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Autore: Imaginary82    02/09/2010    3 recensioni
Quante volte mi sono ritrovato sulla bocca dell’inferno? Ho sentito il calore delle fiamme scaldare il mio gelido corpo, ho guardato in basso, attratto dall’enorme distesa di lava incandescente che mi reclamava fumante e odorosa come un’enorme pozza di sangue. Sarebbe stato così semplice e appagante immergersi e soccombere…sprofondare…
Genere: Romantico, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan
Note: Cross-over, OOC | Avvertimenti: nessuno
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capitolo dieci Finite le vacanze, eccovi l'aggiornamento...capitolo noiosetto come al solito, ma che riprende, finalmente, il primo capitolo del romanzo che mi ha ispirato questa storia.
In queste parole c'è tanto di Jane Eyre e poco di Twilight...spero riusciate ad arrivare alla fine.
Grazie a chi continua a mettere la storia tra le seguite e a chi semplicemente legge...


Dedicato alla mia sorellina e alla sua piccola e splendida Sirya.

CAPITOLO DIECI

Cold Like The Death, Red Like The Hell

 

Mancava poco ormai. Non sapevo quanto tempo fosse passato. Mi ero appisolata un paio di volte, ma ogni minimo movimento della carrozza mi faceva sobbalzare.

La sera prima della partenza, stremata, mi ero addormentata quasi subito. Non era stato un sonno tranquillo, avevo sognato la mamma, chiamavo il suo nome, ma lei non si voltava e si allontanava sempre di più da me. La cosa che mi era rimasta impressa era la sensazione di essere portata via lontano, sorretta da braccia forti e cullata da un dolce movimento, nel sogno alzavo la testa ed incrociavo due occhi che mi guardavano fissi. Due iridi di un colore che non avevo mai visto, eppure non sentivo alcun disagio, nessuna paura.

Mi alzai dal mio letto, consapevole che quella sarebbe stata l’ultima volta. Dal giorno dopo mi sarei ritrovata in un’altra stanza, in una nuova casa, con una nuova famiglia. Non andavamo spesso a trovare zio John e zia Diana e non avevo avuto molte occasioni per conoscere le mie due cugine. In cuor mio speravo solo di riuscire a trovare un po’ di pace.

Kitty mi aveva offerto il suo aiuto per i bagagli, ma lo rifiutai fermamente, ero ancora in collera con lei e poi non avevo molte cose da portare con me: giusto una borsa da viaggio leggera, qualche libro e l’ album da disegno. Il resto si trovava già nel mio baule e sarebbe stato caricato dal cocchiere sulla carrozza.

La strada che portava a Gateshead si snodava attraverso una vegetazione fitta e selvaggia, lungo un sentiero sterrato, che rendeva il viaggio insopportabile. Bessie, la governante di casa Dwyer, sedeva scompostamente affianco a me. Dormiva, russando rumorosamente, con il capo piegato da un lato e la bocca semi aperta.  La sua considerevole stazza mi costringeva in un angolo del sedile, praticamente schiacciata contro la parete. Se da una parte era una posizione un po’ scomoda, dall’altra mi impediva di cadere ad ogni scossone.

Tenevo l’ingombrante cartellina con i disegni sulle ginocchia, cercando, a fatica, di reggerla con le mani. Il cappellino mi ricadeva continuamente sugli occhi e non potevo fare altro che ricacciarlo indietro ogni volta.

La pioggia cadeva. Le grosse gocce, che furiose si erano riversate la sera prima, avevano lasciato il posto a stille sottili e costanti, che sfioravano appena il vetro del finestrino.

Quando finalmente arrivammo a destinazione, la prima cosa che mi colpì fu la maestosità della casa. Se Dwyer House dava un’ impressione di accoglienza e calore, di fronte a quell’ imponente edificio, sentivo una spropositata voglia di scappare via.

Appena si aprì la porta, rimasi per un attimo come pietrificata. Il grande ingresso incuteva, se possibile, ancora più timore dell’ esterno. Il rumore dei tacchi sul marmo freddo e splendente risuonava tetro allungandosi in un’ eco che mi dava i brividi.

Bessie posò una mano sulle mie spalle, spingendomi delicatamente e incoraggiandomi ad entrare. Come al solito, il movimento inaspettato mi fece perdere l’equilibrio e, inciampando nei miei stessi piedi, mi ritrovai a faccia in giù sul pavimento.

Bells, tesoro…devi cercare di guardare dove metti i piedi. Dammi la mano…

Ma non fu la dolce voce di papà quella che sentii, ma una risata acuta, quasi uno stridio, un ghigno di divertimento misto a derisione.

“Eliza vieni a vedere. È arrivata. Vedessi quanto è sciatta”

Un’ altra risata poco gentile si aggiunse alla prima e, quando mi rimisi in piedi, vidi le mie cugine osservarmi divertite in cima alle scale.

“Buongiorno Eliza, buongiorno Georgiana, vi ringrazio per l’ospitalità” dissi, accennando una riverenza, come mi era stato insegnato dalla mamma. Per tutta risposta ricevetti solo altre parole di scherno.

Gli occhi cominciarono a pizzicarmi e ricacciai a fatica le lacrime. Non avrei resistito molto se non fosse intervenuto zio John.

“Bambine! Che fate lassù? Scendete a salutare vostra cugina come si conviene”.

Non potevo credere ai miei occhi: i loro volti cambiarono all’istante. Mi raggiunsero lentamente e posando due baci sulle mie guance arrossate mi diedero il benvenuto:

“Siamo sicure che ti troverai molto bene qui, vero Eliza?”

“Ma certo, diventeremo buone amiche”.

“Bella benvenuta. Per qualsiasi cosa chiedi pure, noi siamo la tua famiglia adesso e questa è la tua casa”.

Le parole di mio zio risuonarono davvero sincere, a differenza di quelle delle figlie e mi dissi mentalmente, che finché ci fosse stato lui, nessuno mi avrebbe potuto fare del male.

“Bessie, accompagna Bella nella sua stanza. Aiutala a sistemare le sue cose, a ripulirsi per il viaggio. Tra un’ora è pronto il pranzo e lo sai quanto la signora tenga alla puntualità.”

“Certo signore. Signorina Bella, andiamo”.

Salii le scale, stando ben attenta a non dare nuovamente spettacolo della mia goffaggine. Attraversammo lunghi corridoi e di nuovo scale, alla fine arrivammo davanti ad una porta. Sperai vivamente di non dover condividere la stanza con le mie cugine. Il loro comportamento mi diceva che non sarebbe stata affatto facile la convivenza con loro.

“Signorina, che fate ancora lì? Su, entrate”

Mi guardai intorno e ciò che vidi andava oltre le mie più rosee aspettative. Agli occhi di un altro, quella stanza poteva apparire misera e scarna. Ma era perfetta per me e…c’era un solo letto. Feci un respiro di sollievo e poggiai l’album sullo scrittoio.

“Signorina?”

“Oh cara, chiamatemi Bessie”.

“D’accordo Bessie. Volevo chiederti dove fosse la zia, non è in casa?”

“La signora Dwyer avrà avuto sicuramente una delle sue emicranie.” Cominciò mentre mi faceva levare il soprabito. “ Ascoltatemi Signorina Bella, cercate di comportarvi bene e di non fare arrabbiare vostra zia. I padroni sono stati molto generosi a prendervi con loro, ma, dovete capire, che non erano obbligati a farlo e che potrebbero sempre mandarvi via”.

Erano passati pochi istanti da quando avevo messo piede in quella casa, eppure la “prospettiva” di essere allontanata non mi dispiaceva affatto. Purtroppo non avevo altri parenti, ad eccezione di uno zio, fratello di mio padre, che era andato a cercare fortuna a Madeira, ma di cui non avevamo più avuto notizie. Ero perfettamente consapevole, inoltre, che la famiglia di mia madre non aveva mai visto di buon occhio gli Swan e qualsiasi argomento che potesse riguardarli era bandito da ogni conversazione.

“Bessie? C’è una biblioteca in casa?”

“Oh signorina Bella, in vita mia non ho mai visto tanti libri tutti insieme. Domattina vi porterò a visitare la casa, dovete conoscere le stanze che vi sono accessibili e quelle che invece dovete evitare, e vi farò vedere la biblioteca. A mio modesto parere, è una delle sale più belle di questa casa, con ampie finestre, che lasciano passare la luce del giorno”

Quella notizia era la più bella che avessi avuto da molti giorni a quella parte, non vedevo l’ora di trovare un angolino tutto mio, dove nascondermi e leggere.

“Ora sbrigatevi. Il pranzo è pronto”.

Quando entrai nella grande sala da pranzo, immediatamente ebbi la sensazione che mi stesse sfuggendo qualcosa…eppure, se fosse stato Natale o qualche altra ricorrenza, me ne sarei ricordata.

Il mio sguardo si posò curioso sulla tavola: era ricoperta da una sfarzosa tovaglia di lino, dai cui intagli si notava quella più pesante in broccato francese, che cadeva in morbide onde fino al pavimento. Le stoviglie erano d’argento e sembrava fossero state appena lucidate. Una tavolata del genere poteva benissimo accogliere una dozzina di persone, ma, come notai successivamente, vi erano solo cinque coperti.

Mi stupii del fatto che a capotavola ci fosse la zia, mentre il marito sedeva placidamente alla sua destra. Le mie cugine occupavano i due posti a sinistra della madre e mi guardavano stranamente silenziose.

Ebbi un sussulto quando sentii la voce di zia Diana:

“Isabella, misericordia! Vuoi prendere posto a tavola? Stiamo aspettando te!”

“S-sì zia”.

Con il mento sollevato e ostentando una finta sicurezza mi diressi verso la sedia e presi posto. Nonostante fossi così vicina a loro, mi sentivo distante…come se quel tavolo, improvvisamente, si fosse allungato, confinandomi all’estremità opposta della sala. Mangiai silenziosamente tutto quello che misero nel piatto, senza nemmeno vedere cosa fosse, tanto gli occhi erano velati dalle lacrime. Ogni tanto scorgevo Lizzy e Georgy (come le chiamava la madre) scambiarsi occhiate e sussurrarsi vicendevolmente qualcosa all’orecchio. La zia non alzò mai lo sguardo su di me, tantomeno mi rivolse la parola.

Talmente presa dai pensieri, non mi accorsi di aver urtato il cucchiaio col gomito, che cadde rumorosamente sul pavimento. Terrorizzata guardai prima mia zia, il suo volto era contratto in un’espressione furibonda, le labbra serrate in una smorfia, stava per dire qualcosa quando due dita calde e gentili mi afferrarono il mento e mi fecero voltare.

“Bella, non preoccuparti, non importa…”

Mi sentivo preparata ad affrontare le parole sprezzanti di zia Diana, le risa canzonatorie delle sue figlie, ma non ero assolutamente pronta a scorgere gli occhi di zio John, che mi guardavano amorevolmente e mi trasmettevano un sincero affetto…no…non lo potevo sopportare.

Non quello sguardo…non quei tratti così simili a quelli della mamma…non quel gesto delicato…

La corazza che indossavo oramai da troppo tempo s’infranse e, trovando rifugio nelle sue accoglienti braccia, scoppiai in un pianto sconsolato, mentre lo zio mi accarezzava gentile la testa.

“sssh bambina…non piangere, ti prometto che mi prenderò io cura di te…”

“John! Per quanto tempo ancora dovremmo assistere a questo spettacolo indecente? Buon Dio, falla smettere!”.

“Diana, ti prego, cerca di essere comprensiva…”

“Lo sono fin troppo, ricorda che questa è casa mia. Bessie? Porta la bambina nella sua camera, uscirà solo quando avrà capito come ci si comporta a tavola!”

Il rumore brusco della sedia sul pavimento, la stretta che si faceva più forte intorno a me e lo spostamento d’aria, mi costrinsero ad aprire gli occhi.

“Lascia stare. Porterò io mia nipote nella sua stanza”.

Pronunciò quelle parole in un tono che non avevo mai sentito allo zio, un tono autoritario che ebbe la forza di azzittire sua moglie.

Mi strinsi a lui e mi feci condurre al piano di sopra.

“Sarai stanca bambina…la vita non è stata clemente con te. Abbi fede, sarai di nuovo felice, ed io sarò qui ad aspettare che il sorriso ricompaia sul tuo volto”.

Mi adagiò sul letto e mi levò le scarpe. Rivedevo i movimenti di papà in quelli che stava compiendo lui, mi rimboccò le coperte e baciò la mia fronte.

“Dormi piccola Bella e fai tanti bei sogni”.

E mi addormentai…

Le cose di certo non migliorarono nei giorni seguenti. Mi ero ripromessa di essere una brava bambina e cercavo di compiacere tutti, a partire da Bessie, l’unica figura femminile che mi rivolgesse una parola gentile in quella casa.

Quando zio John era nelle scuderie, cercavo di rintanarmi in biblioteca: mi rifugiavo dietro le pesanti tende di damasco e davanti alla finestra leggevo i miei libri preferiti, oppure sfogliavo qualche pesante tomo che trovavo tra gli scaffali per ricopiarne le figure. Non sempre venivo lasciata in pace. C’era sempre qualcosa che non andava bene quando si trattava di me: ero troppo silenziosa, troppo disordinata, troppo irriverente, mi si accusava di essere bugiarda se cercavo di essere accomodante e di essere maleducata, quando rispondevo sinceramente. Solo quando lo zio rientrava in casa avevo un po’ di tregua, nonostante non approfittassi per niente del suo affetto nei miei confronti. Avrei potuto lamentarmi, fargli vedere i segni dei pizzicotti che Eliza e Georgiana mi davano ad ogni occasione…ma non lo facevo, mi limitavo a sorridergli e a dire che andava tutto bene. Ai suoi occhi era davvero così. In sua presenza, sia le figlie che la moglie mantenevano un comportamento ineccepibile.

Ma quell’equilibrio si ruppe.

Un anno e qualche mese dopo il mio arrivo, zio John, mentre cercava di domare un purosangue appena acquistato, fu disarcionato e scagliato contro la staccionata.

Solo io e Bessie versammo lacrime per lui. Sua moglie non si scompose, la freddezza rimase impressa sul suo volto e le sue figlie erano evidentemente insofferenti verso il lutto che furono costrette a portare per un paio di settimane.

Da allora fu l’inferno.

Zio John, sul letto di morte, aveva fatto promettere a sua moglie, che mi avrebbe allevata e protetta, come una delle sue figlie, perché fu questa intenzione a spingere lui stesso ad accogliermi a Gateshead Hall. Ma in quella casa, né mia zia, né le mie cugine mi amavano, ed io non amavo loro.

I maltrattamenti che avevo subito, non erano nulla in confronto alle umiliazioni che dovetti sopportare in seguito.

Fui trasferita in una stanza molto più piccola, sullo stesso piano di quelle occupate dalla servitù, perché Bessie potesse starmi vicina, così aveva detto la zia.

Mi veniva rinfacciata ogni cosa e venivo costantemente derisa dalle mie cugine.

Nonostante ciò, ero obbligata a pranzare insieme a loro ed a partecipare alle lunghe passeggiate che tanto adoravano.

Per fortuna, arrivò l’inverno, il freddo vento aveva ammassato nuvole così cupe, e cadeva una pioggia così intensa, che di uscire non era neppure il caso di parlare.

A me, ovviamente, faceva piacere. Non avevo mai amato le passeggiate lunghe, specialmente nei pomeriggi rigidi, eccezion fatta per quelle in compagnia di Kitty e le sue storie. Era terribile per me tornare a casa, nel crepuscolo grigio, con le dita delle mani e dei piedi gelate, il cuore rattristato dai rimproveri di Bessie, avvilito dalla consapevolezza della mia inferiorità fisica di fronte ad Eliza e Georgiana Dwyer.

Non potendo uscire all’aperto, mamma e figlie passavano i pomeriggi in salotto, attorno al fuoco. Circondata dalle sue bambine, che per il momento non litigavano né piangevano, la zia aveva un’aria perfettamente felice. Quanto a me, ero dispensata dall’unirmi al gruppo. Le dispiaceva dovermi tenere a distanza –così aveva dichiarato – ma finché non avesse sentito da Bessie, o non avesse potuto constatare lei stessa, che facevo seri sforzi per acquistare un carattere più socievole e infantile, modi più amabili e vivaci, un atteggiamento più aperto e franco, più normale in un certo senso, doveva proprio escludermi dai privilegi destinati a bambini soddisfatti e felici.

La bambinaia era l’unica persona con cui potevo essere me stessa. Mi voleva bene, ne ero consapevole, ma anche lei talvolta si dimostrava ingiusta nei miei confronti. Probabilmente perché se fossi stata diversa, avrei reso la vita più semplice anche a lei.

“Che cosa dice che ho fatto?” le chiesi un giorno, all’ennesimo rimprovero.

“Bella, non mi piacciono le critiche e le domande impertinenti; è davvero sgradevole una bambina che si rivolge agli adulti con quel tono. Va’ a stare buona da qualche parte e, soprattutto, in silenzio, finché non avrai imparato a parlare in modo gradevole”.

Non me lo feci ripetere due volte. Sgattaiolai fuori dalla cucina e mi rifugiai nella biblioteca. Scelsi un volume illustrato. Salii sul sedile della finestra e, tirati su i piedi, sedetti con le gambe incrociate alla turca; chiusi la tenda di damasco rosso e mi sentii doppiamente protetta. I panneggi scarlatti mi celavano da un lato, mentre i vetri chiari della finestra mi riparavano, senza separarmene, dalla triste giornata di novembre. Sfogliavo le pagine, soffermandomi sui disegni, ripercorrendo i contorni con le dita, di tanto in tanto osservavo il paesaggio reso sfuocato e indefinito dalla pioggia. Ritornai al mio libro, La storia degli uccelli d’ Inghilterra, di Bewick, il volume dedicato agli uccelli marini. Ero inspiegabilmente attratta dalla visione suggestiva delle coste desolate delle terre del nord, dove immensità di ghiaccio, ammassato in centinaia di inverni, accumulato vetta su vetta, circondano il polo e raccolgono i rigori del freddo estremo. Nella mia mente di bambina, estremamente impressionabile, il freddo era sinonimo di morte e, leggendo quei passaggi, mi facevo un’idea tutta mia della morte bianca, un’idea vaga, come tutte le nozioni capite solo per metà.

Nonostante l’inquietudine ed i brividi che la lettura mi provocava, con il Bewick sulle ginocchia mi sentivo felice. Temevo solo di venire interrotta e, puntualmente, venni interrotta.

La porta della sala si aprì.

“Ehi, madama Tumistufi!” gridò la voce di Eliza. Sentii i passi fermarsi, probabilmente perché si accorse che non c’era nessuno.

“Ma dove diamine è?”

Ho fatto bene a tirare la tenda

Speravo ardentemente che non riuscissero a trovare il mio nascondiglio. Trattenni il fiato e rimasi immobile in attesa che lasciassero la stanza.

“Di certo è nel vano della finestra Lizzy”

A sentire quelle parole, uscii subito, perché tremavo all’idea di essere trascinata fuori.

“Cosa vuoi?”

“Devi dire che cosa vuoi signorina Eliza” rispose. “Voglio che vieni qui” disse sedendosi su d’una poltrona, lasciandomi intendere di avvicinarmi.

Stette a fissarmi per non so quanto tempo. Sapevo che sarebbe arrivato il colpo e, forse mi lesse nel pensiero, perché afferrò i miei lunghi capelli e tirò con forza verso il basso.

“Questo” disse “ è per la sfacciataggine con cui hai risposto alla mamma poco fa e per il modo furtivo di nasconderti dietro la tenda e per lo sguardo che avevi negli occhi due minuti fa, vipera!”

Dovevo solo aspettare…che finissero gli insulti, che il loro interesse fosse catturato da qualcosa di più divertente.

“Che facevi dietro la tenda?”

“Leggevo”

“Facci vedere il libro”

Tornai alla finestra a prenderlo

“Tu.Non.Hai.Il.Diritto.Di.Prendere.I.Nostri.Libri.” urlò Georgiana, che fino a quel momento si era tenuta alle spalle della sorella maggiore.

“Tu sei una dipendente, dice la mamma. Non hai denaro, tuo padre era un poveraccio. Dovresti chiedere l’elemosina e non vivere in una casa signorile come la nostra, mangiare quello che mangiamo noi, vestire a spese della nostra mamma. Ti insegno io a frugare tra i miei libri. Va’ vicino alla porta”.

Obbedii, senza capire subito le intenzioni di Eliza. Ma quando la vidi afferrare il libro e soppesarlo, istintivamente mi tirai da parte con un grido, ma non abbastanza in fretta. Il grosso volume mi colpii facendomi cadere e battere la testa contro la porta. Sentivo il dolore pulsare e l’odore ferroso del sangue che mi riempiva le narici. Ma in quel momento il sentimento che prevalse fu l’odio.

“Voi siete cattive! Siete delle streghe…io vi detesto!”.

“Come come?” Disse Georgiana “Hai sentito Liz come ci ha chiamate?”.

Eliza mi si avvicinò afferrandomi per un braccio, aveva una corporatura più robusta ed era più alta di me.

“Credi che non lo dica alla mamma?” grugnì storcendomi un braccio.

“Ma prima…”

Si scagliò contro di me. Sentii che mi afferrava per i capelli. Ma aveva attaccato una creatura disperata. Non vidi nemmeno dove misi le mani, udii solo che mi chiamò “Vipera! Vipera!”.

Quando misi a fuoco, vidi una stria rossastra sulla sua guancia e il formarsi lento di una piccola goccia di sangue.

Sapevo che sarebbe cambiato tutto, quel sangue avrebbe cambiato la mia vita.

Venni afferrata con violenza da due grosse braccia. Invano cercai di divincolarmi.

“Non posso tollerare un simile spettacolo di violenza” urlò zia Diana. “Portatela nella stanza rossa e chiudetecela!”.

Non due, ma quattro mani mi trascinarono su per le scale. Non era nella mia natura dibattermi a quel modo, ma il pensiero di essere rinchiusa in quella stanza mi terrorizzava. Cominciai a singhiozzare e ad urlare disperatamente.

“Vi prego. Vi scongiuro. Non in quella stanza!”

“Rimarrai chiusa lì dentro finché non avrai imparato a stare al tuo posto” sghignazzò Eliza che seguiva compiaciuta Bessie e la signorina Abbot, la cuoca.

“Ma lì dentro è morto tuo padre” urlai mentre una paura folle si impadroniva di me.

“Infatti c’è il suo fantasma che ti guarda”.

Un urlo soffocato uscì dalla mia gola. Non potevano…non volevo stare lì, da sola…

Sentivo Bessie borbottare: “che vergogna, che vergogna. Che condotta scandalosa signorina Bella, colpire la padroncina, la figlia della vostra benefattrice”.

“Non sono una serva io! Non ho padroni!”

“No. Sei meno di una serva, perché non fai niente per mantenerti” disse la zia, che era sopraggiunta  “non fosse per la memoria del tuo povero zio, ti avrei già sbattuta di fuori di casa! Ricorda Bella che tu non hai nessuno. Nessuno, hai capito!?”.

Così dicendo, mi lasciarono lì. Andarono via sbattendo la porta. Il rumore della chiave nella toppa fu peggio di qualsiasi colpo mi potesse essere inferto.

Non era tanto il pensiero che lì vi fosse morto lo zio ad inquietarmi, nonostante la possibilità della presenza di un fantasma mi terrorizzasse, ma era il colore…quel tripudio di rosso cupo, in netto contrasto con il mogano scuro dei mobili. Le cortine del letto, le pesanti tende alle finestre, il panno che ricopriva il tavolino e il tappeto…tutto era di quel colore…infernale.

E c’era il gelo.

La stanza era fredda perché non vi si accendeva il fuoco; silenziosa, perché lontana dal resto delle stanze e solenne, perché era la camera padronale.

Lì lo zio aveva esalato l’ultimo respiro; in quella camera era stata solennemente composta la sua salma; da quella camera era partita la sua bara.  La sensazione che si aveva entrando era una sensazione di morte.

Con la testa piena di queste paure, persi i sensi.

Quando mi risvegliai, riconobbi subito l’ambiente familiare della mia stanza. Ero nel mio letto e sentivo una piacevole sensazione di freddo sulla testa. Vidi Bessie da un lato, intenta a versare dell’acqua in una bacinella ed un signore dall’altro che scoprii, in seguito, essere il farmacista, Mr Lloyd, che la zia chiamava quando stavano male i domestici. Per lei e le figlie chiamava, ovviamente, il medico.

Il modo in cui si stavano prendendo cura di me, mi fecero sentire protetta. Una sensazione che non provavo oramai da tempo. Dolorose lacrime rigarono le mie guance. Un pianto silenzioso, pieno di gratitudine.

Il signor Lloyd mi rivolse alcune domande alle quali risposi sinceramente e senza timore. Capì subito quanta e quale sofferenza doveva essere per me stare in quel posto. Quando mandò di sotto Bessie a prepararmi qualcosa di caldo, capii che voleva chiedermi qualcosa.

“Ti piacerebbe allontanarti da qui Bella? Cambiare aria?”

Quelle parole furono la più dolce delle melodie. Spalancai gli occhi e gli strinsi le mani.

“Oh sì signore. Non desidero altro. Ma io sono sola. Dove potrei stare?”

“Non preoccuparti di questo bambina, parlerò con tua zia e non credo sarà tanto difficile convincerla”

“Oh grazie signore, grazie”.

“Non ringraziarmi. Dio solo sa cosa ti abbia permesso di resistere così a lungo”.

Le ultime parole furono solo sussurrate, ma io le sentii distintamente e non potei che gioirne. Finalmente qualcuno che mi capiva, finalmente una speranza.

Non sapevo dove sarei andata, cosa avrei fatto.

Ma mi fidavo di quel signore dal viso buono e gentile e dovevo solo aspettare, cercare di stare buona e di tenermi lontana dai guai.

Poi, tutto sarebbe cambiato…

Un grazie immenso a Mirya, Biaa, Austen95 e lady lilithcullen per aver speso un po' del loro tempo, lasciando una recensione a questa storia. Ogni parola è per me motivo di grande gioia. GRAZIE.

 

   
 
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