In queste parole c'è tanto di Jane Eyre e poco di Twilight...spero riusciate ad arrivare alla fine.
Grazie a chi continua a mettere la storia tra le seguite e a chi semplicemente legge...
CAPITOLO DIECI
Cold Like The Death, Red Like The HellMancava poco ormai. Non sapevo quanto tempo fosse
passato. Mi ero appisolata un paio di volte, ma ogni minimo movimento della
carrozza mi faceva sobbalzare.
La sera prima della partenza, stremata, mi ero
addormentata quasi subito. Non era stato un sonno tranquillo, avevo sognato la
mamma, chiamavo il suo nome, ma lei non si voltava e si allontanava sempre di
più da me. La cosa che mi era rimasta impressa era la sensazione di essere
portata via lontano, sorretta da braccia forti e cullata da un dolce movimento,
nel sogno alzavo la testa ed incrociavo due occhi che mi guardavano fissi. Due
iridi di un colore che non avevo mai visto, eppure non sentivo alcun disagio,
nessuna paura.
Mi alzai dal mio letto, consapevole che quella
sarebbe stata l’ultima volta. Dal giorno dopo mi sarei ritrovata in un’altra
stanza, in una nuova casa, con una nuova famiglia. Non andavamo spesso a
trovare zio John e zia Diana e non avevo avuto molte occasioni per conoscere le
mie due cugine. In cuor mio speravo solo di riuscire a trovare un po’ di pace.
Kitty mi aveva offerto il suo aiuto per i bagagli,
ma lo rifiutai fermamente, ero ancora in collera con lei e poi non avevo molte
cose da portare con me: giusto una borsa da viaggio leggera, qualche libro e l’
album da disegno. Il resto si trovava già nel mio baule e sarebbe stato
caricato dal cocchiere sulla carrozza.
La strada che portava a Gateshead
si snodava attraverso una vegetazione fitta e selvaggia, lungo un sentiero
sterrato, che rendeva il viaggio insopportabile. Bessie, la governante di casa
Dwyer, sedeva scompostamente affianco a me. Dormiva, russando rumorosamente,
con il capo piegato da un lato e la bocca semi aperta. La sua considerevole stazza mi costringeva in
un angolo del sedile, praticamente schiacciata contro la parete. Se da una
parte era una posizione un po’ scomoda, dall’altra mi impediva di cadere ad
ogni scossone.
Tenevo l’ingombrante cartellina con i disegni sulle
ginocchia, cercando, a fatica, di reggerla con le mani. Il cappellino mi
ricadeva continuamente sugli occhi e non potevo fare altro che ricacciarlo
indietro ogni volta.
La pioggia cadeva. Le grosse gocce, che furiose si
erano riversate la sera prima, avevano lasciato il posto a stille sottili e
costanti, che sfioravano appena il vetro del finestrino.
Quando finalmente arrivammo a destinazione, la
prima cosa che mi colpì fu la maestosità della casa. Se Dwyer House dava un’
impressione di accoglienza e calore, di fronte a quell’ imponente edificio,
sentivo una spropositata voglia di scappare via.
Appena si aprì la porta, rimasi per un attimo come
pietrificata. Il grande ingresso incuteva, se possibile, ancora più timore
dell’ esterno. Il rumore dei tacchi sul marmo freddo e splendente risuonava
tetro allungandosi in un’ eco che mi dava i brividi.
Bessie posò una mano sulle mie spalle, spingendomi
delicatamente e incoraggiandomi ad entrare. Come al solito, il movimento
inaspettato mi fece perdere l’equilibrio e, inciampando nei miei stessi piedi,
mi ritrovai a faccia in giù sul pavimento.
Bells,
tesoro…devi cercare di guardare dove metti i piedi. Dammi la mano…
Ma non fu la dolce voce di papà quella che sentii,
ma una risata acuta, quasi uno stridio, un ghigno di divertimento misto a
derisione.
“Eliza vieni a vedere. È arrivata. Vedessi quanto è
sciatta”
Un’ altra risata poco gentile si aggiunse alla
prima e, quando mi rimisi in piedi, vidi le mie cugine osservarmi divertite in
cima alle scale.
“Buongiorno Eliza, buongiorno Georgiana, vi
ringrazio per l’ospitalità” dissi, accennando una riverenza, come mi era stato
insegnato dalla mamma. Per tutta risposta ricevetti solo altre parole di
scherno.
Gli occhi cominciarono a pizzicarmi e ricacciai a
fatica le lacrime. Non avrei resistito molto se non fosse intervenuto zio John.
“Bambine! Che fate lassù? Scendete a salutare
vostra cugina come si conviene”.
Non potevo credere ai miei occhi: i loro volti
cambiarono all’istante. Mi raggiunsero lentamente e posando due baci sulle mie
guance arrossate mi diedero il benvenuto:
“Siamo sicure che ti troverai molto bene qui, vero
Eliza?”
“Ma certo, diventeremo buone amiche”.
“Bella benvenuta. Per qualsiasi cosa chiedi pure,
noi siamo la tua famiglia adesso e questa è la tua casa”.
Le parole di mio zio risuonarono davvero sincere, a
differenza di quelle delle figlie e mi dissi mentalmente, che finché ci fosse
stato lui, nessuno mi avrebbe potuto fare del male.
“Bessie, accompagna Bella nella sua stanza. Aiutala
a sistemare le sue cose, a ripulirsi per il viaggio. Tra un’ora è pronto il
pranzo e lo sai quanto la signora tenga alla puntualità.”
“Certo signore. Signorina Bella, andiamo”.
Salii le scale, stando ben attenta a non dare
nuovamente spettacolo della mia goffaggine. Attraversammo lunghi corridoi e di
nuovo scale, alla fine arrivammo davanti ad una porta. Sperai vivamente di non
dover condividere la stanza con le mie cugine. Il loro comportamento mi diceva
che non sarebbe stata affatto facile la convivenza con loro.
“Signorina, che fate ancora lì? Su, entrate”
Mi guardai intorno e ciò che vidi andava oltre le
mie più rosee aspettative. Agli occhi di un altro, quella stanza poteva
apparire misera e scarna. Ma era perfetta per me e…c’era un solo letto. Feci un
respiro di sollievo e poggiai l’album sullo scrittoio.
“Signorina?”
“Oh cara, chiamatemi Bessie”.
“D’accordo Bessie. Volevo chiederti dove fosse la
zia, non è in casa?”
“La signora Dwyer avrà avuto sicuramente una delle
sue emicranie.” Cominciò mentre mi faceva levare il soprabito. “ Ascoltatemi
Signorina Bella, cercate di comportarvi bene e di non fare arrabbiare vostra
zia. I padroni sono stati molto generosi a prendervi con loro, ma, dovete
capire, che non erano obbligati a farlo e che potrebbero sempre mandarvi via”.
Erano passati pochi istanti da quando avevo messo
piede in quella casa, eppure la “prospettiva” di essere allontanata non mi
dispiaceva affatto. Purtroppo non avevo altri parenti, ad eccezione di uno zio,
fratello di mio padre, che era andato a cercare fortuna a Madeira, ma di cui
non avevamo più avuto notizie. Ero perfettamente consapevole, inoltre, che la
famiglia di mia madre non aveva mai visto di buon occhio gli Swan e qualsiasi
argomento che potesse riguardarli era bandito da ogni conversazione.
“Bessie? C’è una biblioteca in casa?”
“Oh signorina Bella, in vita mia non ho mai visto tanti
libri tutti insieme. Domattina vi porterò a visitare la casa, dovete conoscere
le stanze che vi sono accessibili e quelle che invece dovete evitare, e vi farò
vedere la biblioteca. A mio modesto parere, è una delle sale più belle di
questa casa, con ampie finestre, che lasciano passare la luce del giorno”
Quella notizia era la più bella che avessi avuto da
molti giorni a quella parte, non vedevo l’ora di trovare un angolino tutto mio,
dove nascondermi e leggere.
“Ora sbrigatevi. Il pranzo è pronto”.
Quando entrai nella grande sala da pranzo,
immediatamente ebbi la sensazione che mi stesse sfuggendo qualcosa…eppure, se
fosse stato Natale o qualche altra ricorrenza, me ne sarei ricordata.
Il mio sguardo si posò curioso sulla tavola: era
ricoperta da una sfarzosa tovaglia di lino, dai cui intagli si notava quella
più pesante in broccato francese, che cadeva in morbide onde fino al pavimento.
Le stoviglie erano d’argento e sembrava fossero state appena lucidate. Una
tavolata del genere poteva benissimo accogliere una dozzina di persone, ma,
come notai successivamente, vi erano solo cinque coperti.
Mi stupii del fatto che a capotavola ci fosse la
zia, mentre il marito sedeva placidamente alla sua destra. Le mie cugine
occupavano i due posti a sinistra della madre e mi guardavano stranamente
silenziose.
Ebbi un sussulto quando sentii la voce di zia
Diana:
“Isabella, misericordia! Vuoi prendere posto a
tavola? Stiamo aspettando te!”
“S-sì zia”.
Con il mento sollevato e ostentando una finta
sicurezza mi diressi verso la sedia e presi posto. Nonostante fossi così vicina
a loro, mi sentivo distante…come se quel tavolo, improvvisamente, si fosse
allungato, confinandomi all’estremità opposta della sala. Mangiai
silenziosamente tutto quello che misero nel piatto, senza nemmeno vedere cosa fosse,
tanto gli occhi erano velati dalle lacrime. Ogni tanto scorgevo Lizzy e Georgy
(come le chiamava la madre) scambiarsi occhiate e sussurrarsi vicendevolmente
qualcosa all’orecchio. La zia non alzò mai lo sguardo su di me, tantomeno mi
rivolse la parola.
Talmente presa dai pensieri, non mi accorsi di aver
urtato il cucchiaio col gomito, che cadde rumorosamente sul pavimento.
Terrorizzata guardai prima mia zia, il suo volto era contratto in
un’espressione furibonda, le labbra serrate in una smorfia, stava per dire
qualcosa quando due dita calde e gentili mi afferrarono il mento e mi fecero
voltare.
“Bella, non preoccuparti, non importa…”
Mi sentivo preparata ad affrontare le parole
sprezzanti di zia Diana, le risa canzonatorie delle sue figlie, ma non ero
assolutamente pronta a scorgere gli occhi di zio John, che mi guardavano
amorevolmente e mi trasmettevano un sincero affetto…no…non lo potevo
sopportare.
Non quello sguardo…non quei tratti così simili a
quelli della mamma…non quel gesto delicato…
La corazza che indossavo oramai da troppo tempo
s’infranse e, trovando rifugio nelle sue accoglienti braccia, scoppiai in un
pianto sconsolato, mentre lo zio mi accarezzava gentile la testa.
“sssh bambina…non piangere, ti prometto che mi
prenderò io cura di te…”
“John! Per quanto tempo ancora dovremmo assistere a
questo spettacolo indecente? Buon Dio, falla smettere!”.
“Diana, ti prego, cerca di essere comprensiva…”
“Lo sono fin troppo, ricorda che questa è casa mia.
Bessie? Porta la bambina nella sua camera, uscirà solo quando avrà capito come
ci si comporta a tavola!”
Il rumore brusco della sedia sul pavimento, la
stretta che si faceva più forte intorno a me e lo spostamento d’aria, mi
costrinsero ad aprire gli occhi.
“Lascia stare. Porterò io mia nipote nella
sua stanza”.
Pronunciò quelle parole in un tono che non avevo
mai sentito allo zio, un tono autoritario che ebbe la forza di azzittire sua
moglie.
Mi strinsi a lui e mi feci condurre al piano di
sopra.
“Sarai stanca bambina…la vita non è stata clemente
con te. Abbi fede, sarai di nuovo felice, ed io sarò qui ad aspettare che il
sorriso ricompaia sul tuo volto”.
Mi adagiò sul letto e mi levò le scarpe. Rivedevo i
movimenti di papà in quelli che stava compiendo lui, mi rimboccò le coperte e
baciò la mia fronte.
“Dormi piccola Bella e fai tanti bei sogni”.
E mi addormentai…
Le cose di certo non migliorarono nei giorni
seguenti. Mi ero ripromessa di essere una brava bambina e cercavo di compiacere
tutti, a partire da Bessie, l’unica figura femminile che mi rivolgesse una
parola gentile in quella casa.
Quando zio John era nelle scuderie, cercavo di
rintanarmi in biblioteca: mi rifugiavo dietro le pesanti tende di damasco e
davanti alla finestra leggevo i miei libri preferiti, oppure sfogliavo qualche
pesante tomo che trovavo tra gli scaffali per ricopiarne le figure. Non sempre
venivo lasciata in pace. C’era sempre qualcosa che non andava bene quando si
trattava di me: ero troppo silenziosa, troppo disordinata, troppo irriverente,
mi si accusava di essere bugiarda se cercavo di essere accomodante e di essere
maleducata, quando rispondevo sinceramente. Solo quando lo zio rientrava in
casa avevo un po’ di tregua, nonostante non approfittassi per niente del suo
affetto nei miei confronti. Avrei potuto lamentarmi, fargli vedere i segni dei
pizzicotti che Eliza e Georgiana mi davano ad ogni occasione…ma non lo facevo,
mi limitavo a sorridergli e a dire che andava tutto bene. Ai suoi occhi era
davvero così. In sua presenza, sia le figlie che la moglie mantenevano un
comportamento ineccepibile.
Ma quell’equilibrio si ruppe.
Un anno e qualche mese dopo il mio arrivo, zio
John, mentre cercava di domare un purosangue appena acquistato, fu disarcionato
e scagliato contro la staccionata.
Solo io e Bessie versammo lacrime per lui. Sua
moglie non si scompose, la freddezza rimase impressa sul suo volto e le sue
figlie erano evidentemente insofferenti verso il lutto che furono costrette a
portare per un paio di settimane.
Da allora fu l’inferno.
Zio John, sul letto di morte, aveva fatto
promettere a sua moglie, che mi avrebbe allevata e protetta, come una delle sue
figlie, perché fu questa intenzione a spingere lui stesso ad accogliermi a Gateshead
Hall. Ma in quella casa, né mia zia, né le mie cugine mi amavano, ed io non
amavo loro.
I maltrattamenti che avevo subito, non erano nulla
in confronto alle umiliazioni che dovetti sopportare in seguito.
Fui trasferita in una stanza molto più piccola,
sullo stesso piano di quelle occupate dalla servitù, perché Bessie potesse
starmi vicina, così aveva detto la zia.
Mi veniva rinfacciata ogni cosa e venivo
costantemente derisa dalle mie cugine.
Nonostante ciò, ero obbligata a pranzare insieme a
loro ed a partecipare alle lunghe passeggiate che tanto adoravano.
Per fortuna, arrivò l’inverno, il freddo vento
aveva ammassato nuvole così cupe, e cadeva una pioggia così intensa, che di
uscire non era neppure il caso di parlare.
A me, ovviamente, faceva piacere. Non avevo mai
amato le passeggiate lunghe, specialmente nei pomeriggi rigidi, eccezion fatta
per quelle in compagnia di Kitty e le sue storie. Era terribile per me tornare
a casa, nel crepuscolo grigio, con le dita delle mani e dei piedi
gelate, il cuore rattristato dai rimproveri di Bessie, avvilito dalla
consapevolezza della mia inferiorità fisica di fronte ad Eliza e Georgiana
Dwyer.
Non potendo uscire all’aperto, mamma e figlie
passavano i pomeriggi in salotto, attorno al fuoco. Circondata dalle sue
bambine, che per il momento non litigavano né piangevano, la zia aveva un’aria
perfettamente felice. Quanto a me, ero dispensata dall’unirmi al gruppo. Le
dispiaceva dovermi tenere a distanza –così aveva dichiarato – ma finché non
avesse sentito da Bessie, o non avesse potuto constatare lei stessa, che facevo
seri sforzi per acquistare un carattere più socievole e infantile, modi più
amabili e vivaci, un atteggiamento più aperto e franco, più normale in un certo
senso, doveva proprio escludermi dai privilegi destinati a bambini
soddisfatti e felici.
La bambinaia era l’unica persona con cui potevo
essere me stessa. Mi voleva bene, ne ero consapevole, ma anche lei talvolta si
dimostrava ingiusta nei miei confronti. Probabilmente perché se fossi stata
diversa, avrei reso la vita più semplice anche a lei.
“Che cosa dice che ho fatto?” le chiesi un giorno,
all’ennesimo rimprovero.
“Bella, non mi piacciono le critiche e le domande
impertinenti; è davvero sgradevole una bambina che si rivolge agli adulti con
quel tono. Va’ a stare buona da qualche parte e, soprattutto, in silenzio,
finché non avrai imparato a parlare in modo gradevole”.
Non me lo feci ripetere due volte. Sgattaiolai
fuori dalla cucina e mi rifugiai nella biblioteca. Scelsi un volume illustrato.
Salii sul sedile della finestra e, tirati su i piedi, sedetti con le gambe
incrociate alla turca; chiusi la tenda di damasco rosso e mi sentii doppiamente
protetta. I panneggi scarlatti mi celavano da un lato, mentre i vetri chiari
della finestra mi riparavano, senza separarmene, dalla triste giornata di
novembre. Sfogliavo le pagine, soffermandomi sui disegni, ripercorrendo i
contorni con le dita, di tanto in tanto osservavo il paesaggio reso sfuocato e
indefinito dalla pioggia. Ritornai al mio libro, La storia degli uccelli d’
Inghilterra, di Bewick, il volume dedicato agli uccelli marini. Ero
inspiegabilmente attratta dalla visione suggestiva delle coste desolate delle
terre del nord, dove immensità di ghiaccio, ammassato in centinaia di inverni,
accumulato vetta su vetta, circondano il polo e raccolgono i rigori del freddo
estremo. Nella mia mente di bambina, estremamente impressionabile, il freddo
era sinonimo di morte e, leggendo quei passaggi, mi facevo un’idea tutta mia
della morte bianca, un’idea vaga, come tutte le nozioni capite solo per
metà.
Nonostante l’inquietudine ed i brividi che la
lettura mi provocava, con il Bewick sulle ginocchia mi sentivo felice. Temevo
solo di venire interrotta e, puntualmente, venni interrotta.
La porta della sala si aprì.
“Ehi, madama Tumistufi!” gridò la voce di Eliza.
Sentii i passi fermarsi, probabilmente perché si accorse che non c’era nessuno.
“Ma dove diamine è?”
Ho
fatto bene a tirare la tenda
Speravo ardentemente che non riuscissero a trovare
il mio nascondiglio. Trattenni il fiato e rimasi immobile in attesa che
lasciassero la stanza.
“Di certo è nel vano della finestra Lizzy”
A sentire quelle parole, uscii subito, perché
tremavo all’idea di essere trascinata fuori.
“Cosa vuoi?”
“Devi dire che cosa vuoi signorina Eliza”
rispose. “Voglio che vieni qui” disse sedendosi su d’una poltrona, lasciandomi
intendere di avvicinarmi.
Stette a fissarmi per non so quanto tempo. Sapevo
che sarebbe arrivato il colpo e, forse mi lesse nel pensiero, perché afferrò i
miei lunghi capelli e tirò con forza verso il basso.
“Questo” disse “ è per la sfacciataggine con cui
hai risposto alla mamma poco fa e per il modo furtivo di nasconderti dietro la
tenda e per lo sguardo che avevi negli occhi due minuti fa, vipera!”
Dovevo solo aspettare…che finissero gli insulti,
che il loro interesse fosse catturato da qualcosa di più divertente.
“Che facevi dietro la tenda?”
“Leggevo”
“Facci vedere il libro”
Tornai alla finestra a prenderlo
“Tu.Non.Hai.Il.Diritto.Di.Prendere.I.Nostri.Libri.”
urlò Georgiana, che fino a quel momento si era tenuta alle spalle della sorella
maggiore.
“Tu sei una dipendente, dice la mamma. Non hai
denaro, tuo padre era un poveraccio. Dovresti chiedere l’elemosina e non vivere
in una casa signorile come la nostra, mangiare quello che mangiamo noi, vestire
a spese della nostra mamma. Ti insegno io a frugare tra i miei libri. Va’
vicino alla porta”.
Obbedii, senza capire subito le intenzioni di
Eliza. Ma quando la vidi afferrare il libro e soppesarlo, istintivamente mi
tirai da parte con un grido, ma non abbastanza in fretta. Il grosso volume mi
colpii facendomi cadere e battere la testa contro la porta. Sentivo il dolore
pulsare e l’odore ferroso del sangue che mi riempiva le narici. Ma in quel
momento il sentimento che prevalse fu l’odio.
“Voi siete cattive! Siete delle streghe…io vi
detesto!”.
“Come come?” Disse Georgiana “Hai sentito Liz come
ci ha chiamate?”.
Eliza mi si avvicinò afferrandomi per un braccio,
aveva una corporatura più robusta ed era più alta di me.
“Credi che non lo dica alla mamma?” grugnì
storcendomi un braccio.
“Ma prima…”
Si scagliò contro di me. Sentii che mi afferrava
per i capelli. Ma aveva attaccato una creatura disperata. Non vidi nemmeno dove
misi le mani, udii solo che mi chiamò “Vipera! Vipera!”.
Quando misi a fuoco, vidi una stria rossastra sulla
sua guancia e il formarsi lento di una piccola goccia di sangue.
Sapevo che sarebbe cambiato tutto, quel sangue
avrebbe cambiato la mia vita.
Venni afferrata con violenza da due grosse braccia.
Invano cercai di divincolarmi.
“Non posso tollerare un simile spettacolo di
violenza” urlò zia Diana. “Portatela nella stanza rossa e chiudetecela!”.
Non due, ma quattro mani mi trascinarono su per le scale.
Non era nella mia natura dibattermi a quel modo, ma il pensiero di essere
rinchiusa in quella stanza mi terrorizzava. Cominciai a singhiozzare e ad
urlare disperatamente.
“Vi prego. Vi scongiuro. Non in quella stanza!”
“Rimarrai chiusa lì dentro finché non avrai
imparato a stare al tuo posto” sghignazzò Eliza che seguiva compiaciuta Bessie
e la signorina Abbot, la cuoca.
“Ma lì dentro è morto tuo padre” urlai mentre una
paura folle si impadroniva di me.
“Infatti c’è il suo fantasma che ti guarda”.
Un urlo soffocato uscì dalla mia gola. Non
potevano…non volevo stare lì, da sola…
Sentivo Bessie borbottare: “che vergogna, che
vergogna. Che condotta scandalosa signorina Bella, colpire la padroncina, la
figlia della vostra benefattrice”.
“Non sono una serva io! Non ho padroni!”
“No. Sei meno di una serva, perché non fai niente
per mantenerti” disse la zia, che era sopraggiunta “non fosse per la memoria del tuo povero zio,
ti avrei già sbattuta di fuori di casa! Ricorda Bella che tu non hai nessuno.
Nessuno, hai capito!?”.
Così dicendo, mi lasciarono lì. Andarono via
sbattendo la porta. Il rumore della chiave nella toppa fu peggio di qualsiasi
colpo mi potesse essere inferto.
Non era tanto il pensiero che lì vi fosse morto lo
zio ad inquietarmi, nonostante la possibilità della presenza di un fantasma mi
terrorizzasse, ma era il colore…quel tripudio di rosso cupo, in netto contrasto
con il mogano scuro dei mobili. Le cortine del letto, le pesanti tende alle
finestre, il panno che ricopriva il tavolino e il tappeto…tutto era di quel
colore…infernale.
E c’era il gelo.
La stanza era fredda perché non vi si accendeva il
fuoco; silenziosa, perché lontana dal resto delle stanze e solenne, perché era
la camera padronale.
Lì lo zio aveva esalato l’ultimo respiro; in quella
camera era stata solennemente composta la sua salma; da quella camera era
partita la sua bara. La sensazione che
si aveva entrando era una sensazione di morte.
Con la testa piena di queste paure, persi i sensi.
Quando mi risvegliai, riconobbi subito l’ambiente
familiare della mia stanza. Ero nel mio letto e sentivo una piacevole
sensazione di freddo sulla testa. Vidi Bessie da un lato, intenta a versare
dell’acqua in una bacinella ed un signore dall’altro che scoprii, in seguito,
essere il farmacista, Mr Lloyd, che la zia chiamava quando stavano male i
domestici. Per lei e le figlie chiamava, ovviamente, il medico.
Il modo in cui si stavano prendendo cura di me, mi
fecero sentire protetta. Una sensazione che non provavo oramai da tempo.
Dolorose lacrime rigarono le mie guance. Un pianto silenzioso, pieno di
gratitudine.
Il signor Lloyd mi rivolse alcune domande alle
quali risposi sinceramente e senza timore. Capì subito quanta e quale
sofferenza doveva essere per me stare in quel posto. Quando mandò di sotto
Bessie a prepararmi qualcosa di caldo, capii che voleva chiedermi qualcosa.
“Ti piacerebbe allontanarti da qui Bella? Cambiare
aria?”
Quelle parole furono la più dolce delle melodie.
Spalancai gli occhi e gli strinsi le mani.
“Oh sì signore. Non desidero altro. Ma io sono sola.
Dove potrei stare?”
“Non preoccuparti di questo bambina, parlerò con
tua zia e non credo sarà tanto difficile convincerla”
“Oh grazie signore, grazie”.
“Non ringraziarmi. Dio solo sa cosa ti abbia
permesso di resistere così a lungo”.
Le ultime parole furono solo sussurrate, ma io le
sentii distintamente e non potei che gioirne. Finalmente qualcuno che mi
capiva, finalmente una speranza.
Non sapevo dove sarei andata, cosa avrei fatto.
Ma mi fidavo di quel signore dal viso buono e
gentile e dovevo solo aspettare, cercare di stare buona e di tenermi lontana
dai guai.
Poi, tutto sarebbe cambiato…
Un grazie immenso a Mirya, Biaa, Austen95 e lady lilithcullen per aver speso un po' del loro tempo, lasciando una recensione a questa storia. Ogni parola è per me motivo di grande gioia. GRAZIE.