Quindici
minuti.
Le stavo
tenendo la testa da esattamente quindici minuti, il viso rivolto alla
finestra per non guardare.
Bliss aveva
abbracciato una nuova religione: la tazza del cesso.
Precisamente,
la tazza del cesso di un autogrill sito più o meno nel bel mezzo del
niente, Sud Inghilterra.
Il tourbus
era fuori, parcheggiato in bella vista vicino al distributore della
benzina: la nostra auto, un defender nero, invece era
convenientemente all'ombra.
Un altro
atroce conato di vomito: mi aggrappai al lavandino per reprimere la
tentazione di cambiarle colore ai capelli.
“Ria...”,
sussurrò debolmente, prima di infilare di nuovo la testa nella
tazza.
Perfetto.
Era perfetto.
“Potevi
evitare i tuoi consueti sei o sette litri di birra, ieri sera, visto
che sapevi che oggi ti sarebbe venuto il ciclo.”, commentai
caustica.
Non disse
niente, e io incrociai il mio riflesso nello specchio. Una cascata di
capelli neri, spettinati, il viso struccato, una maglietta troppo
grande dei Kasabian. Un quadro.
Bliss alzò
la testa. “L'altr...”, cercò di articolare.
“Eh?”
“L'altroieri.”,
sussurrò.
“L'altroieri
cosa?”
“Il
ciclo.”
Spalancai
gli occhi, le tolsi la mano dalla fronte e Bliss battè una sonora
craniata contro la ceramica del water.
“Ti è
saltato il ciclo?”
Si alzò
massaggiandosi la fronte ed emettendo gemiti di sofferenza, quando fu
scossa da altro conato.
Mi abbassai
alla sua altezza, incurante dello stato pietoso in cui era la mia
storica migliore amica.
“Ho
detto: ti è saltato il ciclo?”
Annuì
mestamente, e riabbassò la testa.
Feci un
paio di calcoli veloci, mentre infilavo la porta di corsa, diretta al
banco farmacia.
Corridoio
del cesso giallo manicomio, piastrelle schioppate azzurro tenue: il
classico esempio di un decoratore ubriaco.
Incrociai
Dominic, batterista, faccia nota, pochi metri più in là.
“Ria,
ciao, come...”
“Sì,
ciao, Dom, dopo, ora no, non lo so, fammi andare.”
Stavo
ancora parlando, quando mi sbattei la porta dei cessi alle
spalle.Allora,
dicevamo. Banco farmacia.Mi sporsi
per avere la commessa bionda a un palmo dal naso, e dissi, col tono
più grave che riuscii a trovare nel mio repertorio di toni gravi:
“Un test di gravidanza. Cazzo.”
Quando
rientrai nel bagno delle donne, Bliss era seduta sulla finestra e
stava fumando: aveva assunto una gradevole sfumatura verdognola, era
sudata fradicia e aveva la maglia che le calava su una spalla, a
scoprire la rosa rossa tatuata.
Le
sventolai sotto il naso il tubetto oblungo.
“Fai pipì
su questo.”
Mi guardò
spaesata: “Prego?”
Sbuffai.
“Eppure mi sembrava di aver parlato italiano.”, dissi,
rivolgendomi a un piccione in transito fuori dalla finestra.
“Ho
detto: fai pipì su questo coso.”
Mi guardò
di nuovo.
“E
perchè?”
Dio, come
parlare con un calzino.
“Perchè
pisciare sui tubetti è la nuova moda inglese.”
Silenzio.
“Perchè
trovo improvvisamente divertente che tu faccia pipì sugli oggetti
più strani. Oggi questo, domani un portafiori.”
Silenzio.
“E' un
test di gravidanza. Idiota.”
Me lo prese
dalle mani come se stesse maneggiando una granata.
E poi dalla
sua bocca uscì un vocabolo che risultò il più idiota mai sentito
sulla faccia della terra.
“Perchè?”
Due minuti
dopo, era sul water.
“Non ci
riesco.”, disse, e la sua voce rimbombò al di fuori dello stretto
cubicolo: al di fuori dello stretto cubicolo c'ero io, fumante di
preoccupazione e di Lucky Strike, seduta sul piano del lavabo.
“Con chi
sei stata?”
“In che
senso?”
“Non
rincoglionirti: ascolta le parole e dai risposte pertinenti. Con chi
sei stata?”
“A
letto?”
“No. Al
bagno.”
“Non
trattarmi male.”
“Non ti
tratto male.”
“Invece
sì.”
“Con chi
sei stata, allora?”
Rumore di
acqua che scende.
Niente
risposta.
Uscì dal
bagno con il test in mano, e me lo porse.
“Adesso?”
“Aspettiamo.”
Ci
guardammo senza parlare.
“Allora?
Si può sapere chi è il presunto padre del presunto bambino?”
BOOM, BOOM,
BOOM.
Niente.
BOOM, BOOM,
BOOM.
Niente.
BOOM, BOOM,
BOO...
“Cristo,
sono le sei e un quarto del mattino!”
“Ciao,
Matt.”
Mi guardò.
Lo guardai.
“Dov'è?”
Sospirò.
Aveva i capelli in un unica soluzione di punte di istrice, sparati
tutti a sinistra, gli occhi rossi di sonno ed era, con un po' di
fantasia, in pigiama.
“Chi? Il
Papa, la Regina Madre, il presidente degli stati uniti?”
“Dominic.
Dov'è.”
Non capiva
l'inglese. Tentare con l'italiano sarebbe stato inutile.
Guardai il
caffè che avevo in mano, e glielo porsi.
“Bevi.”
“Cosa?”
“Siete
tutti lenti di comprendonio stamattina, o è un problema mio? Bevi, è
caffè. Bevi. Cioè, se si può chiamare caffè acqua calda con i
fondi girati dentro. Ma siete inglesi. Non è colpa vostra.”
Fece un
lungo sorso, chiuse e riaprì gli occhi, e si passò una mano tra i
capelli.
Gli
schioccai le dita davanti alla faccia.
“Adesso
cagami. Dov'è Dominic?”
Mi guardò.
“Qua non
c'è.”
“Bene. E
ci sono voluti sette minuti per fartelo dire. Finisciti il caffè.”
“Ok.”
“E torna
a dormire.”
“Ok.”
“Ciao.”
“Ciao.”
Corridoio
al contrario. Il muro sempre giallo, le piastrelle sempre schioppate.
Un bue di due metri mi passò affianco: lo afferrai per la maglia.
“Chris.”
Mi guardò,
senza capire.
Cosa gli
avevano fatto a tutti quanti durante la notte, una lobotomia di
gruppo?
“Ria.”,
disse.
“E fin
qui ci siamo. Dov'è Dominic?”
“Nel
bagno.”
“Grazie.”
Guardai il
caffè che avevo ripreso al bar, dopo aver dato il mio a Matt.
“Toh,
bevi.”
“Eh?”
“BEVI. E'
caffè.”
Lo prese,
sussurrando un ringraziamento.
Alzai gli
occhi al cielo. Ma minchia.
Due minuti
dopo, buttai giù la porta del bagno degli uomini mettendo in fuga
due camionisti.
“DOMINIC.”,
strillai.
Dominic mi
rispose da dentro un cubicolo. “Sì?”
“Disturbo?”
“Abbastanza.”
“Sei
seduto?”
“Direi.”
“Bene.
Diventerai padre.”
Nessuna
risposta. Non sarà un bel vedere, quando la polizia rimuoverà il
cadavere.
“Dominic,
dammi un segno di vita. Non possiamo perdere il batterista il giorno
di un concerto.”
“Eahf.”
“Mi
senti? Bliss è incinta.”
“Ho
sentito.”
“Bene.”
“Cosa
facciamo?”
Mi fermai
col dito a mezz'aria, e dimenticai cosa volevo dire.
“Cosa
facciamo chi?”
“Noi.
Chi.”, sussurrò, visibilmente sconvolto.
“Noi
chi?”
“Noi!”
“CHI?”
Rumore di
sciacquone. Esattamente quello che vorresti a fare da colonna sonora
a uno dei giorni più importanti della tua vita.
Uscì,
bianco come un cencio.
“Ma com'è
successo?”, esclamò, appoggiando le mani alle dieci e dieci sul
piano del lavandino.
“Dal
punto di vista tecnico, penso che sia abbastanza facile. Dal punto di
vista teorico, dovresti saperlo tu. Siamo adulti, vaccinati e
occidentali: esistono i contraccettivi.”
Guardammo a
terra.
“Bliss
vuole abortire.”, comunicai.
Restava
solo da decidere l'ospedale, il giorno, il più presto possibile.
Quand'era
il più presto possibile? Bisognava aspettare la pausa del tour.
“No.”
Un
monosillabo complicato da gestire, di quando in quando.
“Cosa?”,
chiesi, entrando a far parte anche io del club della lobotomia di
gruppo.
“No. Nel
senso di no, non credo di volere che lei abortisca.”
Chiamai a
raccolta tutto il buonsenso che avevo in circolo, e tirai un respiro
profondo.
“Dominic.
Sei impazzito?”
Mi guardò,
biondo e scarmigliato come al solito.
“No. Sì.
Boh.”
Sospirai, e
girai sui tacchi.
“Dove
vai?”. Più che una domanda sembrava un'invocazione.
“Non lo
so. Da Matt.”
Intercettò
il mio sguardo da dentro lo specchio: era un buon amico, ormai. Avrei
voluto che fosse un amico un po' meno diretto e intuitivo, però.
“Starà
dormendo.”, disse.
Il
bagliore. Un bagliore di consapevolezza che gli balenava negli occhi
tutte le volte che sapeva esattamente dove si andasse a parare.
“Si
sveglia.”, replicai, infilando la porta diretta nell'unico posto in
cui sarei riuscita a trovare un senso a quel casino.
Le
persone realmente esistono, ma non mi appartengono. I fatti sono
inventati, ma sarebbe divertente se si potesse dire che sono
realmente accaduti. E' vita creata artificialmente, trattatela come
volete, non si piega e non si spezza, plasmateci sopra il vostro
sogno personale.
Questa
storia è dedicata a chi, l'otto giugno 2010 nel prato di San Siro,
si è voltata brandendo sorridente una bottiglietta piena a tre
quarti, e alla richiesta “Mi fai dare un sorso d'acqua?” mi ha
risposto: “Non è acqua, è Xanax.”
La mia
migliore amica.
A quelli
che sono ancora in grado di sognare.
A Bright
Lights dei Placebo.
E,
ovviamente, al tizio che una volta mi ha fatto giurare che avrei
scritto, prima o poi, una maledetta fanfiction con dentro Matthew
Bellamy.