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Autore: Sumi_    05/09/2010    2 recensioni
1956, 4 novembre.
Fuoco, sangue, morte.
Le carni dilaniate dei soldati ungheresi giacciono sull'asfalto,
assieme agli studenti del Politecnico e alle infermiere del Soccorso
Civile. Sotto di loro sono sepolte le speranze di liberare l'Ungheria
dalla dominazione sovietica.
L'orrore che mi circonda scaccia all'istante l'orgoglio per le prime
vittorie riportate, prendendone il posto ed invadendomi brutalmente. Il
senso di colpa mi investe in pochi attimi, sottolineando nella mia
coscienza il ruolo che ho avuto in tutta questa distruzione.
Genere: Malinconico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Il Novecento
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-Titolo: Memorie di una statua a Budapest
-Genere: Storico, Malinconico.
-Avvertimenti: posti alla fine, da leggere dopo la oneshot.

Memorie di una statua a Budapest
1956, 4 novembre.
Fuoco, sangue, morte.
Le carni dilaniate dei soldati ungheresi giacciono sull'asfalto, assieme agli studenti del Politecnico e alle infermiere del Soccorso Civile. Sotto di loro sono sepolte le speranze di liberare l'Ungheria dalla dominazione sovietica.
L'orrore che mi circonda scaccia all'istante l'orgoglio per le prime vittorie riportate, prendendone il posto ed invadendomi brutalmente. Il senso di colpa mi investe in pochi attimi, sottolineando nella mia coscienza il ruolo che ho avuto in tutta questa distruzione.
Striscio, sfruttando il braccio sano come leva, fino a raggiungere il corpo del volontario Gergely che, sotto i colpi delle mitragliette nemiche, era caduto proprio dinanzi ai miei occhi. E io, io che ero stato fra i comandanti della ribellione, io che avevo infervorato gli animi di questi giovani, io, assediato dagli avversari russi, non ho mosso un muscolo per corrergli in aiuto.
Una lacrima pregna di vergogna lascia una traccia pallida sul mio volto annerito dalla polvere da sparo. Socchiudo gli occhi e dietro le palpebre vedo la possibile vittoria che avremmo potuto ottenere; non riesco a evitare di confrontarla con la desolazione attuale, e un groppo mi blocca il respiro in gola. La stanchezza invade il mio corpo e i muscoli del collo cedono, costringendomi a riversare le lacrime nel fango.
Ho sbagliato.
Avrei dovuto intervenire prima, annunciare la ritirata non appena avevo visto le truppe sovietiche caricare contro noi ribelli.
Se l'avessi fatto, forse avrei dato all'Ungheria un futuro migliore, lontano dal comunismo dei sovietici. Se l'avessi fatto, i nostri giovani avrebbero avuto la possibilità di porre le basi di una nuova generazione, che noi vecchi avremmo cresciuto con l'affetto e la pace di cui i nostri figli erano stati privati.
In lontananza si leva un singhiozzo e, come spinta dallo spavento che quel suono mi ha provocato, la verità, cruda ma già nota, mi abbraccia le spalle facendomi sprofondare maggiormente nel terreno melmoso.
Era destino forse.
Perdere, morire, sopravvivere.
Era destino che, nonostante attorno a me i miei compagni fossero caduti uno dopo l'altro come pilastri di un tempio in decadenza, io dovessi assistere alla loro morte e sentire sulla pelle l'odore della loro delusione per comprendere a fondo la perdita che quella battaglia costituiva.
Queste morti, questa sconfitta, segnano l'ulteriore allontanamento della liberazione ungherese, un'altra posticipazione di un dovere che, a causa del nostro fallimento, ricadrà su qualcun altro in futuro.
Chiudo gli occhi, sfiancato dagli eventi; le labbra che baciano il fango, il respiro rarefatto che raschia la gola, le ferite pulsanti che lentamente cessano di esistere insieme al resto del mondo. Niente più colpe, né morti sulla coscienza, né vittorie, né sconfitte.
Il vuoto mi raccoglie da terra, mi anestetizza e mi inghiotte in un'unica mossa, lasciando di me una sagoma, un ricordo. E forse neanche questo.

2003, 19 giugno.
Mattino, pomeriggio, sera.
Quando si è una statua in pietra abbandonata in una stradina chiusa e scordata dal mondo, le ore tendono a susseguirsi velocemente. Così come gli anni.
Nel 2003 ormai l'Ungheria è libera. I giovani studiano le guerre fra i banchi di scuola, imparando a memoria gli anni della prima e della seconda guerra mondiale, la Liberazione dell'Ungheria dal nazifascismo con l'intervento dei sovietici nel 1945, la guerra fredda e lo smantellamento della Cortina di Ferro, la caduta del muro di Berlino... I giovani studiano ciò che viene detto loro di studiare, ciò che è programmato e servito sui loro banchi, e ignorano l'esistenza delle battaglie intermediarie che portarono agli scontri finali o alla pace. Ignorano l'esistenza di un Pal Maleter che ha pianto come un vigliacco prima di spirare nel fango, ignorano l'esistenza della sua statua che giace simbolicamente lontano dal Szoborpark, il Parco delle Statue della periferia di Budapest.
I giovani ignorano molte cose e i vecchi dimenticano il resto.
Di me non è rimasto nulla. Né la carne, né la memoria.
Sono soltanto una statua delle dimensioni di un braccio adulto, posta su un piedistallo che sovrasta una fontanella. Sono una pagina ingiallita e difficile da collocare nella storia perché indecifrabile. Sono un filo d'erba che, messo a confronto con un prato di storia, passa in secondo piano o peggio perde completamente importanza. Eppure continuo ad erigermi nella mia modesta altezza, protendendo il braccio armato verso il cielo come se ancora covassi la speranza di essere ammirato per il mio coraggio. A gambe divaricate, col busto protratto in avanti, accolgo con fierezza gli occhi diligenti della giovane Anna Dimitrov, studentessa della facoltà di Belle Arti di Budapest, che, seduta a terra con le spalle appoggiate al mio mantello, rappresenta tutto ciò che avrei voluto sentir nominare e rimembrare dai giovani ungheresi: il mio onore, il mio coraggio, la mia morte.
Riempio le mie interiora cave d'orgoglio e, se potessi, smuoverei questa pietra crudele ma sempiterna per gonfiare il petto e mostrare alla fanciulla dalle dita di fata il meglio del mio essere.
Ma la morte mi ha accolto anni e anni fa, e tutto ciò che posso fare è assistere alla donna che, scorrendo il carbone su un foglio, mi ritrae con destrezza, aumentando le proporzioni al punto da farmi apparire più maestoso e degno di nota di quanto io stesso oserei dirmi.
Ancora e per sempre, teso verso le nuvole mutevoli, immobile nel silenzio di un pomeriggio d'estate, rinnego la delusione per la battaglia persa che mi aveva oppresso prima di spirare. Invaso dall'euforia ringrazio il destino per la sua magnanimità, per aver trascinato gli eventi fino a questo pomeriggio in cui con un colpo di matita tutta la mia speranza è stata ristabilita e ringrazio l'Ungheria, la mia amata e libera Ungheria, per aver accolto fra le mani della dolce Anna il sogno di un comandante caduto per la patria.







Chiarimenti
Dunque. Ho un po' alterato la storia per adattarla all'impronta che volevo dare alla oneshot.
Le vittorie che Pal nomina all'inizio risalgono alle prime due fasi della ribellione, che effettivamente furono vinte dai ribelli ungheresi. La terza fase si concluse con la vittoria delle truppe sovietiche, che restaurano un governo conservatore filo-sovietico. In realtà però Pal Maleter non è morto in questa terza fase (in realtà non so neanche se abbia combattuto effettivamente, so solo che ha comandato i ribelli nella prima e nella terza fase -vi sembrerà una contraddizione, ma si può comandare senza entrare in campo, credo-) ma è stato giustiziato il 17 giugno del 1958, due anni dopo l'insurrezione.
In più non esiste alcuna statua di Pal, è tutto frutto della mia mente disoccupata che oggi ha deciso di farsi un salto nella storia Ungherese. Chissà magari domani toccherà alla Spagna. Beh, non ricordo tutti i dettagli che ho cambiato a dire il vero, sappiate solo che ho adattato un po' gli eventi a ciò che volevo scrivere. Spero abbiate apprezzato!
   
 
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