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Autore: Figlia di Sephiroth    21/08/2010    0 recensioni
Storia fantasy con tipici protagonisti teenager. Il giorno del suo quindicesimo compleanno Chiara riceve un dono misterioso dai suoi amici, e guidata da una forza ignota finisce catapultata in una dimensione diversa dalla sua. Cosa vogliono da lei i Propiziatori? E chi sono i Guardiani dei Mondi di cui tutti cantano una strana profezia? Una storia d'avventura, amicizia e amore si intreccia con il destino di un universo spezzato tra le sabbie del tempo...
Genere: Avventura, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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2

Ero disceso dagli ultimi gradini tirandomi dietro lo zaino, che si aggirava tra le sette, otto tonnellate. Tre giorni fa ero riuscito a imparare a memoria l’orario scolastico e ora cominciavo ad avere dei dubbi al riguardo, era troppo pesante. Mi dirigevo all’uscita della scuola stando dalla parte sinistra del corridoio. Così, avrei raggiunto più facilmente il palo dove dovevo incontrarmi con Andrej. Non era granché come luogo d’appuntamento. Meglio che niente, perché era facile perdersi nella folla che c’era all’uscita del liceo. Ormai vi ero abituato.
Cinque ore dietro ai banchi e già pensavo che non ne potevo più quando lessi il programma d’università di uno del quinto anno. Da star male.
Andrej, un ragazzo rumeno sorprendentemente alto con un taglio a spazzola che lo faceva sembrare più vecchio di quanto non fosse, era uscito dal suo liceo e si stava dirigendo verso il palo. A un mio passo, Andrej levò vivaci occhi neri che in un attimo mi inquadrarono. Sollevò entrambe le mani in un breve cenno di saluto e le riportò dietro le cinghie dello zaino per alleggerirsi la schiena, percorrendo a testa china il marciapiede a ridosso del Liceo Scientifico Galilei e gettandosi oltre la spalla una lattina di coca-cola che cadde dritta dritta nel grande bidone dell’immondizia aperto, risuonando rumorosamente contro la parete interna. I corti capelli si piegavano appena sotto il vento che giungeva forte e fresco dal Tanaro, risanando gli alessandrini accaldati.
Gli andai lentamente incontro, tirando le cinghie dello zaino per alleggerirlo. Mi girai a guardare un vecchio che attraversava la strada borbottando parole confuse, probabilmente frasi con come tema principale i “bei tempi andati”.
- Ciao Poppa.
- Ciao gay. -, rispose il mio amico raggiungendomi. Ci salutavamo sempre così. Io con quello storpio del suo cognome e lui con gay. Lo dicevo spesso anch’io, ma il nostro gay non era offensivo, era un modo come un altro di chiamarsi. Originale, d’altronde. C’erano i fratello, i kumpa, e tanti altri. Era un modo di riconoscerci.
- Ho una fame tremenda. -, annunciò. - Andiamo a farci una pizza, ma non da Pane&Company. Ti spennano là. Sono dei ladri. - Mandò una risatina. - E io non sono un miliardario.
- E neanch’io.
- Già.
Ci avviammo in silenzio verso la pizzeria più vicina.
Andrej mi aprì il palmo della mano davanti al naso. - Guarda qua.
Strizzai gli occhi per mettere bene a fuoco le immagini. Quando capii di cosa si trattava, dovetti controllarmi dal non saltare dall’emozione.
- Accidenti -, esclamai vivacemente. - Non è possibile… tu… come li hai…?
Il mio amico inarcò le sopracciglia con un sorriso malizioso.
- Giorni e giorni di faticosissimo rompicoglionimento ai miei genitori, mio caro -, disse Andrej, solenne. - Con l’aggiunta di qualche lavoretto in casa.
- E ti hanno dato venti euro?! -
- Eh… Più di così non ne volevano sapere -, rispose Andrej. - Una volta ho chiesto a mio padre cinquanta euro per la pulizia completa della macchina. - Il suo sguardo vagò per un istante oltre la strada che ci divideva dalla pizzeria Pinco Pallino, con occhi vacui. - Mi ha quasi riso in faccia. Dico quasi, perché ha voltato la faccia di cinque o sei gradi prima di scoppiare in un attacco di spasmi vagamente simili a risa. Hai idea del perché io li abbia pretesi?
- No. - Voltai a destra e aprii la porta del locale. Andrej mi seguì dentro e si avvicinò al banco con uno sguardo disinteressato al menù sul muro.
- E vorrai saperlo, suppongo.
- Sì. - Mi affiorò alle labbra l’inevitabile interrogativo: - Da quanto tempo ce li hai?
Andrej si strinse nelle spalle. - Non saprei. Non ho una gran cognizione del tempo. Più di due giorni, meno di una settimana. Comunque, riguardo allo scopo, sappi che dovresti saperlo molto bene. Sforzati di ricordare.
- Sai che non sono fatto per queste cose. Se non mi ricordo qualcosa, è mooolto difficile che mi torni in mente -, dissi io.
- Sette maggio ti ricorda nulla? - volle sapere Andrej.
Scossi la testa. - No. So che l’uno è un giorno festivo. Ma il sette, quello non dice proprio niente.
Il mio amico ordinò una margherita e si sedette ad un tavolo vicino alla vetrina della pizzeria. Subito lo imitai e mi misi di fronte a lui, buttando uno sguardo al traffico di Corso Cento Cannoni.
- Me lo vuoi dire o no? Che mi risulti, non sono ancora in grado di leggere nei pensieri degli altri!
Andrej inarcò un sopracciglio. - Non è nulla che ti riguardi. E’ una cosa che……riguarda…… qualcuno che……come dire…conosciamo. Una specie di… eh, ma se te lo dico, lo capisci! Se parlo sempre io non va bene - Fece una pausa durante la quale si udivano solo lo strombazzare dei clacson e gli schiamazzi dei clienti nel locale. - Chiedimi qualcosa tu.
- Qualunque cosa?
Andrej annuì quasi impercettibilmente, di scatto. - Qualunque. Allora?
- Cos’è?
- Non vale.
- Sì che vale, invece. Hai detto qualunque cosa, avanti!
Un’emozione improvvisa, reciproca e profonda, passò nello sguardo da me al mio amico, lui fermo sulla sedia un po’ girata verso il banco, io in bilico su due gambe di una cosa sporca e scucita che si poteva chiamare sedia solo perché ci si riusciva a sedere senza il timore che non ti reggesse. Poi aprii la bocca per dire la mia.
- Aspetta. - Andrej sospirò e alzò gli occhi al cielo. Chiusi la bocca e inconsciamente mi avvicinai lievemente con l’orecchio, quasi stessi per venire a sapere il segreto della vita…
- Chiara Foschiani. -, disse, quasi ridendo.
- Cosa? -, domandai, allibito.
- Non te la ricordi, Michele?
- No no! E come dimenticarla, quella ghea? Solo… cosa c’entra lei?
- Tra due giorni, ossia il sette maggio, è il suo compleanno!
- E allora? - chiesi.
- E allora? E’ l’occasione perfetta per una rimpatriata, no? Andiamo a trovarla a casa sua, come facevamo ai tempi delle medie. Non vedo l’ora di farla svenire dalla sorpresa!
- Cribbio, è un anno che non ci vediamo… Non mi sembra vero… - mormorai.
- Ma lo è, Michele, lo è! 
- Sì, ma… Che cosa le prendiamo?
- Bè, è qui che entri in gioco tu, amico!
- Io? E perché mai?
- Dopo tutto questo strategare e ingegnare, il mio unico neurone cerebrale ha dato il prepensionamento!
- Ah. Grazie.
- Ehi, non ti entusiasmare troppo, eh -, commentò il ragazzo. Si alzò, prese le pizze sul bancone e le posò sul tavolo, risiedendosi. - Tranqui, ti darò una mano. Buon appetito!
Mangiammo tutto senza lasciare nemmeno una briciola. Una volta finito, uscimmo per dirigerci in quel posto malsano, pieno di negozi e traboccante di gente che era Corso Roma. Camminando per l’affollata strada, riflettei sul lavoro che doveva essere stato necessario per la costruzione di quel posto, almeno due anni a costruire mattoni, trasportarli, posarli. I negozi erano belli ma pieni di robaccia inutile che piaceva solo a quei truzzoidi che seguivano la moda e per giunta costavano tutti gli occhi della testa tua più uno del tuo amico. Stavano giungendo alla fine della via, quando Andrej sbuffò così forte da spaventare la coppia di vecchietti che ci precedeva.
- Affanculo a questo posto, cambiamo aria! -, mi esortò.
Svoltammo in una stradina che non avrebbe potuto ospitare due file di moto parcheggiate, Via delle Orfanelle. A metà di essa c’era un passaggio che avrebbe potuto essere attraversato comodamente solo da un gatto…magro. Lo avevamo appena oltrepassato, quando un brivido mi si arrampicò dal coccige fino alla nuca, facendomi rizzare i cappelli.
Voltai la testa di scatto, colto di sorpresa. L’area d’ombra di quella stradina era lunga almeno cinque metri, abbastanza perché un barbone potesse spaccarci i crani con una bottiglia rotta, per poi rubarci tutto ciò che avevamo (e questo è il lato meno preoccupante, dato che avevamo 25 euro in due). Un pazzo o un tossico non ci avrebbe mai pensato, ma i barboni non erano né l’uno né l’altro. Però mi erano simpatici, perciò scartai quel pensiero dalla mente e raggiunsi Andrej, che era troppo occupato a trovare un buon momento per attraversare per accorgersi che non ero più al suo fianco. Fosse pure quel che doveva essere.
Quando varcammo la soglia di quel negozietto d’antiquariato e scendemmo i gradini dell’ingresso (il vano commerciale vero e proprio si trovava sotto il livello del suolo, in modo da conservare la temperatura più fresca delle notti), trovammo un vecchio occupato a spolverare con un pennellino alcune brocche di terracotta sistemate fra gli scaffali di quella che doveva essere stata una libreria ai tempi di Napoleone. Su una cassapanca coperta erano posati una vecchia cassa e un piattino per il resto. In una pignatta appesa ad un attaccapanni quanto mai preistorico erano messi in modo particolarmente disordinato delle piccole bacchette da scuola.
- Desiderano?
Andrej non smise di guardarsi attorno. - Abbiamo solo 25 euro. Cosa possiamo permetterci?
La risatina del vecchio risuonò come un grugnito. Si girò con la testa versò un angolo buio in cui c’era una vecchia cassa da morto, alzò il braccio e gracchiò:
- Lì dentro.
Poco dopo era di nuovo preso dai cocci, mentre noi ci dirigevamo alla bara. Un cigolio accompagnò il gesto con cui io e Andrej alzammo il coperchio, saldato con due cardini di fortuna al lato opposto della cassa. Rintocchi ritmici segnalavano ogni tanto il nervoso ma cauto spazzolare del vecchio sui  cocci, tic-tic-tic. Rovistammo delicatamente tra le cianfrusaglie. E’ incredibile la capienza di una cassa da morto, c’era di tutto. Erano ormai dodici minuti che guardavamo, quando lo trovammo.
Tic-tic-tic.
Un anello, mi sembrava, piuttosto semplice. Argentato e con una strana pietra dal colore indefinibile a forma ovale. Poco importava. C’erano anelli più belli ad Alessandria, ma erano anche più costosi. Lo portammo al vecchio, che lo guardò sbalordito. Poi passò quello stesso sguardo da me ad Andrej. Ci chiese se eravamo sicuri di quella scelta, annuimmo. Mormorò il prezzo. E che la parte con la pietra doveva essere voltata dalla parte del palmo anziché da quella del dorso.
Tic-tic-tic.
Stava ancora pulendo quando uscimmo, ma più lentamente. Si capiva che ci stava guardando.
Non lo scoprimmo mai, ma la sua vita uscì con noi.
   
 
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