrare con un dirigibile.
Attraversata la strada, inspirai a fondo saggiando l’aria frizzante che m’inebriava, dandomi così la forza per affrontare la terribile salita che mi portava finalmente a destinazione. E pensare che quella marcia me la dovevo ripetere ogni mattina per la scuola, andata e ritorno, qualunque tempo ci fosse! Mi riaffiorò alla mente il ricordo di un giorno in cui pioveva a dirotto e il cielo tuonava in continuazione, avevo una paura tremenda! Amavo le piogge, anche se pesanti, a patto che non vi fossero fulmini o tuoni, neppure in lontananza. Invece là ce n’erano eccome! E io avevo dovuto camminare fino a casa sotto la pioggia con come unica copertura la maglietta e i pantaloncini!
Con un ultimo sforzo, arrivai in cima alla collina. Desideravo entrare in casa, lasciarmi cadere sulla poltrona e guai a chi mi smuoveva da lì. Ma avevo ancora una cosa da fare…
Svoltai a sinistra in direzione delle stalle, ma prima ancora di arrivarci, m’imbattei in Mandy, la femmina di pastore tedesco dei padroni di casa, che mi fece un mare di feste. Avevo voglia d’inginocchiarmi davanti a lei, di accarezzarla e coccolarla, ma sapevo che, se lo avessi fatto, per la stanchezza non mi sarei più rialzata. Ero sfinita nel modo più assoluto, così mi limitai ad accarezzarle la testa.
- Ehi Mandy, vuoi venire con me alla stalla a vedere come stanno i ragazzoni?
Camminai, non so come, a passo svelto verso la scuderia, con Mandy che mi trotterellava attorno. Appena arrivata trovai però una grossa sorpresa: la macchina di Mauro.
Svoltai l’angolo e vidi Mauro in un’animata conversazione con Mister Stormy Night, Stormy per gli amici. Che nome…avevo provato a convincere Mauro a cambiarglielo, ma lui aveva risposto che, avendo quasi vent’anni, ormai vi era abituato e non conveniva dunque rinominarlo. Peccato, perché io quel nome non lo vedevo bene addosso a quel Paint-Horse.
Era un animale superbo, pezzato marrone-bianco, quello che i bambini chiamano “il cavallo degli indiani”, piccolo ma forte, zampe corte ma veloci, e uno spirito sempre pronto alla competizione di velocità: tutto il contrario del mio adorato Golden.
Mauro si voltò nella mia direzione e il suo cavallo lo imitò.
Mauro era il compagno di mia madre. Un tipo giusto: severo ma sempre pronto allo scherzo. Abitava ad Alessandria e veniva ogni fine settimana a vedere come stava il suo cavallo, che era mantenuto da me e il mio amico Dante in cambio di un regolare salario... o forse alla mia età avrei dovuto chiamarlo 'paghetta'.
Andai verso di loro, senza fretta, senza niente da chiedere. Mi sentivo sulla schiena tutto il peso dello zaino come se fosse raddoppiato. Era quasi pieno. Dopo tre anni di scuola media (quello il quarto, ahimè), avevo imparato che era sempre meglio portarsi dietro qualche libro in più. Ma quel giorno avrei potuto farne a meno; avrei potuto portare solo il minimo essenziale per evitare una nota sul diario, alleggerendo così il carico di almeno tre chili. Ma ormai quel che era fatto era fatto. Perciò non potevo farci niente, sebbene volessi tornare indietro fino a quella mattina quando avevo preparato la cartella. Ne provavo più di un vago desiderio.
Sotto lo zaino, i miei indumenti non erano certo quelli che le mie compagne avrebbero definito “alla moda”, cosa che tra l’altro non rientrava nei miei interessi. Tenevo la camicia a scacchi rossi bordeaux aperta dalla gola al petto, con una scamiciata sotto di essa. I miei calzoni erano di jeans, talmente scoloriti da non poter più rientrare nella categoria  “blue”.
Passai davanti al box di Golden che subito si affacciò (ma non era un cavallo che amava farsi accarezzare quando era chiuso e persino io facevo fatica a convincerlo ad avvicinarsi alla porta se non avevo qualcosa per lui) e mi vide, salutandomi con un nitrito flebile. Di piccole dimostrazioni d’affetto nei miei confronti come quella, a riaffermare la sintonia tra me e quel meraviglioso animale, non mancavo mai di rallegrarmi. Distesi le labbra nel volto sudato e accaldato. Mi fermai a guardarlo.
Non passava giorno che lo guardassi senza che mi paresse il più bel animale sulla faccia dell’universo. Il suo mantello non era candido o color della cenere, come quasi tutti i cavalli che preferivo. Un marrone lucido e compatto, con un riflesso pomellato sulla groppa. Le ginocchia e i garretti, come i crini, erano neri, mentre invece le estremità, il ventre e il muso erano bianchi e immacolati, a parte qualche linea di sangue secco delle punture dei tafani. E quella particolare macchiolina bianca che aveva sul dorso, il suo segno di riconoscimento, che spiccava come un diamante in mezzo a dei rubini. Ma non era quello che mi piaceva più di lui. No, non la sua struttura monumentale che contraddistingueva la sua genealogia dagli altri cavalli. E neppure i suoi occhi, grandi ed espressivi, che parevano contenere galassie. Quello che mi piaceva di lui era che mi apparteneva. Era “mio”.
Premetti le dita sul labbro inferiore di Golden, che schiuse i denti. Li appoggiò sulle mie dita, ma non strinse. Non lo faceva mai. Era a casa mia da quasi due mesi, e mi conosceva bene ormai. E da sempre quel gioco di fiducia reciproca era stato il nostro modo di salutarci, riconoscerci, come due amici che si battono il cinque. Forse questo suo comportamento aveva un significato preciso, tipo un alfabeto per muti. “Ciao”. Oppure, “quando usciamo?” Oppure persino, “dove sei stata?” Quei saluti erano piacevoli come tutti quelli che li avevano preceduti. Mi voltai verso Mauro, che era rimasto in silenzio a guardarmi arrancare come un mulo sul punto di morte.
Non riuscivo a decidermi cosa dirgli; il pensiero di Alberto, affilato come la lama di un rasoio, aveva nuovamente invaso i meandri della mia mente. Non ero mai stata brava a nascondere il mio disagio nei suoi confronti. Mai. Solo quando c’era qualcosa di più bello o di più odioso, riuscivo a scacciarmelo dalla testa.
Chinai la testa e mi concessi un sospiro di stanchezza. Non aprii bocca fino a quando non sentii il mio respiro regolarsi e il sudore asciugarsi nella parte circostante il collo. Mauro non disse niente. Stava per mettersi a ridere, ma si tratteneva. Si girò e andò dietro l’angolo, in direzione del cancello del recinto. A fatica lo seguii, con Mandy alle calcagna.
Questa mi saltò involontariamente su un piede, ma per merito dei cavalli vi ero abituata, con tutti i pestoni che ho preso sin dall’infanzia, e quindi non sentii più di un vago fastidio. E questo mi faceva piacere. Era come sapere di avere un dono speciale…
Dono?
Finalmente, seppi cosa chiedere a Mauro.
   
 
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