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Autore: penny berry    07/09/2010    3 recensioni
"E salverò i ricordi. Quei ricordi… che hanno impresso nella mente di chi sapeva ascoltare, il tuo sorriso. La tua risata rumorosa. Il tuo sopracciglio corrugato ad una domanda imbarazzante. Le tue mani affusolate sui tasti di un pianoforte. La tua sbadataggine per l’affanno di afferrare ogni singolo sorso di vita..."
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Robert Pattinson
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Titolo: ~ and I’ll be Remembering you
Genere: Romantico, Sentimentale
Autrice: carlottina
Capitolo: 11° capitolo – Un freno alle parole
Personaggi: Robert Pattinson più un nuovo personaggio di mia pura invenzione
Note dell’autrice: Ed ecco il nuovo chap con Bobby oltre marrrr!! :D Porello, mi fa un po’ pena, ma è giusto che il ragazzo si faccia le ossa. E chissà che combina invece la pazza a casa…
Ci vediamo sotto, come sempre ;)















11
“Un freno alle parole”







Dicono che più ti ripeti una cosa, più mormori le parole che compongono un’idea, più ti incidi nella mente che doveva andare in una determinata maniera, hai buone probabilità di crederci, di convincerti che si, forse era l’unica via.
Dicono che per quanto tu possa sperare ad occhi chiusi, con un pugno stretto attorno all’eterno desiderio, i miracoli non crollino dal cielo come caramelle senza che tu non lo voglia davvero. Devi giocare la tua parte, devi sussurrare al destino che c’è almeno un motivo valido per cui una certa cosa debba accadere o meno…
Ma dicono anche che, alle volte, il destino è sordo. O ci sente benissimo, a seconda dei casi. Solo che cammina su una strada parallela alla nostra e vede il mondo sotto una prospettiva diversa da come la contempliamo noi. E il problema sta proprio lì. Che anche pregando, implorando e sperando, la maggior parte delle volte non capiamo. E ci feriamo.
E ci sono diversi tipi di ferite. Da arma da fuoco. Da sbadataggine casalinga. Da colluttazione fra bulletti di scuola. Da pollice verde schizzato. Da cuoco amante dei fornelli. Da lavoratore infaticabile… Ciascuna con la propria storia e con il proprio rimedio. Tutte tranne una. La ferita all’animo. Perché per quante vite si possano attraversare, per quante volte si possa apprendere cosa è giusto e cosa è sbagliato, non è mai abbastanza per quell’ennesima che ti lascia in ginocchio come se fosse la prima. Un ciclo che si ripete, un storia vecchia come il mondo e odiata dai tre quarti di esso, ma che non cambierà mai.

E anche quella volta, non sarebbe cambiata per Robert. Non sarebbe cambiata per Tom. E non sarebbe cambiata per Charlotte.
Legati a tre fili, uniti in un unico nodo, ma sparpagliati su differenti piani con una luce individuale a schiarire l’orizzonte.
Naturale. L’illusione che le cose sarebbero andate come sperato, come un giuramento che si fa da bambini, “amicizia per sempre, sino alla morte”, nemmeno fosse un sigillo in grado di fermare l’aldilà, era un credo che si portava dentro il petto come un amuleto. Era lì. Lo vedevi. Lo sentivi e lo adoravi. Ma sapevi che per quanto invogliassi il riflesso a darti ragione e sollievo, era soltanto un modo per scacciare l’evidenza e la coerenza. Che le cose cambiavano.
Cambiavano sempre. Una girandola colorata che si spostava, che girava e sobbalzava ai colpi di un vento che non sarebbe mai stato uguale, che non avrebbe mai rispettato le regole, perché regole non ve n’erano, che non avrebbe mai ascoltato nessuna lamentela per sorda e muta che fosse, che non si sarebbe mai fermata, ne per se stessa ne per il mondo intero…
Abbattersi, forse, era l’unica via d’uscita. O probabilmente, imporsi e giocare a proprio favore i colori della vita era l’unica alternativa. “La vita non è tutte rose e fiori”: i colori restavano, ma avevano le spine, e dipendeva solo dal modo di raccogliere il fiore, dall’ignorare il dolore ed imparare di conseguenza ad evitarlo o ad essere più forte.

Erano passate due settimane dal ventisei Dicembre.
Le immagini registrate nella memoria scorrevano ancora come un film interrotto.
Robert che raccoglieva lo zaino. Robert che baciava Charlotte sulla fronte. Robert che schivava la gente al check-in. Robert che chiudeva gli occhi ed oltrepassava le porte scorrevoli. Robert che spariva fra le nuvole.
Due settimane e sembrava ancora il primo giorno. Due settimane e Charlotte sentiva ancora il profumo del ragazzo sulla propria pelle. Due settimane e l’eco del “ti voglio bene” sussurrato risuonava senza sosta come campane alla fine del mondo.
Avesse voluto mentire, avrebbe detto che stava assimilando la cosa e se ne stava facendo una ragione, che non era così terribile come si aspettava, sarebbe tornato indietro prima o dopo. E a voler essere sinceri, invece, doveva ammettere che non aveva dormito per quattro giorni di fila.
Si svegliava nel cuore della notte con il fiato corto e gli occhi sbarrati con la convinzione di sentirlo chiamare al piano di sotto, o di sentirlo suonare nella veranda sul retro, lui e la sua stupida chitarra.
Lo vedeva muoversi negli specchi del corridoio, dell’armadio e del bagno, per poi voltarsi su se stessa di scatto nella muta speranza che fosse già tornato, in un improvviso cambio di programma, quando invece era l’abitudine a farle immaginare le sue espressioni e cenni del capo.
Si aspettava di trovare il solito disordine, scarpe e calzini sparsi come relitti per i pavimenti delle stanze; il dentifricio schizzato sul lavandino e sullo specchio; le magliette mescolate alle proprie; la scatola del latte puntualmente dimenticata sul tavolo della cucina, assieme al barattolo del caffè; i fogli degli spartiti seminati come coriandoli in ogni angolo possibile… E invece l’ordine regnava – nei limiti del possibile – il bagno restava pulito, così come i pavimenti e il tavolo della cucina; i vestiti erano piegati e ordinati nei ripiani e negli angoli v’era il nulla se non la polvere.
Segni. Evidenza. Lui non c’era. Non era tornato. E sarebbe stato così per un pezzo.
Oh. Lui aveva mantenuto la promessa. Una volta atterrato, appena passata la dogana e i controlli di routine, non aveva nemmeno ripreso a respirare, che già armeggiava con il cellulare e componeva il numero di casa Sullivan e contava i secondi che passavano prima di sentire un boato scoppiare dall’altra parte della cornetta.
“PRONTO!”
“Sono io! Sono arrivato!” aveva sorriso, pur sapendo che non l’avrebbe visto.
“Oddio, sei tu! Stai bene? C-com’è andato il volo? Cosa fai or – RIDAMMI IL TELEFONO!”
E Robert aveva storto la bocca interrogativo.
“Dammi qua! … pronto? Hei Bobby! Allora com’era il volo? Le hostess ti hanno trattato a dovere? Non devo lavare nessun’onore? Lo faccio volentieri se occorre!”
“Tempismo perfetto Tom, meno di ventiquattrore e già mi rimpinzi delle tue perle: casa non mi manca per niente” aveva riso il ragazzo, con il cuore colmo di gioia.
Non sei era nemmeno chiesto cosa ci facesse l’amico a casa di Charlotte, anche se aveva una mezza idea: la regola del “non lasciarla sola” vigeva, almeno per i primi giorni, e malgrado la gelosia, doveva ammettere che gliene era grato.
Erano rimasti al telefono per mezz’ora, con Robert che rideva come un disperato, i piedi in America, e Charlotte e Tom che si strattonavano la cornetta a vicenda, seduti sul divano con il cielo di Londra fuori della finestra.
Non si badava a spese, per così dire, nonostante il sopracciglio di Marie Anne si incurvasse un po’ troppo mentre adocchiava i minuti scorrere, e quelle telefonate si ripetevano di continuo, come se il ragazzo fosse sempre stato lì e la sua immagine oltre oceano fosse solo un dipinto.
Raccontava della piccola camera d’albergo che gli avevano dato per le prime due notti, senza intrattenitrice aggiuntiva come aveva dovuto chiarire a Tom, ed immaginando l’espressione disgustata di Charlotte; aveva descritto poi la roulotte, piccola ma confortevole, poco distante dal set vero e proprio… e, naturalmente, aveva parlato di tutto il resto: della regista, una bomba esplosiva intrappolata in un corpo da donna adulta; di alcuni co-protagonisti già incontrati e che, a sentirlo, non sembravano così male; del trucco che gli avevano dovuto sperimentare sulla faccia, nemmeno fosse stato una lavagnetta cancellabile e riscrivibile; insomma, un’altra vita, che sapeva di nuovo, di diverso… di lontano.
“Eh dimmi, lei l’hai vista? Com’è?” aveva chiesto Tom, all’ora di pranzo mentre si ingozzava di patatine fritte in cucina, Charlotte alla sua destra che giocava con il tubetto della maionese. “Hai già fatto conoscenza?”
“Lei chi?” si era sentito dall’altra parte.
“Lei. La tua Bella… Isabella… o come diavolo si chiama”.
E un’ombra scura era passata sul volto di Charlotte. Un’ombra veloce e sfuggevole, ma che Tommy era riuscito lo stesso a cogliere e a chiedersene il perché.
“Oh. Oh… Kristen” rispose Robert, “Certo. È un po’ che la vedo, sai? Oggi abbiamo fatto la prova costumi: caspita è minuscola, e ha un’aria così… così…”
“Sexy?”
E di colpo, Charlotte schiacciò un po’ troppo forte il tubetto, e il tappo salto via attraverso la cucina.
“Stavo per dire introversa. È difficile parlarle. Non sembra una molto socievole… o forse lo è, ma non le sto simpatico”.
“Questione di punti di vista” lo aveva rassicurato Tom.
“È strana. Diversa da come me l’aspettavo”.
“Chiedigli com’è il tempo” si era allora intromessa la ragazza mora, fissando con aria contrariata il punto dov’era scomparso il tappo.
Tom l’aveva guardata per un istante con aria confusa, poi aveva ripetuto la domanda all’amico.
“Il tempo? Uhmm… piove. E fa freddo. Perché?”
“Niente. Qualcuno sta sviluppando un interesse per le previsioni meteorologiche in maniera ingiustificata”.
“Non è vero”.
“Chi?”
“Nessuno” aveva bofonchiato Tom, schivando uno scappellotto sul collo. “Piantala!”
“Charlotte è lì?”
“Sono seduto sulla tua sedia in cucina, in casa sua, si”.
“Leva le chiappe e passamela”.
Erano svariati gli argomenti, a seconda della giornata, così come lo era la voce del ragazzo. Una volta era stanco, una volta era entusiasta, l’altra era elettrizzato o confuso, ma più passavano i giorni, e più si poteva notare la sicurezza che prendeva tono e la curiosità che risuonava nelle sue riflessioni. Era un mondo diverso, e facilmente lo si poteva immaginare con la sua espressione da dolce irresponsabile con il sorriso stampato sul viso e la risata pronta, la maschera che calava sempre, come una cortina su un palcoscenico, ma che faceva sempre centro, perché disarmava… perché metteva nella posizione di unirsi alla sua allegria.

E passate quelle due settimane, ne era seguita una terza in cui le chiamate erano diminuite. La giustificazione? Intense riunioni di gruppo e lunghe discussioni con la scrittrice riguardo ogni singolo personaggio; Robert era il protagonista, e le sue ore d’aria erano ridotte drasticamente, cancellate da colloqui e interazioni con regista, autrice e sceneggiatrice. Per non parlare del legame che il ragazzo aveva dovuto avviare con la tanto nominata Kristen, o Isabella che dir si voglia, che a detta sia di Robert che di Tom, era un’attrice a dir poco straordinaria per la sua giovane età…
A poco erano servite le minacce silenziose e i lunghi sguardi assassini rivolti a Tom quando si lasciava andare in commenti e consigli poco ortodossi circa un “sii te stesso amico, lascia andare il Robert che è in te” con un aggiunta più seria di “Beh… vedi il lato positivo: se andate d’accordo, la sopporterai fino alla fine, se è bisbetica rimpiangerai il giorno in cui hai accettato di firmare il contratto, vecchio mio”.
Non che Charlotte avesse qualcosa da ridire al riguardo, o meglio… non necessariamente: comprendeva la difficoltà di intesa, non sempre fra persone mai viste prima e con cui si è forzati a lavorare a lungo scattava la scintilla, ritrovandosi poi a bighellonare per il set come amici di prima asilo. Ma era anche vero che le pressioni di Tom e i risolini isterici di Robert dall’altra parte della cornetta, erano di un livello a dir poco insopportabile. Trovò una sola spiegazione al riguardo: che gli uomini erano tutti maledettamente uguali. Cameratismo e tanta sfacciataggine.
Giunsero di quel ritmo sino alla fine del mese, quando Charlotte aspettava per l’appunto una nuova chiamata, mentre era sdraiata sul letto, intenta a sfogliare il famoso “Twilight” con aria corrucciata e le mani nervose.
Il cellulare squillò. Lei mise il segno al libro e si voltò a guardare lo schermo luminoso, accanto a lei, sulla coperta. Era lui.
“Pronto?”
“Ciao”.
“Hei… sei sotto le grinfie di chi, ora?”
“Uhmm… ho appena liquidato la truccatrice, improvvisando una lunga corsa disperata verso la porta del bagno. Devo averla convinta, perché non mi ha inseguito: attore mica per niente”.
“Hanno cura di te, Rob, cerca di essere accomodante” lo prese in giro con un risolino lei.
“Non dopo quello che mi hanno fatto oggi” gracchiò il ragazzo.
“E cosa ti avrebbero fatto, sentiamo?” sospirò Charlotte, pronta all’ennesima lamentela. Di storie truci sulla truccatrice ne aveva a miliardi, poteva scriverci un libro intero e vivere di rendita.
“No. È troppo… i-imbarazzante”.
“Oh, ora me lo dici! Cos’è, ha provato su di te il lipgloss effetto bagnato, all’ultima moda? Ti hanno messo il mascara glitter? Anzi, perdonami la domanda: da quando i vampiri brillano al sole? Cioè, tu brilli al sole? Non fatico a comprendere l’attrattiva che quella povera truccatrice ha per te, sai? Potrà sbizzarrirsi a pasticciarti la faccia” e schiarendosi la voce e assumendo un cipiglio severo, imitò la voce di Tom. “Vedi il lato positivo della cosa, Bobby: un donna che ti massaggia la faccia tutto il giorno, è una cosa per cui tutto il mondo darebbe via il proprio migliore amico. Anche se è brutta, le puoi sempre mettere un sacchetto in testa, ah ah aaah”.
Robert sospirò un paio di volte, chiedendosi se Tom le avesse fatto il lavaggio del cervello, prima di dirle con grande umiliazione, “Mi ha fatto la ceretta alle sopracciglia”.
Un attimo di silenzio intercorse sulla linea, per poi venire interrotto da un singulto. E un secondo. Anzi era più un respiro strozzato. E ancora. Assomigliava ad una risata. Si, una risata mal trattenuta, che nel giro di poco scoppiò in un boato che costrinse Robert ad allontanare il telefono dall’orecchio.
“Grazie eh. Si si, grazie, bella comprensione”.
Charlotte rideva come un’ossessa. Accidenti, se c’era una cosa che Rob odiava, era l’essere femminile o essere trattato da tale, come ad esempio essere costretto a farsi la barba con cura, quando lui adorava lasciarsi cancellare mezza faccia dal disordine, oppure l’avere troppe mani che gli cospargevano guance e naso di creme ed esfolianti. Le sopracciglia, quindi, dovevano essere un duro colpo all’orgoglio. Uno si sarebbe preoccupato se si fosse sentito dare dell’impotente con rabbia, ma Robert era diverso. Lui si preoccupava… delle sopracciglia.
“Naturale, certo. Io te lo dico e tu ridi, m-mi sembra il miglior conforto che uno dovrebbe ricevere, giusto? Che stupido, perché non te l’ho detto prima, eh!?”
Charlotte soffocava e batteva il pugno sul cuscino come una matta, mentre si immaginava la faccia del ragazzo rossa e solcata da macchie rosse e residui di ceretta. Uno spettacolo.
“Ma allora hai finito?!”
“Oddio… ahahahah!”
“Ma tu guarda…” grugnì, per poi aggiungere, “FINISCILA!”

Da quell’ultima volta, le settimane presero a volare. Gli impegni si intensificavano, il lavoro portava via gran parte del tempo, e la stanchezza si prendeva il resto. Le chiamate scemavano, raggiungendo un ritmo di un paio durante i sette giorni, con l’esclusiva del weekend.
Era difficile, ma Charlotte accettò silenziosamente il compromesso. Poteva diversamente?
Era la sua vita, era il lavoro che aveva scelto, e si sentiva già un’ingrata per il costringerlo implicitamente a telefonarle per renderla partecipe di un qualcosa a cui lei stessa aveva rinunciato, figurarsi il rimproverargli della carenza di chiamate.
Sentiva la soddisfazione crescente e l’orgoglio che si nascondevano sotto le parole del ragazzo e i discorsi che facevano: orgoglio per l’essere parte di un progetto in grande e “straniero”, per l’indipendenza che pian piano arrivava e si legava al suo cuore come una nuova musica. Stava crescendo, stava cambiando, stava maturando… e lo stava facendo lontano da lei.
Perché nonostante sentisse la sua mancanza, era questo il vero dolore di Charlotte: che lui diventasse un altro senza che lei potesse accorgersene, senza che potesse vederlo, senza che potesse esserne partecipe. Passavi parte della giovane vita a condividere ogni sorta di emozione, sentimento ed affetto, dall’imparare ad allacciarsi le scarpe al riconoscere la differenza fra passione ed amore, e poi… la prima grande svolta, quella che ti catapultava nel mondo degli adulti, lui la affrontava da solo. Certo, circondato di nuovi compagni d’avventura, ma senza i vecchi. Lei e Tom erano rimasti indietro, erano rimasti a guardare un film a cui non appartenevano più, e Charlotte era convinta che così come lei soffriva, anche Tom ne pativa, pur nascondendolo dietro risate e battutine piccanti.
Era così. Era naturale. Amavano Robert. E soffrivano. E parlarne, purtroppo, serviva a poco, ed era già successo.
“Pensi che… si trovi bene, là?” aveva chiesto una sera la ragazza, mentre mangiavano pizza davanti al televisore.
“Perché non dovrebbe?” aveva risposto atono Tom, fissando lo schermo.
“Non è sempre facile. Alle volte… beh… non si sa bene come… fare”.
“Imparerà alla svelta” fu la risposta. “È quello che ha scelto. Deve farci i conti”.
Charlotte l’aveva guardato perplessa, scrutando l’espressione diversa che aleggiava sul viso di solito allegro del ragazzo. Lui aveva posato la pizza e si era voltato, piantandole in volto gli occhi azzurri.
“Non ho risposta. Cosa vuoi che ti dica? Ha fatto una scelta, è l’ho rispettata. Ha scelto di camminare su una strada diversa dalla mia. E l’unica cosa che posso fare è sperare che sappia quello che fa. È il mio compito. Credere e aspettare. Non posso fare altro”, ed aveva ripreso a mangiare la pizza guardando la televisione.
Soffriva. E Charlotte ora glielo leggeva a chiare lettere addosso. Mostrava la facciata spensierata, quella che da anni erano abituati a vedere e sopportare, ma sotto c’era altro: anche Tom stava crescendo. Maturava la consapevolezza che prima o dopo i percorsi si dividono, ciascuno si assume le proprie responsabilità e decide di abbandonare parte della vecchia vita per fare spazio alle novità. E lui, Tom, faceva parte di cosa? Del vecchio… o poteva restare a fare parte anche del nuovo?
Charlotte gli aveva messo una mano sul braccio e aveva detto, “Non si è dimenticato di noi”.
Ma lui non aveva risposto.


***


Dei passi risuonarono sul selciato ghiaioso e raggiunsero una piccola scaletta, per infilarsi dentro un abitacolo non troppo ampio e chiudersi una porticina alle spalle. Una mano s’allungò su un interruttore e la luce rischiarò una semplice zona soggiorno, da cui si scorgeva il letto nella stanzetta accanto.
Robert sospirò passandosi una mano sui capelli. Appoggiò la giacca sul ripiano accanto alla porta, si avvicinò al letto e si lasciò cadere sul materasso. Era stanco. Terribilmente stanco. Più per l’emozione che non per l’effettiva giornata di lavoro. Era stata abbastanza tranquilla, una scena nella mensa della scuola, dove aveva fatto cadere una mela almeno un miliardo di volte, prima di afferrarla come da copione, e poi un’altra, in una serra dove faceva un caldo infernale e dove, per giunta, l’avevano obbligato a tenere addosso il cappotto. Era scoppiato dal caldo, merito dei tre quintali di trucco immacolato sul viso se non era apparso il suo rossore, almeno serviva a qualcosa quella dannata tortura.
Si passò una mano sulla faccia con una smorfia affranta, e la lasciò ricadere sulle coperte.
Era ora di cena. E non aveva fame. Lui che non smetteva mai di mangiare.
Aveva una strana stretta alla bocca dello stomaco, che gli attorcigliava la pancia e gli dava il nervoso. Erano giorni che l’aveva, ad essere sinceri, ma era più facile ammetterlo dopo un po’, per sminuire la debolezza, piuttosto che crollare ad ammettere la verità in pochi attimi.
Con un’occhiata al soffitto pensò a suo padre, con il suo cipiglio severo, che gli diceva “Non ammettere le cose come stanno, figliolo, complica solo le cose. Cosa ti ho insegnato, diamine?!”
Abbozzò ad un sorriso, per poi lasciarlo sparire al ricordo di cosa effettivamente lo rattristava.
Aveva chiamato Tom, il giorno prima, per la solita chiacchierata… e l’aveva trovato spento, cupo, privo della solita allegria. Aveva spostato l’orecchio dal telefono ed aveva controllato il numero sullo schermo per essere sicuro di parlare con il vero Sturridge.
“Non ho niente. Perché, che ho che non va?” aveva chiesto.
“Sei… diverso”.
“Non è vero”.
“Non hai ancora detto una parolaccia…”
“Sto mangiando, Robert”.
“Certo. Dovevo… immaginarlo” aveva annuito a capo chino lui. “Scusami”.
Non era vero. E lo sapeva. Lo sapeva lui. E lo sapeva Tom. Ma nessuno dei due l’avrebbe mai ammesso. Anche perché infondo non c’era nulla da ammettere: erano divisi, erano separati e lontani. Punto. Non condividevano le idiozie quotidiane, non si prendevano in giro a vicenda e non chiacchieravano più con la solita tranquillità. C’era sempre il telefono, ovvio, ma non era decisamente la stessa cosa.
Robert pensava che il colpo più duro sarebbe arrivato con la separazione da Charlotte, ma si sbagliava se credeva che sia lui, che Tom, non ne avrebbero risentito. Uno sciocco. Certe cose le speri e ti auguri che non accadano, ma succedono e basta…
Represse un gemito ad un crampo allo stomaco, prima di scattare a sedere come una molla sul letto. Avevano bussato?
Un secondo colpo alla porta gli diede conferma, e lui andò ad aprire.
Un ragazzo abbastanza alto e dal fisico asciutto e longilineo, con una buffa chioma spettinata di capelli biondi, lo guardava allegro muovendo la mano in un cenno di saluto.
“Heilà”.
“Oh… Jackson”.
Il ragazzo alzò un sopracciglio. “Ed immagino che tu sia lieto di vedermi”.
“Altroché” sorrise Robert. Non lo conosceva da troppo, ma era il primo che gli era andato a genio… Riservatezza e carattere brillante allo stesso tempo, un carisma ed uno sguardo che diceva molto di più che non un intero discorso da cerimonia.
“Non ti ho visto a cena. Tutto bene?”
“Oh si… io… ero un po’ stanco” fece un cenno evasivo Robert.
“Certo, capisco”.
Jackson inclinò la testa di lato con un accenno di sorriso. L’altro, ancora in cima alle scalette con l’aria impacciata, scrollò le spalle, “V-vuoi entrare? Non so…”
“No, ero solo passato a vedere come stavi”.
“D’accordo”.
“Anche Ash era preoccupata”.
“Mi dispiace” arrossì Robert.
“Nah, ci vediamo già fin troppo sul set, che dici?”
Si guardarono entrambi un momento, e poi ridacchiarono sollevati. Erano alle prime armi: di giorno attivi sul set, fra un corsa e un dialogo recitato; la vita reale era diversa, ad un passo dalla scena cinematografica, ma nettamente più rigida… occorreva una certa dose di buona volontà e coraggio per abbattere l’imbarazzo.
“Si… credo di si”.
Jack sorrise. “Domani sera però usciamo a bere qualcosa. Sei dei nostri?”
“Oh certo, si, volentieri” annuì il ragazzo.
“Kellan ha dato un’occhiata nei dintorni oggi, sai… aveva la giornata libera. Dice che c’è un localino niente male, piccolo, ma con buona musica. Immagino sia meglio che restare rinchiusi nella serra per due ore”.
“Oddio… la serra” si batté una mano sulla faccia Robert. “Dio, non me lo ricordare”.
“Ashley mi ha quasi portato via di peso, per colpa del caldo: per essere un vampiro che sopporta ogni cosa, non sono stato molto convincente. Salvato da una donna per giunta” ridacchiò.
Rob fece una smorfia divertita e si passò una mano fra i capelli.
“Beh, allora buona notte. Ci si vede domani mattina” lo salutò Jackson.
“Si, certo. A domani” fece un cenno lui. E l’altro fece due passi indietro prima di incamminarsi sul selciato e sparire dietro l’angolo.
La porta della roulotte si chiuse; Robert si spogliò con lentezza e assenza; si diede una lavata e, infilata una vecchia maglia di Tom, spense la luce e si cacciò a dormire, pensando che forse sarebbe dovuto andare a cena, allontanare i cattivi pensieri e considerare che in quel posto doveva restarci ancora per parecchio tempo.

Il mattino dopo, così come i seguenti, Rob si svegliò con lo spiraglio di luce tenue che passava attraverso le tende e il suono snervante della sveglia, accanto al letto. Si rigirava sul materasso mugolando e sbuffando, affondando il viso nel cuscino. Le sveglia continuava a suonare, ma lui litigava con le coperte, ancora vagante nel mondo dei sogni, con una frase mormorata inconsapevolmente sulle labbra, “Piccola, spegni la sveglia”.  Abbracciava il cuscino e lo stringeva forte, socchiudendo gli occhi ed inspirando un profumo che ricordava nei sogni, fin quando… piano piano si rendeva conto di accarezzare un pezzo di stoffa impregnato del proprio odore e di fumo. Tirava allora una manata addosso alla sveglia, e con un sospiro sconfitto fissava il soffitto ripetendosi quanto fosse stupido ed illuso.
Quello che accadeva poi, stava diventando la sua routine e, per quanto all’inizio fosse difficile, cominciava ad abituarsi. Pensò che se si trovava lì, con un oceano di distanza da casa, era solo per una propria scelta, una svolta a cui lui stesso aveva dato diritto di vita… cosa costava, dunque, vedere il lato positivo nascosto fra le righe e affrontarlo a pieno petto? Beh, dovette ammetterlo, gli costava parecchio.
Lui era una persona fondamentalmente socievole e, per certi versi, maledettamente imbranata e fiduciosa, tanto che, spesso, gli amici lo riprendevano dicendogli che avrebbe dovuto passare più tempo con la bocca chiusa, piuttosto che finire con qualche delusione in più alle spalle.
Ma era più forte di lui. Parlava e riversava tutto quello che la sua mente gli proponeva, condivideva e poneva sul palmo della mano le proprie idee e punti di vista, quasi a dimostrazione che lui si fidava, che lui metteva a nudo i propri pensieri, senza vergogna. Cosa c’era in fondo da nascondere? Per come la vedeva lui, era più semplice mettere le carte in tavola subito, piuttosto che rincorrersi una vita per una briciola di conoscenza. E forse era anche per quello che si ritrovava con elementi come Tom alle calcagna: gente con un’insana vena di follia in corpo, ma che di vendersi per una maschera di finzione costruita con arte nemmeno a parlarne. “… pochi ma buoni”, si diceva, e lui ci credeva.
Dove stava quindi il problema?
Beh… il problema stava in tutto. O forse niente, pensò. Fosse stato per lui, avrebbe elargito consigli e riflessioni filosofiche da mane a sera a tutti i presenti, sarebbe rimasto in piedi fino a notte tardi per discutere anche delle cose più inutili e sciocche, avrebbe raccontato ciò che più lo spaventava e lo rallegrava, senza riserve, con l’innocenza di un bambino… Ma poteva permetterselo?
Facce nuove e occhi bassi o fissi in punti vuoti gli scorrevano davanti, giorno e notte, come fotografie strappate da un album a colori forti e spenti. Era come tuffarsi di colpo in un mare in cui l’acqua sa di sale e zucchero, in cui le onde sono blu e gialle, in cui la corrente tira a destra e a sinistra… In poche parole, il mondo. Pensava che nel suo piccolo circolo londinese avesse potuto assaggiare una buona fetta di vita, e forse così era, ma il ritrovarsi davanti un’esperienza tale gli fece comprendere che, per quanto credi di aver dato tanto alla tua esistenza, lei ti stupisce sempre, ogni giorno che passa.
E Robert era stupito. Sorpreso. Dal silenzio ponderato e gli occhi profondi di Jackson, dalla risata chiassosa di Kellan, dalla dolcezza non troppo ingenua di Ashley, dalla schiettezza di Nikki e dalla riservatezza ossessiva di Kristen. Era stupito e disarmato da quello che ciascuno di loro proponeva e richiedeva. Era stupito e pensieroso di fronte a quello che riteneva giusto concedere loro riguardo se stesso. E non perché fosse colpito da una sindrome di egoismo, ma perché… aveva paura.
Gli ci vollero due settimane per capirlo. Per ammettere che la sua era paura, mista ad insicurezza e precauzione. Era come confrontarsi per la prima volta con un alieno, piombato dal cielo, e che gli diceva con un sorriso “Ciao! Sei circondato di estranei e ciascuno di loro può mentirti e prenderti in giro, può dirti la verità e fidarsi. Non ci sono margini di errore, e l’evidenza superficiale non basta. L’ingenuità non ti salverà, ma ti condannerà. Buon divertimento!”.
Si sentiva insicuro, perplesso e stracciato. L’istinto gli diceva di giocare se stesso in tutto e per tutto, era ciò che gli avevano insegnato, che senso aveva fare il contrario? Ma quella vocina, nascosta Dio sa dove, gli ripeteva di frenare, di rinchiudere la maggior parte della propria allegria e rilasciarla un poco alla volta, come una stella che aumenta la sua intensità man mano che cala la sera.
Non si era mai fermato a riflettere sul fatto che sarebbe potuto accadere. O meglio, lui e Tom l’avevano considerato, ma lungi dal ritrovarsi in mezzo e, come da manuale, non sapere cosa fare.
Rideva spesso, quando era da solo, dicendosi che era un idiota. Fatto e finito. Chi si sarebbe mai fatto problemi su una questione così banale come interagire con un gruppo nuovo di amici? Già… ma lui era Robert. Ed era un maestro in paranoie, non si aspettava di cambiare in pochi giorni, solo perché il sole americano gli tingeva il panorama con colori più attraenti, giusto?
E così i giorni passavano, Dicembre sfumò in Gennaio… e Robert passava le sue giornate fra battute celate sotto l’aspetto di un vampiro adolescente con il cuore colmo del più grande sentimento del mondo, e l’indecisione di non reprimere se stesso dietro una cortina di finzione e freddezza, ereditata da un’insicurezza che non si aspettava di avere e con la quale non riusciva a dialogare.


***


Era una mattina a fine mese, fredda e ghiacciata, con il sole coperto di nuvole, quando il cellulare squillò nella borsa di scuola.
Charlotte salutava i compagni di classe e si avviava lungo il corridoio che portava all’uscita con passo trascinato. Aveva due profonde occhiaie segnate, come se il trucco fosse colato in una macchia bizzarra; i capelli erano spettinati e scomposti, e lo sguardo assente. Robert non chiamava da una settimana, e lei non aveva dormito.
Stava giusto schivando un ragazzo in corsa, nemmeno fosse un centometrista impazzito, quando si accorse della suoneria che proveniva dalla tasca dello zaino. Non si fermò nemmeno a pensare chi potesse essere, strattonò la cerniera e rispose senza respirare.
“Sono io, ciao”.
La ragazza deglutì e sorrise chiudendo gli occhi.
“Ciao…”
Robert sospirò dall’altro capo del telefono e si torturò i capelli. “So che… s-sarai arrabbiata. È un pezzo che non mi faccio sentire, ma… ecco io… ero in una zona dove il cellulare ha deciso di abbandonarmi e il lavoro mi ha letteralmente schiavizzato. Scusami”.
“Non sono arrabbiata!” saltò come una molla lei. Forse lo era, ma sentirlo cancellava ogni precedente sensazione.
“Oh… d’accordo. Meglio così allora” ridacchiò più sollevato. “Sei a scuola?”
“Sto uscendo. È saltata l’ultima lezione… professore assente” fece spallucce lei.
“La solita fortuna. Che fai ora?”
“Beh, penso che… andrò a casa e - ”, ma non riuscì a finire la frase perché un bolide la colpì in pieno, facendola gridare, avvinghiandosi al suo braccio come una cozza.
“Ciao splendore!”
Charlotte chiuse gli occhi inspirando a fondo, mentre stringeva con forza il cellulare nella mano.
“Cos’è stato? Sei caduta?” chiese allarmato Robert.
“No… n-non è niente” bofonchiò la ragazza. Ed aggiunse con un grugnito rivolto alla persona accanto a lei, “Ciao Nia”.
“Con chi parli? È il disertore? Oh bell’amico, è una settimana che è scomparso” gracchiò dispettosa la bionda, prima di allungarsi verso il telefono ed urlare un forte “Ciaooo!”
Un gemito arrivò dall’altro capo e Robert impiegò qualche minuto a rispondere. “Ho perso l’udito”.
“Nia che vuoi?” chiese irritata la mora, fulminando la ragazza con uno sguardo omicida.
“Oh, stare un po’ con te, dolcezza. Perché?” rispose lei sfarfallando gli occhioni.
“Abbiamo già condiviso cinque ore… non è sufficiente?”
“Uhmm… no. Anche perché ho una notizia strepitosa da dare” trillò, stritolandole il braccio.
“E chissà perché, ho paura”.
“Ma chi è?” chiese impaurito Robert.
“Nessuno” rispose Charlotte scrollandosi Nia dal braccio senza riuscirci.
“Oh bell’ingrata, tesoro! Ma soprassiederò la tua insolenza e ti dirò che…” disse avvicinando il proprio viso allegro a quello dell’amica, la quale si ritrasse spaventata, “… siamo invitate ad una festa!”
Charlotte la fissò ad occhi sgranati e chiese se la cosa doveva avere rilevanza per lei.
“Certo che si, sciocchina, perché non dovrebbe!” le aveva tirato una guancia Nia, ignorando l’urlo di dolore. “Ma stavolta devi ringraziare la fata Turchina, lì al telefono, è merito suo”.
La ragazza fissò prima la bionda e poi il cellulare, senza riuscire a comprendere. Festa? Che festa? Anche se ci fosse stata, era oltremare, forse, e Nia si aspettava che prendesse un aereo solo per una dannata festa?
“Rob…”
“A prescindere da chi tu abbia in parte, metti una debita distanza tra me e lei, per favore” gemette il ragazzo. “Comunque ho sentito quello che ha detto, non che mi sia risultato difficile. Stavo chiamandoti apposta per dirtelo”.
“Per dirmi che cosa?”
“Sono stato invitato ad una festa, domani, lì a Londra. Niente di sconvolgente, è più un raduno di giovani attori emergenti e qualche figlio di papà annoiato. Ci andrei, se potessi… ma è ovvio che no” rise. Tacque un attimo poi riprese, come se stesse pensando a qualcosa, “Ho girato l’invito a Tom”.
Charlotte spostò lo sguardo su Nia, ancora avvinghiata al suo braccio e con gli occhioni blu accesi. “E tu come fai a saperlo?”, le chiese.
“Della festa? Oh, mi ha chiamato Tom, no?”
“Pensavo che chiamasse te, in realtà” aggiunse Robert.
“Beh, come al solito sono l’ultima a sapere le cose” disse lei.
“Tesoro, è irrilevante il messaggero, conta la sostanza: andiamo alla festa”.
“Non usare il plurale, Nia”.
“Come sarebbe a dire?”
“Non vuoi andare?” domandò Robert. Non che si aspettasse una risposta diversa.
“Perché dovrei? Non sono ne attrice, ne figlia di papà annoiata. Se Tom vuole andare, non sarò io ad impedirglielo” rispose secca lei.
Robert sospirò, mentre Nia corrugò la fronte. “Che razza di risposta, tesoro”.
“F-forse stare sempre in casa… Forse dovresti uscire, un po’. Alla fine è solo una festa” azzardò il ragazzo con tono improvvisamente stanco.
Charlotte continuò a camminare. Sorpassò il cancello della scuola, raggiunse il marciapiede e attraversò la strada, diretta alla fermata dell’autobus, sempre con l’amica cucita al braccio.
Aveva la mente annebbiata. La notizia l’aveva colpita in pieno come un treno merci. E, a suo avviso, aveva almeno due motivi per rifiutare: il primo era passare una serata possibilmente piacevole in compagnia di Tom e Nia sapendo che con loro avrebbe dovuto esserci Robert, era lui l’invitato… e il secondo, non meno rilevante, era la brutta esperienza di Natale che alle volte le tornava ancora alla mente. Certo, sapeva che c’erano scarse probabilità che un cosiddetto “figlio di papà” le tirasse una bottiglia in testa, ma la paura e la diffidenza restava, infilata sotto la pelle, mescolata al sangue e impressa nel petto. Si sentiva stupida e codarda, cominciava a riconoscerlo, dannazione, lo sapeva… ma non riusciva a cacciare fuori la forza di volontà.
“No” disse, fermandosi.
Robert non disse nulla, e lei si chiese se avesse sentito. Nia, in parte a lei, alzò gli occhi al cielo, e borbottò qualcosa.
“Cosa?” chiese Charlotte.
“Tanto valeva che non te lo dicessi: era meglio rapirti e imbavagliarti”.
“Oh, si, certo, ho visto l’ottimo risultato l’ultima volta, già”.
E quella fu una delle poche volte in cui Charlotte vide la rabbia cieca mescolarsi negli occhi della ragazza bionda. L’azzurro s’incupì, come inghiottito da una macchia di colore buio. Nia mollò istintivamente il braccio dell’amica.
“Naturalmente. È stata colpa mia. L’ho programmato a dovere. È stato delizioso”.
Charlotte si morse la lingua e sentì il sapore del sangue in bocca. Stupida, la solita stupida.
“N-no… non intendevo quello… non è stata colpa tua” biascicò impallidendo.
Nia la fissava con aria truce, e non disse nulla.
“Non serve a niente prendertela con la tua amica” disse d’improvviso Robert, tanto che la mora sussultò sentendo la sua voce. “Non è colpa di nessuno, lo sai. È soltanto… Dio, è soltanto una stupida festa, Charlotte, per favore. Se non vuoi andare, non andarci, ma non… non fare così, ti prego”.
E se avesse potuto, lei si sarebbe morsa la lingua un’altra volta. Succedeva sempre così, parlava dando libero sfogo alla propria frustrazione e paura, come un fiume in piena, senza che si curasse di arginarlo in tempo per impedire di ferire chi le stava attorno. Non che fosse sua intenzione offendere Nia o addossarle la colpa, ovvio.
“Scusa…” disse, chinando il capo con aria abbattuta.
“Devo andare ora. Sono le cinque del mattino, qui, e i ragazzi hanno appena finito di fare casino… sono stanco. Domani ho la giornata piena” disse lui, la voce stanca e tirata. “Ci sentiamo appena ho un minuto libero”.
“Rob io… mi disp - ”
“Fai quello che ritieni giusto. Io non posso obbligarti in nulla”.
Nessun saluto, nessuna promessa. Robert interruppe la chiamata, lasciando che il silenzio inondasse la mente della ragazza, rimasta immobile e con il cellulare ancora incollato all’orecchio. Le ci volle un po’ prima di abbassarlo e rimetterlo nella tasca dello zaino.
Fantastico. Non una, ma due persone era riuscita a ferire nell’arco di pochi secondi. Doveva ammetterlo, stava diventando una maestra.
Si girò con lentezza verso Nia, e sobbalzò nel vedere che non aveva abbandonato il suo sguardo carico di ferocia.
“Mi dispiace”.
“No, non è vero”.
“Si. Si, dico sul serio”.
“No. Perché se lo fosse, avresti avuto la decenza di pensare prima di parlare” alzò la voce l’altra. “Dico, credi che mi diverta? Pensi che sia stato uno sballo vedere pezzi di bottiglia volare come riso ad un matrimonio, e vedere poi te e quell’altro salame di Tom bucherellati in faccia come gruviera? Non ne abbiamo mai parlato, perché pensavo che, ormai, la cosa fosse assodata… Evidentemente mi sbagliavo”.
“Non ti sto dando la colpa!”
“Non a parole, ma lo pensi”.
“No! Io non… non…” ma non finì, girando su se stessa e mollando un calcio al palo della fermata dell’autobus, mettendosi le mani nei capelli. Ingoiò il groppo in gola e voltandosi di colpo verso Nia, disse “Mi dispiace!”
Lei la guardò, specchiandosi nei suoi grandi occhi scuri, velati di tangibile desolazione. Riusciva a palpare il conflitto e la paura che la animavano da dentro, come se fossero stati i suoi secondi vestiti. L’avrebbe abbracciata, avrebbe colmato la distanza che le separava e l’avrebbe stretta a se, se non fosse stato che, così facendo, Charlotte non avrebbe mai imparato a frenare la lingua, e che lei aveva ancora l’orgoglio ferito.
Si sentiva responsabile, era vero, lo aveva sempre pensato. Ma sentirselo dire a bruciapelo e con astio dalla migliore amica, era una cosa che non si era aspettata.
“Mi dispiace…” ripeté la mora con gli occhi lucidi.
Nia corrugò la fronte e scacciò una ciocca di capelli dalla fronte. “E vabene” sbuffò, “Vabene”.
“Non penso che sia colpa tua, non l’ho mai pensato. E so che è solo une festa” disse sventolando una mano, “Ma per me… per me è tutto dannatamente uguale”.
“Beh, non lo è. Niente è mai uguale”.
“Per me lo è”.
“Dovrai abituarti all’idea che non lo è, tesorino” pestò un piede Nia. “E ora, ascolta per bene: io voglio andare a quella maledetta festa, e tu vieni. Voglio ballare, voglio bere e voglio vedere il luccichio degli occhi dei maschi sopra il mio vestito. Voglio godermela, chiaro? E tu sarai esattamente dove sarò io, non resti a casa”.
“Ma…”
“Non ho intenzione di ripeterlo!” strillò, attirando l’attenzione dei passanti. Le si avvicinò di qualche passò e le puntò un dito sul naso. “Osa solo opporti, e giuro che ti ci porto in biancheria intima. E non è detto che sia la tua, casta e da bambina innocente”.
Charlotte strabuzzò gli occhi. No, non stava scherzando. Nia non scherzava mai.
E così, reprimendo un gemito di sconfitta, annuì all’amica e si preparò mentalmente all’imminente festa del giorno dopo.









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Spazio sproloqui:

Oddio la minaccia di Nia alla fine O.°
Giuro che me la sono immaginata a maxi schermo e ho allontanato il computer da me con aria terrificata! *e la cosa… è grave*
Ma bando alle ciance.......
È un capitolo che segna un po’ l’inizio dell’avventura vera e propria, ho gettato le basi, e improntato un po’ i personaggi su strade diverse, vediamo che ne viene fuori! xD
L’idea della festa la stavo macchinando da un pezzo, e ho almeno un paio di personcine da piazzarci, tra cui una che… resterà con noi un pochino, immagino *-*

Passando ai ringraziamenti:
_Miss_ : oddio no! come sta l’occhio??!! O__O Le zanzare sono delle creature inutili e barbare, sanguisughe zannute e assassineee!! Te lo dicono la mia coscia e il mio polpaccio che sono crivellati di bozzi bordeaux ç_ç … Parlando seriamente: uhmmm… no. Non poteva dirle “ti amo” anche se sarebbe stato maledettamente romantico. Dirlo avrebbe comportato uno sconvolgimento trooooppo grande per lei e per lui, e mi andava troppo avanti con la storia, ma non vuol dire che non glielo dica eh! ;) Sono io a ringraziare te, per il sostegno costante che mi dai! Sei sempre gentilissima, e spero che anche questo chap ti sia piaciuto… è abbastanza Rob-riflessivo, spero non annoi! baci :3
Ello: Oh, ciao! xD Woh, ti ringrazio, mi fai troppo felice, credimi! *va in brodo di giuggiole* Cerco di dare a ciascuno il proprio spazio, di renderli il più umani possibile, anche se porta ad odiarli, o a delle contraddizioni… noi ci contraddiciamo spesso xD Sono contenta che il capitolo passato ti sia piaciuto e spero che anche questo faccia centro! Un bacione :)

Grazie anche a tutti quelli che leggono e a chi l’ha aggiunta ai preferiti!
Un bacione, dolce notte a tutti e alla prossima,


beth

  
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