Anime & Manga > Il mistero della pietra azzurra
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Autore: Puglio    07/09/2010    3 recensioni
Secondo volume della saga "I Signori dell'Universo" seguito della serie "Nadia: il mistero della pietra azzurra". Nadia, Jean e gli altri sono partiti alla ricerca del significato della pietra che Kurtag ha affidato alla ragazza prima di morire. Winston è impegnato a trovare Nadia, prima che l'Ordine riesca a raggiungerla. Lisa, Michael e Hunter non riescono a rassegnarsi all'idea che la loro amica è là fuori, da sola... e intanto, i misteriosi assalitori che avevano raggiunto Nadia al porto sono ancora a piede libero...
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Lo aveva sotto di sé. Con un sorriso malizioso, si piegò su di lui, tuffando il volto nell'incavo del suo collo. Lo morse piano, succhiando avidamente la pelle. Lo sentì annaspare.

Le piaceva quella sensazione di comando. Ciò che facevano in sé non era nulla di particolare, ma doveva ammettere che dopo alcune volte aveva cominciato a provare un certo piacere. Bene. Era segno che il suo cuore si stava lentamente anestetizzando.

Sentiva le dita di lui che le scorrevano febbrili, lungo la schiena. Lo lasciò fare, offrendogli ciò che voleva. Lui inarcò la schiena e lei sorrise, passandogli le mani tra i capelli arruffati.

Cosa...

Qualcosa non andava. Conosceva quel corpo. Lo conosceva bene, dopo che l'aveva usato per sfamare quella sua assurda bramosia. Eppure, sebbene le sue mani accarezzassero nel buio ciò che avevano imparato a conoscere e desiderare, il volto che ora sentiva sotto le sue dita era differente da quello che si aspettava. Quello non era Jonathan.

«Nadia...»

Lei passò le sue dita sul volto di lui. Sentì le palpebre chiuse, gli zigomi forti e la mascella serrata in un grido di silenzioso piacere.

Non era possibile.

Lui la rigirò. Confusa, Nadia si lasciò abbattere sotto di lui. Ne sentiva il respiro affannoso sulla propria pelle, mentre le divorava il corpo di baci. Con il cuore che batteva come impazzito, Nadia cominciò ad agitarsi.

«No...»

Non era così che l'aveva immaginato. Non doveva vederla così. Era sporca. Ed era sbagliato, profondamente sbagliato.

«No, ti prego...»

«Calmati».

Lei chiuse gli occhi. Non voleva. Non così. Quello non era per lui. Quella era la parte di lei che lui non avrebbe mai dovuto vedere.

«Ti prego...»

Jean.

«Hai paura di me?»

Lei sospirò. Era qualcosa di incredibile, e tremendo al tempo stesso. Si sentì privare di ogni forza. Inarcò la schiena, schiudendo le labbra.

«O hai paura di te stessa?»

Nadia spalancò gli occhi. Nel buio, il ghigno di Gargoyle emerse, squarciando l'oscurità.

 

«No!»

La stanza era avvolta dal buio. Tutto era silenzio, rotto solo dal suo respiro pesante. Con fare stanco, Nadia si passò le mani sul volto sudato e tra i capelli, ancora incollati alla fronte. Al suo fianco, John dormiva serenamente, il petto che si alzava e abbassava con regolarità. Lei gli gettò un'occhiata da dietro la spalla. Sentiva il respiro di lui, che sorgeva per poi spegnersi nel buio, come un suono ovattato.

Chiuse gli occhi, prendendosi il volto tra le mani. Attese che il cuore rallentasse la sua corsa; e quando si fu calmata, uscì dal letto. La debole luce artificiale che illuminava il contorno della porta si riverberava sul suo corpo nudo, che scivolava nell'ombra con il candore di uno spettro. Nadia si avvicinò al comò; e con le mani che ancora le tremavano, si versò un bicchiere d'acqua.

La caraffa era pesante. O forse era lei a non avere forza. Sentì che le sarebbe caduta e la appoggiò cautamente sul comodino. Prese un respiro profondo e quindi strinse di nuovo le dita attorno al manico di vetro, sollevandola. L'acqua si riversò nel bicchiere con un gorgoglio che sembrò uscire chissà da dove. In quel buio, le cose prendevano una distanza strana, come se lo stesso spazio attorno a lei si fosse improvvisamente deformato, cancellando ogni possibile riferimento al suo interno.

Con calma, come per riprendere coscienza di ciò che la circondava, afferrò il bicchiere con due mani, portandoselo alle labbra. L'acqua era fredda, e le passò lungo la gola facendola rabbrividire.

Che cosa disgustosa.

Il volto di Gargoyle era ancora lì, davanti ai suoi occhi. Non voleva andarsene, per quanto lei si sforzasse di cancellarlo dalla sua memoria.

Ero proprio io, quella?

Sì. Inutile provare a negarlo.

Con un sospiro, appoggiò le mani sul tavolo, piegando le spalle. Non aveva la minima idea di cosa le stava accadendo. Lentamente, stava perdendo la presa su se stessa e sul mondo che la circondava. Era come se qualcosa la stesse risucchiando, qualcosa che era perfino più denso e profondo dell'oscurità presente in quella stanza. Lo sentiva dentro di sé, come un parassita che cresceva in lei a sua insaputa, deformandola in modo invisibile all'esterno, ma visibilissimo a chiunque avesse saputo osservarla con attenzione.

Che schifo.

Qualcuno bussò. Immerso nel buio, a poca distanza da lei, John emise un sospiro. Nadia si volse, abbandonando improvvisamente i suoi pensieri. Lanciò un'occhiata verso il letto, per assicurarsi che lui non si fosse svegliato, quindi si avvicinò alla porta.

«Chi è?»

La voce chiara di Faloe la raggiunse attraverso il metallo spesso.

«Maestà, volevo avvertirvi che il momento è arrivato».

«È sola?» chiese Nadia, dopo un'istante.

«Sì»

«Mi dia un momento».

Ormai gli occhi le si erano abituati al buio. Nadia percorse con sicurezza la camera, avvicinandosi al punto in cui lei e John avevano abbandonato i loro vestiti. Con disinvoltura, si chinò a raccogliere la camicia di John e se la infilò, abbottonandosela completamente. Quindi aprì la porta, sgusciando velocemente all'esterno. Quando Faloe se la vide apparire davanti così, con i capelli scarmigliati e quella sola camicia addosso, si irrigidì, guardandosi nervosamente intorno.

«Maestà!»

«Avete provveduto ad avvertire gli altri?»

La ragazza annuì. «Sì, vostra Maestà. Sono già stati radunati. Forse intendete dare loro un saluto?»

Nadia sembrò soppesare per bene quelle parole.

«No» disse, aggrondando. «Non credo di volerlo fare».

Faloe non si mostrò per nulla sorpresa. Stava lì in silenzio, impassibile, in attesa che lei le desse un ordine qualsiasi. O che semplicemente la congedasse.

«Vostra Maestà ha bisogno di qualcosa?» domandò, dopo qualche istante. Nadia la guardò confusa, come se si aspettasse di ricevere una risposta proprio da lei.

Aveva bisogno di qualcosa?

«No, la ringrazio. Può andare».

Con un inchino, Faloe si congedò, allontanandosi lungo il corridoio. Nadia rientrò in camera, abbandonandosi contro la porta chiusa e lasciandosi scivolare lentamente a terra, il volto tra le mani, gli occhi fissi nel vuoto.

Aveva appena rifiutato di incontrare per l'ultima volta i suoi amici, e non sentiva nulla. Niente. Non riusciva nemmeno a piangere.

Cosa diavolo c'era che non andava, in lei?

 

 

*

 

 

«Siamo liberi!»

Non appena ebbe messo piede fuori dalla nave insieme con gli altri, Sanson lanciò un grido di esultanza, levando le braccia al cielo. Sembrava non fosse mai stato tanto felice in tutta la sua vita.

«Non credevo proprio che sarei tornato a rivedere il sole » esclamò, mentre si sfilava in tutta fretta stivali e calzini. «Ancora un po' di tempo dentro quella maledetta carretta, e giuro che mi trasformavo in una mummia».

Si slacciò la camicia; e facendola roteare sopra la testa, si precipitò giù per la riva del lago, tuffandosi dentro l'acqua a piedi pari e schizzando ovunque intorno a sé. Marie, divertita, lo fissava mantenendosi a una certa distanza dalla riva, battendo le mani euforica.

«Vieni anche tu, forza» la incitò lui. Lei si volse a guardare Rebecca, mordendosi le labbra, il volto acceso da un'emozione a stento trattenuta.

«Vai pure, ma vedi di non allontanarti troppo» le disse lei, accompagnando le sue parole con un cenno conciliante del capo. Ma prima ancora che finisse di parlare, Sanson era già andato a prendere Marie, trascinandola in acqua senza nemmeno darle il tempo di togliersi le scarpette. Marie, l'orlo del vestito ormai completamente zuppo, lanciò qualche grido, prendendo a calciare l'acqua e a schizzare Sanson da capo a piedi.

«Sembra divertente» fece Hanson, arrotolandosi i pantaloni al ginocchio prima di gettarsi nel lago, dove con un urlo selvaggio si avventò su Sanson per poi trascinarlo con la testa sott'acqua, facendo sbellicare Marie dalle risate.

Seduta sulla riva, Rebecca osservava affascinata il loro profilo che si stagliava scuro, contro la luce declinante del sole. Una miriade di piccole gocce ricadeva intorno a loro come piccole schegge di vivissima luce, brillando sopra i raggi del sole che si allungavano vividi, oltre le cime scoscese delle montagne.

«Sono proprio dei bambini»

Con la coda dell'occhio, Rebecca seguì il movimento di Jean, che si sedette al suo fianco.

«Quei tre» riprese, scuotendo la testa e ammiccando verso di loro. «Non so chi tra di loro sia più bambino».

«Sembra che si divertano» fu il commento di lui, una volta che si fu seduto. «Meglio così, no?»

Lei piegò le gambe, raccogliendo le ginocchia al petto e appoggiandovi sopra il mento. Restò a guardare i tre che giocavano per un po', quindi «so cosa è successo, Alex mi ha raccontato tutto» disse. E si voltò, con la guancia appoggiata alle ginocchia e la bocca atteggiata in un debole sorriso. «Ti va di parlarne?»

«No» fece lui. «Non credo di averne voglia».

Rebecca restò a guardarlo senza dire nulla. Il riverbero del sole le bruciava gli occhi, costringendola a tenerli socchiusi. Un vento leggero le soffiò tra i capelli. Con una leggera scossa del capo, lei se li scostò dal viso, passandosi poi alcuni ciuffi dietro un orecchio con un movimento della mano particolarmente aggraziato.

«Non dovevi dirle di andarsene» mormorò. Il suo tono era tranquillo, come se stesse dicendo qualcosa di assolutamente naturale; eppure, tradiva una certa apprensione. Lui, però, non parve accorgersene più di tanto. Le parole di lei gli giungevano come da un luogo estremamente lontano. Ci mise un po' perfino a capire che si stava rivolgendo proprio a lui. Sospirando, Jean inarcò un sopracciglio, scrollando leggermente le spalle.

«E cosa avrei dovuto fare, secondo te?» chiese.

«Restarle vicino» rispose lei. Jean piegò le labbra in una smorfia.

«È più o meno quello che ho sempre fatto. E sai dirmi a cosa è servito?»

Rebecca si voltò a guardarlo. «A renderla viva, credo».

Jean alzò gli occhi sulla superficie del lago, le cui acque placide e scure riflettevano tutto di quel cielo che le sovrastava, reso incandescente dalla luce calda del tramonto. Con un movimento stanco, infilò la mano nella sabbia e la sollevò, aprendo lentamente il pugno. Una brezza leggera si levò a catturare i granelli che gli scivolavano via tra le dita, soffiandoli lontano. Jean restò ad osservare quel velo di sabbia che mulinava impalpabile lungo la riva, per poi spegnersi debolmente sulla superficie dell'acqua, come un debolissimo sospiro. Quando anche l'ultimo granello ebbe lasciato il suo palmo, restò a guardare la sua mano vuota, per poi spostare nuovamente gli occhi sull'orizzonte.

«È tutta la vita che lottiamo per combattere un destino che ci vuole divisi» disse. «Per quanto ci sforziamo, io e lei non riusciamo mai a trovarci nello stesso posto allo stesso momento. Sono stanco, Rebecca. Tutto questo lottare, è così estenuante. Non riesco più a vivere, e nemmeno lei, perché ormai siamo divenuti la maledizione l'uno dell'altra. Non c'è niente di bello in questo, o di piacevole. Stiamo male, e basta; e se vogliamo smettere di soffrire, non c'è che una soluzione possibile».

«Cioè, scappare?»

Lui colpì la sabbia con un pugno. «Io non sto scappando» sibilò, fissandola con astio.

«E non ti sei mai fermato a pensare che il motivo per cui non riuscite a trovarvi, non è perché il destino non vi vuole insieme, ma perché voi fate di tutto per evitarlo? Magari, siete l'uno il destino dell'altra e non, come dici tu, una maledizione. Solo che non riuscite ad accettarlo, ecco tutto».

«Magari fosse così semplice» fece lui, sorridendo. «Ma non lo è».

Rebecca tacque. Poco lontano, Marie lanciò un grido, ed entrambi si voltarono a guardare. Sanson l'aveva appena sollevata e minacciava di farla cadere in acqua a testa in giù.

«È incredibile quanto quei due si siano affezionati a Marie» commentò Jean, mentre guardava Hanson e Sanson che giocavano in acqua insieme alla bambina. «Sembra che il tempo non sia passato, per loro».

«A volte il tempo non passa davvero, e nemmeno la distanza riesce ad annullare il sentimento che lega tra loro le persone» fece Rebecca. «Succede raramente, è vero; ma a volte capita».

«A volte» ripeté lui. Rebecca sorrise.

«Vai da lei, e dille che la aiuterai» disse. Jean trasalì.

«Non posso fare una cosa del genere, Rebecca. Non adesso».

«Jean, sei proprio uno stupido» fece lei, scuotendo la testa. «Si può sapere cos'è che ti frena? Il tuo orgoglio, forse?»

«Non puoi capire» mormorò lui, abbassando gli occhi. «C'è un motivo se ho fatto quello che ho fatto...»

«E quale? Perché volevi vendicarti di lei, perché volevi vederla soffrire? Bel modo di dimostrare che la ami».

«Ma cosa ne sai tu?» esclamò lui, rabbioso. «Cosa vuoi saperne tu, che non sei mai riuscita a tenerti qualcuno accanto per più di due minuti?»

Rebecca impallidì, irrigidendosi. Mortificato, Jean si prese il volto tra le mani, chinando il capo.

«Ti prego, perdonami» sussurrò. Con un sorriso, lei scosse la testa.

«Non sono arrabbiata. E poi, non sono sola. Io ho Marie, e ho te» disse. «Non desidero nient'altro».

Jean nascose il volto tra le braccia e prese a piangere sommessamente. Lei lo lasciò fare, aspettando che si calmasse.

«Tra tutte le persone, lei è venuta a cercare te. Poteva andare da chiunque... da John, da me... ma è venuta da te. Voleva confidarti le sue paure. Possibile che tu non ti sia accorto di quanto è turbata?»

Lui taceva. Si sfregò il dorso della mano sugli occhi velati di lacrime, tirando su con il naso. Fissava in silenzio la superficie calma del lago, il volto irradiato dai raggi caldi del sole.

«Jean, questa gente non mi piace, non mi convince» riprese lei, protendendosi verso di lui. «Ho un brutto presentimento. Da quando Nadia è entrata in contatto con loro, sembra essere tornata vittima di tutte quelle paure e debolezze che pensavamo si fosse lasciata alle spalle tanto tempo fa. Sono convinta che se la lasceremo cadere in mano a questa gente, non riuscirà mai più a ritrovare se stessa. Per questo ti supplico: se davvero la ami, vai da lei e diglielo. Solo tu puoi darle ciò di cui ha davvero bisogno».

«Davvero?» commentò lui, sarcastico. Torcendo gli occhi a guardarla. «E di cosa avrebbe bisogno, secondo te?»

«Di quello di cui hanno bisogno tutti» rispose lei, con un tono triste nella voce. «Di qualcuno che ti ami e ti stia accanto, anche quando nessuno sembra disposto a farlo. Jean, ciò di cui ha bisogno Nadia, ora come ora, è di quell'unica persona che è capace di accendere la luce, quando tutto intorno a te sembra essere piombato nel buio».

«E credi davvero che sia io, quella persona?» fece lui. «Cosa ti rende tanto sicura?»

Lei sorrise, incoraggiante. Quindi si alzò, scuotendosi la sabbia dalle vesti spiegazzate.

«Non importa cosa credo io, ma cosa crede lei» disse, avvicinandosi a lui e passandogli una mano tra i capelli fulvi, in un gesto di estrema intimità e affetto. «È stata lei a sceglierti, nel momento in cui è venuta a cercarti. Se non ti basta questo, non so proprio di cosa tu abbia ancora bisogno, Jean, per capire che lei ti ama e che sta aspettando che tu vada a liberarla da se stessa».

«Ancora una volta?» fece lui, freddo. «Per quanto ancora dovrò mettere da parte le mie esigenze per aiutarla?»

«Tutte le volte che sarà necessario» rispose Rebecca, impassibile. «Una volta hai accettato di farti carico dei suoi problemi, e l'hai spinta ad avere fiducia in te. Ora non puoi semplicemente far finta di nulla, e lasciarla a se stessa. Sarebbe crudele».

«Io non posso farlo» obiettò lui, deciso. «Mi dispiace, ma è evidente che non sono io, il suo principe azzurro».

A quelle parole, Rebecca annuì, drizzando il busto.

«Come vuoi, la scelta è tua» disse, semplicemente. Quindi si chinò a baciarlo sulla guancia, tenendo le labbra premute contro il suo viso a lungo, prima di allontanarsi lasciandogli un'ultima carezza.

 

 

*

 

 

«Vedete di muovervi, dobbiamo finire di caricare tutto prima di sera».

Lucano osservava con apprensione le operazioni di imbarco. I vettori erano già stati fatti sbarcare e i soldati stavano ultimandone il carico. Tutto l'indispensabile – vettovaglie, armi, materiale medico – era stato trasportato a bordo dei tre velivoli, parcheggiati in fila davanti alla nave. I soldati continuavano ad andare e venire dallo scafo principale in una lunga catena ininterrotta, portando casse e spingendo pesanti container di metallo, che poi caricavano sui tre mezzi più piccoli, simili a grossi baccelli.

«Capitano, come procedono le operazioni?»

Lucano si volse. Il comandante Atys Gorall si stava facendo largo fino a lui, le mani raccolte dietro la schiena, e sul volto uno sorriso a dir poco smagliante.

«Signore, tutto procede secondo i piani» affermò Lucano, portandosi una mano alla fronte in segno di saluto. «Se non si verificheranno intoppi, prima che faccia buio avremo ultimato il carico. Saremo pronti per domattina».

«Eccellente».

Atys alzò gli occhi sullo scafo della immensa nave, che giaceva sul terreno brullo dell'isola come una grande balenottera in agonia. Con un sospiro, gonfiò il petto, abbassando lo sguardo.

«Mi duole abbandonare questa nave» mormorò. «Ha servito bene l'Armata del Senato, in tutti questi anni».

«La Meseketh è una nave eccezionale» convenne Lucano, con un cenno del capo. «Ma è una perdita che consente un grande guadagno».

Atys annuì. «A proposito, la nostra Regina ha già lasciato il suo alloggio?»

«No, signore. Sembra che non desideri essere disturbata. Così ha riferito il tenente Anuri».

«Bene».

Lucano lanciò un'occhiata alle sue spalle. Oltre il muro di soldati, poteva vedere il gruppetto raccolto degli amici di Nadia, che si intratteneva sulla spiaggia. Il suo sguardo si accigliò.

«Signore, come dobbiamo comportarci con il resto di quel gruppo?»

Atys si volse, inarcando un sopracciglio. Indirizzò loro un'occhiata superficiale, quindi sporse le labbra.

«Lasciateli qui».

«Qui?» Lucano si grattò la testa, confuso. «Signore, ma è impossibile che riescano a sopravvivere. Se riusciremo ad attivare il Noè, al momento in cui si aprirà la merkaba tutto ciò che ci circonda verrà distrutto».

«Proprio per questo, un luogo vale l'altro».

Lucano si ammutolì.

«Capisco...»

«Come le avevo detto, io manterrò la mia promessa. Lascerò andare sani e salvi quegli uomini. Che poi riescano o meno a sopravvivere, questo è un problema che non mi riguarda».

«Molto bene, signore».

Atys sbadigliò. Quindi estrasse un orologio dalla tasca della giacca e lanciò uno sguardo assonnato al quadrante.

«È arrivato il momento che raduni le mie cose» fece, riponendo l'orologio. «Per qualsiasi evenienza, mi troverete nel mio alloggio».

«Sissignore» rispose Lucano, scattando sull'attenti. Atys si allontanò di qualche passo, quindi si voltò. Si morse le labbra, come a trattenere un pensiero sorto all'improvviso.

«Capitano, non faccia parola di quello che le ho detto con Faloe» disse. «Non vorrei diventasse un problema per lei... visto l'effetto che quella bambina ha avuto sul suo equilibrio».

Lucano impallidì. «Naturalmente signore» fece. Atys sorrise.

«Molto bene» disse. «Quando ha finito, chiami Faloe e raggiungetemi nelle mie stanze. Brinderemo come si deve, dando l'ultimo saluto alla nostra gloriosa nave». Quindi si allontanò, sparendo tra la folla. Lucano, che aveva trattenuto il respiro fino ad allora, lentamente si rilassò.

Dannazione.

Si guardò intorno, nella speranza di scorgere Faloe. Era da troppo tempo che non la vedeva, e la cosa non gli piaceva per nulla. Ci mancava solo che avesse deciso di mettere in atto il suo piano assurdo proprio in un momento come quello.

«Per l'amor degli dei, non fare idiozie» mormorò Lucano tra sé, a denti stretti. Quindi, rassegnato, abbassò gli occhi sulla tavoletta luminosa che aveva tra le mani, in cui scorrevano senza sosta gli ultimi dati relativi alle operazioni di imbarco.

«Vedete di muovervi voi, laggiù» gridò rabbioso ad alcuni uomini, addetti ai serbatoi «Non abbiamo tutto il tempo del mondo».

Gli occhi gli caddero su un gruppetto di soldati che stava facendo una pausa, nascosti dietro a una pila di container poco lontano da lui. Li squadrò, lanciando loro uno sguardo di ghiaccio. Quelli, non appena se lo videro comparire davanti, si raggelarono.

«E voi, che diavolo state facendo?»

I soldati gettarono a terra le sigarette e si dileguarono rapidamente, senza fiatare. Lucano li seguì con lo sguardo, finché non li vide riprendere il loro lavoro.

«Stupide teste di cazzo» sibilò. «Come se non avessi già abbastanza problemi».

 

 

*

 

 

Appena scese la sera, la spiaggia si accese della luce di numerosi fuochi. Finiti i preparativi di imbarco, i soldati poterono godere di un po' di libertà: ci fu chi preparò da mangiare, arrostendo qualcosa sul fuoco; chi parlava, magari un po' sguaiatamente perché leggermente brillo. Alcuni cantavano, altri semplicemente ascoltavano, o partecipavano al coro con un lieve tremito delle labbra, persi nei propri pensieri.

Alex se ne stava da sola sulla riva del lago. Il suono dei festeggiamenti le giungeva lontano, increspando la superficie immobile dei suoi pensieri come una piccola pietra gettata in un lago. Nulla di quello che la circondava sembrava toccarla, anche se non avrebbe saputo dire con esattezza a cosa pensava. Se ne stava lì, semplicemente, lasciando che la propria immaginazione le fornisse qualcosa a cui aggrapparsi, per sfuggire a quella sua torbida malinconia.

Nemmeno si accorse di Jean, che alzandosi e allontanandosi dagli altri, si andò a sedere al suo fianco. Lui restò a guardarla a lungo in silenzio, seguendo con gli occhi i folti capelli castani che le ricadevano mossi e ancora umidi sulle spalle, perché quel pomeriggio si era messa a giocare con Marie, bagnandosi tutta. Vedendola rabbrividire, si schiarì la voce, rompendo il silenzio che li avvolgeva entrambi.

«Non hai freddo?»

Lei sbarrò leggermente gli occhi, voltandosi a guardarlo. Dopo qualche istante, abbassò lo sguardo, con un sorriso appena accennato.

«No. Forse solo un po'».

«Perché non vieni accanto al fuoco?»

Lei scosse la testa. «Non mi va. Preferisco restare un po' da sola».

«È colpa mia, vero?»

Alex sussultò. Lo guardò per qualche istante, come a riflettere su ciò che lui aveva appena detto.

«Credo di sì» confessò, in un sussurro.

«Beh, è giusto» fece lui, comunque sorpreso. «Per quanto possa valere, mi dispiace».

«Mmm...»

Jean tracciò qualche linea nella sabbia con un legnetto che trovò lì accanto. Alzò gli occhi. Il cielo era ricoperto di stelle, uno spettacolo veramente magnifico.

«Quando ero piccolo, spesso nelle sere d'estate andavo da solo alla vecchia casa dei miei» cominciò a raccontare. «Mi sdraiavo sulla veranda, e restavo lì, a guardare il cielo, avvolto nel più completo silenzio».

A quelle parole, Alex non reagì, continuando a rimanere assolutamente immobile. Così com'era adesso, pallida e dimessa, acquisiva una bellezza ancora più trasfigurata, che la faceva sembrare una specie di spirito, una immagine fantastica condensatasi magicamente sulla riva del lago, attraverso l'intreccio fitto dei raggi di luna.

«Non so perché, ma tutte le volte che in quei momenti alzavo gli occhi a guardare le stelle, cominciavo a sentirmi sempre più piccolo» continuò Jean «finché non mi sembrava di vagare in quello spazio immenso, niente più che un punto minuscolo. E allora, parlavo».

Alex si volse a guardarlo, riacquistando improvvisamente consistenza agli occhi di lui.

«Parlavi?» fece. «Da solo?»

Lui rise. «Sì. Mi mettevo a parlare dei miei sogni, e dei miei desideri. Parlavo a quel cielo, sentendo che nella sua vastità avrebbe saputo accogliere anche quel poco di mio che volevo disperatamente affidare a qualcuno. Non so perché facessi una cosa del genere. Ma in quei momenti, sentivo che dovevo ascoltare che rumore facevano i miei pensieri; mormorarli, e lasciare che prendessero corpo, davanti a me. Era una bella sensazione. Ho sempre amato quei momenti ma poi, una volta cresciuto, non sono più tornati».

Alex si volse. Jean spostò gli occhi sul suo profilo muto, quindi sospirò, distogliendo lo sguardo.

«Non volevo farti soffrire» disse. «Tu sei una ragazza fantastica. Sono io il problema. Credevo di poter gestire la situazione, ma non è andata così».

Alex taceva, continuando a fissare lontano. Un punto in cui la notte si congiungeva alla superficie scura del lago, quasi fossero una cosa sola, e che solo lei sembrava in grado di scorgere.

«Quando ero disperso, ho incontrato un vecchio. Un tipo strano» continuò Jean. «Con lui mi sono recato in un posto incredibile, dove ho visto qualcosa... qualcosa che non saprei spiegarti. Era come se all'improvviso mi fossi trovato in un mondo diverso da questo; eppure sentivo che non stavo sognando. Io ero vivo, e tutto quello che mi circondava era assolutamente vero. Lì, ho visto qualcosa che poteva sembrare il mio futuro, non saprei. Tutto quello che posso dirti, è che ho visto chiaramente che se io e Nadia fossimo restati vicini, sarebbe stata la fine, di uno o dell'altra. Ecco perché le ho chiesto di andarsene. Non perché volessi scappare da lei, ma perché non volevo essere io la causa della sua morte».

Jean sospirò, lanciando il legnetto nell'acqua. Era talmente leggero che non si udì alcun rumore.

«Perché ho l'impressione che tu non l'abbia raccontato a nessuno?» fece Alex all'improvviso, quasi mormorando. Jean scrollò le spalle.

«Perché è così».

«Ma l'hai detto a me».

Lui sorrise. «Sì».

Alex sospirò. «Sai, credevo che fossi uno stupido, invece sei proprio uno scemo totale» fece. Sorrise. Jean ricambiò quel sorriso con calore.

«Un tempo mi sarebbe piaciuto creare qualcosa con te» fece «ma non credo che mi sia possibile. Non adesso, almeno. Ti confesso che quando ho detto a Nadia che avrebbe fatto meglio a partire, ho provato un senso di sollievo. Per quanto fosse doloroso per me, per quanto il rapporto che mi lega a Nadia sia particolare e indissolubile, in quel momento mi sono sentito per la prima volta libero. Pensavo che finalmente avrei potuto lasciarmi tutto alle spalle, e che lei avrebbe potuto fare altrettanto. Se lei se ne fosse andata, non avremmo dovuto mai più lottare, non ci sarebbe stato nessun destino pronto a farci sprofondare nella disperazione. E io forse sarei stato libero di vivere una nuova vita, magari con te. Mi rendo conto solo ora di quanto mi sbagliassi. Io non posso smettere di amarla, e non posso usarti come se tu fossi un pezzo di ricambio. Da quando ti conosco, mi hai sempre aiutato a superare la mia solitudine. Ti ho chiesto tanto, senza darti nulla in cambio. Ti chiedo scusa. Avrei voluto essere diverso, ma non ci sono riuscito».

«Io sono una donna, Jean» fece lei, scuotendo la testa. «Quando tu mi guardi, e nemmeno mi vedi, non riesci a immaginare quanto possa soffrire?»

«Io ti vedo, Alex».

«Non dire balle!»

«Ma è così» fece lui, protendendosi verso di lei. Alex chiuse gli occhi, e raccolse le gambe, affossando il viso tra le ginocchia. «Tu puoi non credermi, ma sei importante per me. Ma adesso, sono legato. Non posso smettere di amare Nadia solo perché lo desidero. Perciò, l'unica cosa che posso dire, è che una volta tornati a casa sparirò dalla tua vita, lasciandoti finalmente libera».

Lei scoppiò in singhiozzi.

«Avevo pensato che una volta tornati saremmo potuti stare insieme, che magari avremmo trovato il modo di crearci il nostro futuro» fece lui. «Ma non è possibile. Per quanto mi sforzi, io mi sento responsabile verso Nadia, e sento che non potrò mai lasciarmi alle spalle il sentimento che provo per lei, almeno per ora. Non posso chiederti più di quello che mi hai già concesso: anche se sento che perderti sarebbe terribile, non posso pretendere altro da te».

Jean tese una mano verso di lei. Fece per posarla sulla sua spalla, scossa dai fremiti del pianto, ma all'ultimo si fermò. Non ce la faceva. Non ne aveva il diritto. Ormai tra loro sorgeva una distanza incolmabile. Forse la cosa migliore era proprio lasciarla stare là dove si trovava, senza tentare di raggiungerla mai più.

Si alzò, in silenzio, facendo per andarsene. Ma dopo pochi passi, Alex sollevò il volto a guardarlo.

Mosse le labbra due, tre volte, come per dire qualcosa, parole a cui lei però non riusciva a far prendere corpo, perché erano come imprigionate da una patina spessa che le agglutinava la lingua. Alla fine, con uno sforzo che la prosciugò interamente, si slanciò verso di lui, vincendo quella sua apatia incrollabile.

«Due rette parallele non giungeranno mai ad incontrarsi» esclamò. Jean si bloccò, voltandosi a guardarla. Lei lo fissava tra le lacrime, in ginocchio, le mani affondate nella sabbia.

«Cosa?»

«È la prima cosa che ti ho detto, quando ci siamo conosciuti» fece lei, tirando su con il naso. «Discutevamo in classe del quinto postulato di Euclide, quello sulle rette parallele. Data una retta, e un punto fuori di essa...»

«... esiste una sola retta parallela alla retta data e passante per quel punto» continuò Jean. «Ma cosa c'entra...»

Io dicevo che non era possibile confutarlo, al che tu disegnasti due rette alla lavagna».

«Ricordo...»

«Ci chiedesti: queste rette, vi sembrano parallele? Era ovvio che lo fossero, e tutti rispondemmo di sì. Al che, tu ci dicesti ''e se questa retta non fosse quello che sembra?'' e disegnasti una semicirconferenza, dicendo che una delle due rette non era altro che quella semicirconferenza vista dall'alto».

Jean rise, spianando la sabbia con la punta della scarpa. «È vero».

«''Quindi'' continuasti, ''da questo punto, passa più di una retta parallela alla retta data. Una di queste, è anche una linea curva''».

«Al che tu dicesti che una retta non può essere curva»

«E tu rispondesti che se lo spazio in quel punto avesse subito una modificazione, incurvandosi, una persona che vi si fosse trovata nel mezzo avrebbe pensato che la linea curva, in realtà, era assolutamente retta. Di conseguenza, siccome il postulato non era più valido, diventava possibile supporre che in uno spazio differente da quello a cui siamo abituati, le due rette parallele avrebbero anche potuto incontrarsi. E non dimenticherò mai cosa aggiungesti poi: ''se ciò che avete davanti agli occhi non può essere modificato, allora modificate ciò che ancora non riuscite a vedere''».

Jean sorrise, scuotendo la testa. «Perché hai tirato fuori questa storia?»

«Perché quel giorno mi sono innamorata di te».

«Alex...»

«Jean, io e te siamo come due rette parallele. Sembra che non ce la facciamo ad incontrarci. Ma io non ci sto. Se non posso modificare quello che sei, o quello che sono, allora voglio modificare lo spazio intorno a noi. Lo modificherò finché non riuscirò ad incontrarti da qualche parte, dovesse volerci l'eternità».

Jean sussultò.

«Ti chiedo solo, sinceramente: vorresti darmi una mano?»

Lui la fissò, come intontito. Non riusciva a staccare gli occhi da quel suo volto sereno e determinato e da quei suoi occhi vividi e sinceri, ancora accesi dalle lacrime che splendevano nel buio, imperlandole le ciglia. Sapeva di non meritarla, ma non poteva smettere di provare quella sensazione. Una sensazione di gioia indescrivibile, come la una nuova, dolcissima speranza che anche per lui, da qualche parte, esistesse una qualche felicità da raggiungere.

«Sì» mormorò, emozionato. «Mi piacerebbe provarci».

«E allora non stare lì, come uno stupido. Vieni qui, e abbracciami stretta» fece lei, ridendo tra le lacrime. «Sto morendo di freddo».

 

 

*

 

 

«Signori, leviamo in alto i calici. Oggi diamo l'addio a un mondo che non esiste più».

Atys sollevò la mano in cui teneva il bicchiere, quindi lo portò alle labbra, vuotandolo in un sorso.

Faloe e Lucano si lanciarono una rapida occhiata, prima di fare altrettanto.

«Ancora non mi sembra vero, poter finalmente fare ritorno a casa» mormorò Atys, rigirandosi il bicchiere tra le dita, pensoso. «Lei, Lucano» disse, alzando gli occhi su di lui, allegro «cosa farà una volta rientrato?»

Lucano avvampò, irrigidendosi. «Veramente, signore, non ci ho ancora pensato...»

«E lei Faloe? Ma no, sappiamo già che lei tornerà subito in servizio...»

«Come dice lei, signore» fece Faloe con un sorriso impassibile.

«Suvvia, almeno qualche giorno vorrà pure concederselo, no?» commentò Atys, allargando le braccia ed esplodendo in una risata. «Stiamo per vincere la guerra! Al diavolo tutto il resto!»

In quel momento, la porta della stanza si aprì e Nadia fece il suo ingresso, seguita da Jonathan. Non appena la videro entrare, Lucano e Faloe si fecero da parte, inchinandosi rispettosamente. Atys le si mosse incontro, chinando la testa e sorridendole calorosamente.

«Maestà, sono contento che abbiate voluto unirvi a noi».

«Non sono qui per festeggiare» fece Nadia. «Volevo solamente sapere a che punto siamo con i preparativi. Ho fretta di lasciare questo posto».

Atys annuì. «Comprendo benissimo, vostra maestà. I preparativi sono ultimati. Alle prime ore dell'alba, procederemo con le operazioni, se siete d'accordo».

Nadia annuì, senza rispondere.

«Gradite del vino?»

«No, la ringrazio io...»

«Suvvia, Nadia. Non facciamoci pregare» disse John, accettando il bicchiere che Atys gli porgeva. Anche Nadia si ritrovò a stringerne uno, suo malgrado.

«Alla nostra Regina» fece Atys.

«Alla Regina» esclamarono gli altri in coro. Nadia impallidì. Mentre gli altri bevevano, lei posò il bicchiere sul primo mobile che trovò, pulendosi la mano contro la stoffa dei calzoni.

«Vorrei riposare» fece schiarendosi la gola. «Sono piuttosto stanca».

John le lanciò un'occhiata in tralice, mentre finiva di sorbire il suo vino. Faloe si fece avanti, inchinandosi al suo cospetto.

«Maestà, lasciate che vi conduca al vostro nuovo alloggio, sul vettore principale».

Nadia accennò a un timido grazie; quindi seguì Faloe fuori dalla porta. Vedendo che John non si muoveva, si volse a guardarlo.

«Vai avanti» le disse lui. «Io resto qui a parlare per un po' con il comandante».

Nadia lo fissò per qualche istante, quindi abbassò lo sguardo abbattuta e uscì. Lucano salutò i presenti e si accomiatò, accompagnando Nadia e Faloe fuori dalla stanza. Non appena furono soli, Atys sorrise sottilmente a John.

«Vedo che il suo rapporto con la nostra Regina si è rafforzato considerevolmente» esordì. Si avvicinò alla bottiglia di vino, versandosene ancora. Quindi si volse verso John, inarcando un sopracciglio. Lui gli porse il bicchiere, che Atys riempì.

«Se devo essere sincero, pensavo che con la comparsa di quell'uomo, quel Jean, tutto si sarebbe complicato tra voi».

«Evidentemente non è andata così» commentò John, portandosi il bicchiere alle labbra. «Credo che debba ringraziare lui, per questo».

Atys annuì. «Il nostro accordo, allora, è sempre valido?»

John posò il bicchiere, facendo schioccare le labbra.

«Voi avete bisogno che qualcuno convinca Nadia ad attivare l'Enneade. Le persone per cui lavoro io vogliono la medesima cosa. Tutti siamo sulla stessa barca, ma con lo stesso risultato potremo ottenere benefici diversi, senza il rischio di pestarci i piedi l'un l'altro».

«Ancora non capisco perché volete così tanto che l'Enneade venga attivata» mormorò Atys. «Cosa può venirvi in tasca, in fondo? Non dimenticate che si trova ad anni luce di distanza».

«Ciò che può venircene in tasca, non è affare che vi riguardi» fece John, perentorio. «Vi basti sapere che nessuno ha interesse a mettere il naso nelle vostre faccende. Ciò che interessa noi, è qualcosa di completamente diverso».

«Diverso...»

Atys aggrondò. Non capiva. Cosa poteva mai esserci di tanto importante nel fatto che su Atlantide si ripristinasse l'antico potere delle Pietre Sacre?

«Comprendo la sua perplessità, Comandante. Ma non sono autorizzato a dire di più».

«Potrei anche costringerla» fece Atys, stringendo gli occhi. «O potrei cancellare il nostro patto».

«Lei dimentica che Nadia, in questo momento, farà solo ciò che io le consiglierò di fare» fece John, infilandosi le mani in tasca con un ghigno. «Se le chiedessi di non fare nulla, lei non potrebbe mai riuscire a convincerla. Morirebbe, piuttosto che fare qualcosa sotto sforzo».

«Sembra che lei la conosca molto bene».

«Meglio di quanto crede».

Atys annuì, gravemente. Si spostò dietro la scrivania, dove si sedette poggiando i gomiti sul tavolo, sorreggendosi il mento con le mani.

«Quindi, sembra che non abbiamo scelta» disse, alzando gli occhi su John. «Dobbiamo fare come dice lei».

«Proprio così» fece John, con un sorriso. «Non avete scelta».

 

 

*

 

 

Nadia congedò Faloe e Lucano, quindi si chiuse la porta alle spalle, sparendo in silenzio nella sua stanza. Faloe passò le consegne alla guardia di scorta, quindi si allontanò, subito seguita da Lucano.

«Credevo che avessi deciso di fare tutto senza avvertirmi» le sussurrò, chinandosi su di lei. Faloe lo scostò, guardandosi intorno.

«Non qui».

Lui la seguì all'esterno del vettore. Fuori era già buio, e i soldati stavano cominciando ad allestire il campo sulla riva del lago. I primi fuochi erano già accesi.

Faloe fece cenno a Lucano di seguirla, e lui le tenne dietro mentre si districava tra una folla di reclute indaffarate e di sottufficiali in vena di un po' di baldoria. Ovunque passassero, si creava subito il vuoto intorno a loro.

«Dove stiamo andando?» mormorò Lucano. Faloe non rispose. Continuò per la sua strada, finché non raggiunse la stiva della Nave. Salì sulla pedana e percorse tutta la piattaforma di scarico, dove gli operai stavano finendo di raccogliere gli ultimi strumenti. Arrivata sul fondo, Faloe aprì una porta e vi si infilò dietro, tenendola aperta a Lucano.

«Allora?» fece lui. Lei richiuse la porta. Quindi si volse a guardarlo.

«Lo faremo ora».

Lucano aggrondò. «Non credo» disse «a meno che tu non voglia farti scoprire. C'è troppa gente, in giro».

«Ormai è buio» disse lei. «E il comandante ha dato ordine che quegli uomini vengano lasciati sull'isola. È perfetto. Li porteremo nella nave e li rinchiuderemo da qualche parte nella stiva. Nessuno verrà mai a controllare».

«E con la Regina, come la metti?» contestò Lucano. «Se le saltasse il ticchio di volerli salutare?»

«Non lo farà».

«Come lo sai?»

«Lo so, e basta» rispose lei, fissandolo impassibile. Lucano strinse le labbra.

«Dannazione, credo proprio che ci farai ammazzare».

Lei sorrise, e il suo volto si addolcì.

«Io sono pronta anche a morire, per lei» fece. «Ma non voglio chiederti tanto. Se vuoi, puoi tirarti indietro. Non te ne vorrò, per questo».

Lui sembrò riflettere un istante sulle sue parole. Ma alla fine scosse il capo.

«No, ho promesso che ti aiuterò e lo farò» disse. «Sono con te, in questa cosa».

Gli occhi di Faloe si allargarono impercettibilmente, e il suo viso si piegò in un'espressione di stupefatta curiosità.

«Perché?» disse. «Perché vuoi aiutarmi, anche se sai che potrebbe mettersi male?»

«Perché non è vero che tu non puoi contare su nessuno» fece lui, deciso. «Voglio che tu sappia che puoi sempre contare su di me».

Faloe si irrigidì, impallidendo. «Sbagli, se lo fai per motivi così futili» esclamò, con distacco. Lucano distolse lo sguardo.

«Futili o non futili, perché lo faccio non ti deve interessare» mormorò. Faloe lo fissò a lungo senza parlare. Sembrava piuttosto perplessa, ma anche leggermente annoiata dalla situazione.

«Avrai comunque la mia gratitudine» disse. Lui annuì, drizzando il busto ma senza mai osare guardarla.

«Ora andiamo» fece lei. «È arrivato il momento».

 

 

*

 

 

Alex e Jean avevano appena raggiunto gli altri, quando Faloe e Lucano si avvicinarono. Tutti alzarono gli occhi sui due, che li fissavano con sguardo freddo e distaccato.

«Umeis» esordì Faloe, con un cenno brusco «He dunastés zélei orònta».

«Ha detto che la Regina vuole vederci, credo» fece Marie. Lo sguardo di tutti si calamitò sulla bambina.

«Pèizestze» aggiunse Faloe, perentoria. A quel punto, Marie si alzò in piedi.

«È meglio se facciamo come dice» disse, scrollando le spalle. Lanciandosi alcune occhiate perplesse, gli altri fecero come veniva loro ordinato.

«Non si è fatta vedere in tutto il giorno, e adesso ci convoca al suo cospetto» fece Sanson, acido. «Proprio come una regina, non c'è che dire».

Rebecca non commentava. Si limitava a fissare il volto di Faloe, senza farsi sorprendere a guardarla.

Qualcosa non mi convince, pensava.

«Forse Nadia è stanca. Magari non si sente molto bene e ci vuole lì con lei» suggerì Marie. Jean preferì tacere. A parte Rebecca ed Alex, non aveva confidato a nessuno che Nadia, probabilmente, non sarebbe mai andata via con loro.

Faloe e Lucano condussero il gruppo lungo i corridoi deserti della nave. Tutto, intorno a loro, aveva un aspetto quanto mai desolante: ogni cosa utile era stata portata via, a volte persino svitando le pareti di metallo. Le stanze apparivano vuote e spoglie, ingombre di oggetti abbandonati alla bell'e meglio sul pavimento, tra casse rotte e accatastate e oggetti di poco valore gettati in un angolo. Nelle stanze e sui ponti, non si vedeva nessuno.

«Ma siamo sicuri che sia qui?» azzardò Hanson. «Gli alloggi erano molto più in alto, da quanto ricordo».

«Sigéi!» ringhiò Faloe. Hanson si ricevette una botta alla schiena da Lucano, che chiudeva la fila alle sue spalle. Confuso, si massaggiò la nuca.

«Sto solo dicendo che stiamo scendendo troppo, ecco tutto» bofonchiò.

Dopo aver girato in lungo e in largo tra gli spazi ormai vuoti della nave, Faloe imboccò un lungo corridoio, fermandosi davanti all'unica porta che vi si apriva sul fondo. Si volse, e con un cenno, ordinò a Lucano di aprire. Quello si fece avanti e dopo aver digitato un codice su un pannello numerico, si fece da parte, indicando l'ingresso con un movimento deciso del capo.

«Vuole che entriamo» fece Marie. Con un sorriso, la bambina si precipitò dentro la stanza, prima che qualcuno potesse fermarla.

«No, Marie!»

Rebecca le corse dietro e anche gli altri, a turno, si infilarono oltre la porta. La stanza era vuota.

«Ehi, ma qui non c'è nessuno» si lamentò Sanson. «Si può sapere...»

Senza alcun preavviso, Lucano sbatté in faccia a Sanson l'impugnatura della sua lancia. Sanson vacillò, portandosi le mani alle labbra.

«Maledetto...» ruggì, con il sangue che gli colava vivido tra le dita. La testa prese a girargli; e per quanto cercasse di restare lucido, non ce la fece a stare in piedi e dovette appoggiarsi al muro. Hanson e Jean corsero subito al suo fianco, a sorreggerlo.

«Pròs ton téikon» esclamò Faloe, estraendo una specie di pistola dalla fondina che portava alla vita. Tutti la fissarono scandalizzati. Hanson aggrondò.

«Ma cosa...»

«Pròs ton téikon!» gridò di nuovo la donna, con gli occhi iniettati di sangue. Non ci fu bisogno di spiegazioni. Quello che voleva era molto chiaro. Uno per uno, si misero tutti in fila contro il muro, con le mani alzate.

Con un movimento brusco, Faloe strappò Marie dalle braccia di Rebecca, serrandola contro di sé e trascinandola verso la porta.

«No!»

Rebecca si slanciò su di lei, ma invano: Lucano intervenne subito a bloccarla, immobilizzandola a terra.

«Lasciatela andare, bastardi!» gridò Jean. Fece per alzarsi in piedi, ma Lucano lo spinse immediatamente contro il muro, mandandolo a finire lungo disteso al fianco di Sanson. Faloe agitò la sua arma, puntandola dritta in faccia a Jean.

«Mè tolméis dràin ti etì» sibilò, squadrandolo in volto. Jean torse gli occhi a guardarla, lanciandole uno sguardo di fuoco.

«Jean! Zia!» gridava Marie, tra le lacrime. Come una furia, Rebecca si dimenava tendendo le mani, nel disperato tentativo di raggiungerla. Ma Lucano la immobilizzava al suolo, impedendole di muoversi. Le torse un braccio, strappandole un grido; Rebecca strinse i denti, soffocando il dolore mentre si protendeva verso Marie con tutta se stessa, sorda a tutto ciò che non fosse la sua voce angosciata.

«Ti prego, non portarmela via!» gridò. Ma Faloe la fissava come fosse posseduta, il volto pallido più del solito, gli occhi spenti e vitrei, animati da un'energia nascosta e sconvolgente.

«Pros ton teikon! Òloi!» strillò. Nessuno osò fiatare. Solo Rebecca, in lacrime, continuava a dimenarsi, chiamando disperatamente Marie. Alla fine, Lucano la sollevò di peso, sbattendola malamente contro il muro. Rebecca lanciò un grido, accasciandosi al suolo tra i singhiozzi.

«È solo una bambina, animali!» scattò Hanson, livido. Ma tutto ciò che ottenne, fu un colpo dell'impugnatura della lancia di Lucano, dritto allo stomaco. Piegandosi su se stesso, Hanson si accasciò al suolo, pallido e senza fiato.

Faloe e Lucano indietreggiarono, portandosi con le spalle alla porta, senza mai abbassare le armi.

«Kalòs òdos eis Àdou» sibilò Lucano, in un ghigno: al che, la porta si richiuse con un soffio e improvvisamente la luce nella stanza si spense, lasciando Jean e gli altri soli e completamente al buio.

 

«Lasciatemi!» gridava Marie, mentre Faloe la trascinava a forza lungo il corridoio. Appena furono abbastanza lontani, con un movimento rapido e deciso Faloe estrasse la pistola a tranquillanti e la puntò al collo della bambina. Senza pensarci, premette il grilletto: gli occhi di Marie si dilatarono, e il suo corpo si irrigidì, prima di rilassarsi completamente tra le braccia della donna. Una volta che la bambina ebbe perso conoscenza, Faloe gettò via la pistola e la strinse a sé, posandole un bacio sulla testa e cullandola dolcemente.

«Nessuno ci separerà mai più, piccola mia» mormorò commossa, sotto lo sguardo perplesso e preoccupato di Lucano. «Te lo giuro. D'ora in avanti, staremo sempre insieme».

  
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