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Believe in miracles
~ Why did you have to go and leave my world
so cold?
«Ma
che sta succedendo?»
«Non
può essere. Deve trattarsi di un errore…»
«Potete
fare silenzio per un attimo?»
Misi
a tacere le illazioni senza meta dei presenti – un paio di amiche con i
rispettivi mariti e figli venuti a salutarmi in un ozioso lunedì sera
– avvicinandomi al televisore ed alzando il volume fin quasi al massimo,
senza prendermi il disturbo di andare a cercare il telecomando finito chissà
dove. Alle immagini dello schermo, che già da sole mi avevano fatto
franare il terreno sotto i piedi, si aggiunsero suoni e parole che mi
sprofondarono definitivamente in un posto buio e freddo.
«… E siamo addolorati di dover
annunciare che il Re del Pop non ce l’ha fatta. In seguito
all’arresto cardiaco avvenuto alle ore 12.20 circa, Michael Joseph
Jackson si è spento intorno alle sedici di questo pomeriggio nella sua
villa a Holmby Hills, Los Angeles, lasciando dietro
di sé un mondo intero in lacrime e centinaia di milioni di fan in preda
all’incredulità e alla disperazione. Il medico personale
dell’artista, Conrad Murray, per ora si è rifiutato di rilasciare…»
Di
colpo non sentii più niente. Né le parole dello speaker in
sottofondo al filmato dell’ambulanza ripresa dall’alto di un
indifferente elicottero, né le esclamazioni di sorpresa e sconcerto di
quelle persone che erano con me e che all’improvviso mi sembravano
estranee, né le lacrime ed i singhiozzi di una di quei bambini –
che in qualche modo erano l’unico eco di ciò che avevo dentro io.
Mi
lasciai cadere a sedere sulla poltrona dietro di me, perché non
c’era più nulla – non
poteva esserci più nulla – a sostenermi.
Nell’abisso
in cui mi trovavo fluttuava un solo pallido pensiero.
Erano
passati vent’anni dall’ultima volta che lo avevo visto.
Erano
passati vent’anni e per me non era cambiato niente.
Erano
passati vent’anni, e adesso il tempo non sarebbe passato più.
Dopo
quel giorno, vivere era diventato una fredda, vuota faccenda fatta di
camminare, respirare, mangiare, dormire. E questo non sempre riuscii a farlo,
nelle prime notti seguenti a quella maledetta notizia data al mondo dalla CNN.
Continuavo a giacere immobile nel buio – quello dentro di me e quello
della stanza in cui avevo sempre dormito sola, senza desiderare una compagnia
che non sarebbe mai stata quella giusta, perché non sarebbe stato lui; a cercare di capire perché il mio cuore continuasse a
battere, perché non si fosse fermato, rifiutato di andare avanti. E a
piangere, soprattutto.
Avevo
quarantanove anni, eppure avevo ancora delle lacrime da piangere.
Mi
telefonarono in molti, mi chiesero se avessi sentito. Certo che avevo sentito.
Mi dissero che per me doveva essere davvero doloroso. Certo che era doloroso.
Mi parlarono per ore nelle orecchie e nessuno di loro riuscì anche solo
minimamente a tirarmi fuori dal baratro, a mostrarmi di nuovo uno spiraglio di
luce, a ricordarmi come si respirava e come si viveva.
Il
giorno in cui mi telefonò Craig, per la prima volta mi permisi di
piangere anche al telefono.
Non
c’è bisogno che parli dello Staples
Center. L’America ed il mondo intero hanno visto quella bara coperta di
fiori rossi come il sangue, hanno visto le migliaia di persone raccoltesi
insieme a ricordare con affetto e dolore infiniti un uomo che aveva
rappresentato e che rappresenterà sempre l’icona per eccellenza
della musica; hanno visto le lacrime di Paris Jackson
e hanno sentito le sue parole tanto disperate da strappare letteralmente il
cuore.
Non
c’è bisogno che ne parli. Non c’è bisogno di evocare
quelle immagini, perché sono certa che, così come sono stampate
in modo indelebile nella mia mente, infestano anche il ricordo di chiunque
abbia conosciuto un minimo di ciò che Michael è stato e
sarà per sempre.
Arrivai
in quel posto da sola. Seguii il memoriale con l’unico conforto di un
paio di occhiali scuri a nascondere il vuoto che mi riempiva gli occhi. Sentii
persone che conoscevo solo di nome parlare di lui, cantare di lui, interpretare
le sue canzoni e cercare di farsi forza a vicenda nel diffondere ancora una
volta quel messaggio universale che è la sua musica. Tutto mi sembrava
irrimediabilmente lontano, alieno – e in uno sprazzo di gelida
lucidità mi dissi che c’erano così tante cose che non avevo
saputo di lui, che non gli avevo mai chiesto: non sapevo come fosse stato
vivere a Neverland, non sapevo quali favole
raccontasse ai suoi bambini per farli addormentare; non sapevo se a qualcuna di
quelle persone avesse mai parlato un po’ di me, e non avrei mai saputo se
quella Brooke Shields che
era scoppiata in lacrime al microfono lo avesse amato almeno la metà di
quanto lo amassi io.
Il
mio sogno era durato così poco, eppure ancora adesso era in grado di
farmi così male.
Poi
finì tutto, e io mi alzai, mi voltai e mi ritrovai faccia a faccia con
Craig.
Cresciuto,
diverso, ma sempre Craig. Perché Craig c’era sempre, anche quando
era lontano.
Mi
guardò con gli stessi occhi di vent’anni prima, di quando era solo
un ragazzo dalla risata facile e dai modi rudi ma generosi; tuttavia adesso in quello
sguardo c’era un dolore che non avevo mai visto, che lui non aveva mai
mostrato a nessuno.
Allargò
le braccia, semplicemente, e con altrettanta semplicità mi tolsi gli
occhiali e gli diedi in cambio il mio
dolore, cercando l’effimera protezione del suo petto.
Mi
lasciò piangere ancora una volta, e solo quando smisi di tremare
chinò il viso e mi bisbigliò poche parole all’orecchio.
«Vieni
con me. C’è una persona che vuole parlarti.»
Quando
la vidi faccia a faccia, Katherine Jackson stava parlando con Frank DiLeo.
La
riconobbi subito. Gli anni avevano scavato altre rughe nella sua pelle scura e
i recenti avvenimenti avevano di certo spento la luce che in altri momenti
aveva animato il suo sguardo. Era stanca, visibilmente esausta. Disperata. Di
una disperazione che andava al di là delle lacrime.
Però
mi guardò apertamente negli occhi, e allora mi sembrò bellissima,
splendente, forte. Venne verso di me,
pronunciò il mio nome e senza un’altra parola mi abbracciò,
come aveva fatto Craig. Mi chinai a ricambiare la sua stretta di piccola madre
cui la vita aveva strappato un figlio nell’ultimo e più doloroso
modo possibile; al di sopra della sua spalla, vidi Frank distogliere lo sguardo
in preda all’imbarazzo.
Forse
lo odiavo, in quel momento. Ma l’unica cosa che riuscivo a chiedermi era
quanto potesse fare male alla signora Jackson abbracciare me con
l’inutile illusione di star stringendo a sé una parte di Michael.
Katherine
mi invitò alle esequie private, a Neverland.
Sul
momento non avevo intenzione di andare. Neverland non
sarebbe più stata Neverland senza Peter Pan;
sarebbe appassita, morta, e io non volevo vederla così – non senza
averla mai neppure vista come era al suo massimo splendore, quando Peter Pan
volava nei suoi cieli con il suo sorriso bambino stampato sulle labbra.
Non
ci sarebbe stato modo di cambiare le cose sussurrando ad una lapide Io credo nelle fate. Questo non era un
libro né un film; era la realtà – dura, inspiegabile e
soprattutto inaccettabile, ma la
realtà. Non c’era la possibilità di presentare uno
scontrino ed averne in cambio un’altra.
Fu
di nuovo Craig a farmi cambiare idea. Mi disse che se Katherine Jackson mi
aveva invitata lì, allora qualcuno considerava giusto che io ci fossi, che fossi lì insieme alle persone
più importanti della vita di Michael. E mi disse che allora, forse, lui
avrebbe voluto la stessa cosa.
Ci
andai.
Non
voglio raccontare come sia stato lungo, silenzioso, vuoto il tragitto fin
lì. Non voglio ricordare quello che lessi nei visi di chi trovai ad
aspettarmi. Non voglio neppure pensare a quei bambini distrutti, vestiti di
nero, in viso l’espressione di chi è costretto a crescere in
fretta di fronte alla nuda e cruda verità: le favole finiscono e il per sempre felici e contenti non
è altro che una bugia.
Ma
non voglio neanche dire che Neverland fu la parte
più dolorosa dell’intera storia, perché non è
così.
Sembra
assurdo dirlo, e di certo mi sembrava impossibile in quel momento, eppure
è a Neverland che mi sono rialzata.
L’impulso
mi venne dalla vista dei fan fuori dai cancelli. Gente in lacrime, gente con i
cerotti alle dita ed in testa i cappelli di Billie Jean. Gente che urlava il nome di Michael Jackson e lasciava
scritte per lui e gridava e cantava e anche se non poteva oltrepassare quei
cancelli era lì con noi e con lui, per
lui.
Mi
servì molto. Mi servì a ricordarmi che lui era stato la
dimostrazione vivente che, invece, le favole possono essere una realtà.
Che
la favola finisca è poi inevitabile ed inevitabilmente spiazzante. Ma si poteva sognare. Me l’aveva
insegnato lui.
Mi
aveva insegnato a credere nei sogni e nei miracoli. Era stato il mio sogno e il mio miracolo.
Quel
giorno, in un’Isola Che Non C’è vuota del suo Peter Pan,
alzai lo sguardo dalla folla più unita che mai – unita dal dolore
e dal ricordo e dal rimpianto e da un amore che non sarebbe finito mai; alzai
lo sguardo verso il cielo e, per la prima volta da settimane, mi sembrò
di saper respirare di nuovo.
Sono
passati due mesi.
Oggi
è il ventinove agosto. Oggi Michael Jackson compirebbe cinquantuno anni.
E
sarebbe ancora su quel palco, a cantare e a ballare con la stessa energia, lo
stesso entusiasmo, la stessa gioia di vivere di vent’anni fa.
La
mia storia finisce lì, davanti alla sua tomba a Neverland,
con un mare di persone a ricordarmi che forse Michael non aveva cambiato il
mondo ma che il primo mattone della strada del cambiamento lo aveva cementato
lui. E che il mio mondo, almeno il mio, lo aveva invece stravolto in tutti
i sensi possibili.
La
mia storia finisce lì perché non può più esserci un
dopo.
A
volte ci penso ancora. Mi chiedo come sarebbe stato, se non lo avessi lasciato
andare via accontentandomi della dolcezza di un ricordo incancellabile. Se avessi
continuato a vederlo in tutti questi anni, piuttosto che accontentarmi di sentirlo
ad intervalli lunghi e irregolari; se fossi stata al suo fianco per
abbracciarlo quando era nei guai, a dimostrargli che gli credevo quando in
così tanti gli voltavano le spalle; se fossi stata egoista, e avessi
continuato ad amarlo da vicino invece che dall’altra parte del mare. Se avessi
deciso di restare per sempre la ragazza coi tacchi alti che gli faceva salire
la febbre anche a un miglio di distanza.
Ci
penso e mi rispondo che ho fatto la scelta giusta.
Dopotutto,
lasciarlo andare non ha fatto male quanto perderlo.
Perché,
sì, malgrado tutto, malgrado abbia ripreso a vivere, fa male davvero. E farà
male sempre. Per quello che è stato, per quello che avrebbe potuto
essere, per quello che non sarà mai più. Perché non l’ho
perso solo io: lo hanno perso tutti.
Eppure
lui è stato il mio sogno e il mio miracolo, e questo non può non
farmi sorridere, almeno un po’.
Ed
è così, con un sorriso bagnato di lacrime – lacrime sorelle
di quelle versate quella notte in quella stanza d’albergo – che oggi
resto distesa immobile nel buio del mio letto, ad ascoltare nel silenzio della
mia stanza vuota la sua voce e la sua musica che trascenderanno tutti i tempi.
Proprio
come vent’anni fa.
I never heard a single word about you
Falling in love wasn’t my plan
I never thought that I would be your lover
Come on, baby, just understand
Sono
passati due mesi. Oggi Michael Jackson compirebbe cinquantuno anni.
E
io sono qui a sperare di sognarlo.
Proprio
come vent’anni fa.
Lui per me
rappresentava i miei sogni d’infanzia, la convinzione che tutto è
possibile e che tutto può succedere se solo si crede nella magia. Il mio
sogno si è avverato, e ho avuto la benedizione e il privilegio di
conoscere e di lavorare con il più grande artista del nostro tempo. […]
La bambina che è in me e che è cresciuta con Michael è
morta con lui. […] L’ho veramente amato e mi mancherà sempre
dolorosamente. I momenti che ho passato con lui sono sacri per me e niente e
nessuno potrà sminuire questa verità. Il mio cuore è con
tutta la sua famiglia, tutto il mio affetto a Katherine e Joe.
Tatiana Y. Thumbtzen
Per dirla con Tatiana, la
mia storia finisce qui.
So che come ultimo
capitolo avrebbe potuto e dovuto
essere ben più articolato, approfondito, sviluppato. Volete la
verità? Non ci sono riuscita. Stavo
troppo male mentre lo scrivevo. Avevo anche pensato di riguardarmi alcuni
momenti del memoriale allo Staples Center per poterli
descrivere dal punto di vista di Tatiana, ma come ho iniziato sono scoppiata in
lacrime. Tanto per darvi un’idea.
Non ce la faccio ad affrontare
il tema della morte di Michael. È come una cicatrice: dopo che il sangue
ha smesso di fluire non ci pensi più, ma basta guardarla e ricordare le
circostanze in cui te la sei procurata, ed ecco che senza volerlo ti sembra di
sentire lo stesso dolore di allora.
Non ce la faccio a
scrivere di meglio, a questo punto. Ecco tutto.
E so che non dovrei
pubblicare il capitolo in queste condizioni pietose, che dovrei almeno
rivederlo ancora qualche volta – ma è tutto inutile. Spero solo
possiate comprendere, e che la mia storia vi sia comunque piaciuta, nonostante
il finale incerto e traballante scritto sull’orlo delle lacrime.
Il titolo e l’introduzione
del capitolo sono tratti rispettivamente da Black or white e You are not alone, due delle canzoni che preferisco
in assoluto di Michael Jackson. I versi alla fine, invece, da This is it. Il brano riportato in corsivo è tratto dal
profilo MySpace di Tatiana Thumbtzen.
Ora lo posso finalmente
dire: negli ultimissimi giorni ho letto molte cose – articoli che la
tacciavano di millanteria, di aver soltanto approfittato di tutta la
situazione. Io non so come sia andata davvero, e questa fanfic
è essenzialmente un’opera fittizia, in quanto neppure degli eventi
che ho dato per reali posso essere sicura fino in fondo; però, se
è come la immagino, io Tatiana la capisco. La capisco profondamente, e
la ammiro.
Ringrazio profondamente
tutti coloro che hanno deciso di leggere questa fic
fino alla fine. Tra questi, ringraziamenti particolari a Miss_Rose, Sarephen e S u n r i s e Light per aver recensito lo scorso capitolo, e a 96opal che mi ha scritto una mail cui
purtroppo non ho potuto rispondere per problemi di posta elettronica. Voglio dire
a tutti voi che mi siete stati di grande aiuto per arrivare fino alla fine, e
che spero di avervi procurato almeno un sorriso. Non le lacrime: non è
mia intenzione farvi piangere.
May God bless
you all.
Oggi è il
ventinove agosto. Buon compleanno, Michael, ovunque tu sia. <3
It’s all
for L.O.V.E.