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Autore: Guardian1    17/09/2010    2 recensioni
[Completa, riveduta e corretta.]
Sono passati tredici anni dagli eventi di Final Fantasy IX, ed ecco che la vita di Eiko Carol viene stravolta di nuovo da un nemico creduto morto da tempo. Che cosa può fare una ragazza sola per cambiare le cose?
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Eiko Carol, Un po' tutti
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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capitolo nove
abbandonati



Night holds Hippolytus the pure of stain,
Diana steads him nothing, he must stay;
And Theseus leaves Pirithoüs in the chain
The love of comrades cannot take away.


La notte detiene Ippolito il senza macchia
Diana non gli dà giovamento, è costretto a restare;
E Teseo abbandona Piritoo tra le catene
L’amore tra compagni d’arme non può scioglierle.


- a. e. housman



Feci un sogno.

C’è un campo, con erba verde e lussureggiante e collinette diseguali e piccoli edifici ordinati costruiti tutti nello stesso stile a strati tenue, tenero e sgangherato che caratterizzava le casette dei maghi neri del Villaggio del Maghi Neri. Il vento soffia tra le case e tra i vasi di fiori poggiati sui davanzali delle finestre e accanto alle porte. Qualcuno mi stringe la mano; abbasso gli occhi e vedo un bambino dai capelli scuri che mi sorride. Si alza il sole, e cala la luna e spuntano le stelle nello stesso istante in cui si alza il sole.

All’erba è mischiata la sabbia – un po’ come quella che si trova vicino ai grandi corsi d’acqua – e vago con lo sguardo fino a quando non vedo un lago scintillante, che riflette una luce verde blu e bianca sulle acque danzanti. Da una delle case esce Vivi ridendo; ha un paio di pantaloni semplici col laccio alla vita e una camicia di lino, i capelli legati dietro in una treccia stretta, e il sangue che gli cola da bocca naso e orecchie.

« Non preoccuparti » dice, prima ancora che io apra bocca; prima ancora che possa pensarci. « Finisce sempre presto, linden-bloom. »

« Adesso siamo felici? » chiedo. « Cosa abbiamo fatto? »

Alla mia domanda fa un sorriso raggiante. « Una casa nel deserto. Qualcosa dal nulla. Il nulla era dappertutto. Dovremmo essere fieri di noi. »

È il Gran Lago, il Gran Lago di Alexandria; laggiù è rimasto qualcosa del vecchio porto, al centro c’è un naufragio vecchio antico e marcio. Sotto di me ci sono pezzi di pietra.

« Ma ora c’è solo sangue » dico, perché il sangue ha tinto l’erba di rosso.

« Abbiamo dovuto bruciare gli alberi per fare spazio al pascolo. »

Il bambino si libera della mia mano e sale su un albero. Provo a farlo scendere ma non ne vuole sapere; Vivi si avvicina e mi prende la mano, ma è ridiventato Tango Nero, con i vestiti neri e gli occhi d’oro. Gli tolgo il cappello e provo a tastargli la faccia ma non trovo niente, come con Rain; mi si mozza il fiato, ma poi lui riappare, ricoperto di cicatrici e sangue.

« Non guardare indietro » dice Vivi, e poi mi dà un bacio violento e lungo, e mi bacia fino a quando non mi fanno male le ossa e mi si arricciano le dita dei piedi sull’erba alta. Quando riapro la bocca distruggo un fiore di lavanda, carino e delicato. Sembra tutto sbagliato, e so di aver dimenticato qualcosa; fisso il fiore nella mia mano, ancora bagnato della mia saliva.

« Te l’avevo detto che non dovevi guardare » dice, e poi cala il sole e si alza di nuovo la luna ed esplodono le stelle.


Quando mi svegliai mi venne in mente Branbal, e non sapevo perché. Mi vennero in mente il buio delle condutture, i jenoma dagli occhi vuoti e il fuoco che si accese quando Kuja fece esplodere tutto quello che lo circondava, coriandoli di un rosso vivo di morte che si spargevano su un mondo morente. Poi tornai a dormire, e non sognai più.



Rain mi portò la colazione; me lo misi sulle ginocchia e la mangiammo insieme. Sembrava che non gli desse affatto fastidio essere tenuto in braccio, né il toast tagliato in tanti soldatini, né in generale essere trattato come un bambino piccolo piuttosto che come un piccolo mago nero. Era pimpante come non mai, ma se fosse stato umano so che avrebbe avuto gli occhi rossi e le guance rigate dalle lacrime. Soffriva ancora per Tide; tutti soffrivamo per Tide.

« Come hai dormito? » chiese con la bocca piena di pane e burro.

« Oh, ho dormito bene. » Doveva aver capito che stavo mentendo; i miei capelli somigliavano a un pagliaio viola ingarbugliato, e sotto gli occhi avevo delle occhiaie vistose. I capelli ormai erano troppo lunghi: mi arrivavano fino alle scapole e mi svolazzavano davanti al corno da sciamana, ingombranti e bisognosi di un nastro. « Credo che stanotte abbia piovuto. »

« Forse è stato il Signore. » Mi zuccherò il porridge, passando il dito inguantato lungo il bordo della tazza, che ancora una volta fumava allegramente sulla piccola fiamma azzurra a campanula. Lo ringraziai e la sollevai, mangiando qualche cucchiaiata di avena calda. « Non è ancora la stagione delle piogge. »

Lo solleticai sotto un braccio fino a farlo dimenare tra le risa. « Boh, secondo me ogni giorno è la stagione di Rain. »

« Ei-ko! »

Gli scompigliai talmente tanto il cappello che alla fine cadde; nel tentativo di fare l’indignato se lo schiacciò in testa e si divincolò da me per scendere, leccandosi i guanti striati di burro. Mentre ancora ridacchiavo del suo broncio solenne, inclinai la tazza di porridge e lo bevvi avidamente, tanto da macchiarmi la bocca, il naso e le guance. Adesso mangiavo pure come Tango. Mamma mi avrebbe frustato fino a farmi perdere la vista.

« Oggi cosa vuoi fare? » domandò, raccogliendo il vassoio con tutte le cose della colazione, impilandosele con attenzione sulle braccia e sulle maniche pesanti per non farle cadere.

« Lavorerò un po’ » risposi riluttante, alzandomi in piedi. Indossai i pantaloni larghi che avevo trovato nell’armadio di Kuja – grazie agli Dei, anche se parevano più che altro mutande di lana – e non mi disturbai a cambiare la maglia. Abitando nella casa di un uomo che non si lavava dalla pubertà piena di maghi maschietti, stavo cominciando a trascurare la mia igiene un pochino troppo la mia igiene. Non che fossi stata esattamente pulita quand’ero un’ingegnere (tanto di quel tempo fa: i mesi ormai sono anni), ma tendevo a lavarmi e a indossare vestiti puliti. Mi asciugai la bocca sulla manica. « C’è un posto dove posso andare a lavorare? Una bella stanzona vuota? »

« Scendi giù, usa una delle sale da ballo » suggerì prontamente. « Vado a controllare con i miei fratelli se ce n’è una pulita- »

« Non importa che sia pulita! » gridai alla sua schiena. Troppo tardi: era già saltellato via, scalpitando sulle mattonelle di marmo con gli stivaletti pesanti, diretto da qualche parte ai piani inferiori.

Mi inginocchiai a terra e aprii le ante. Non sapevo perché avevo nascosto la bacchetta; Vivi sapeva della sua esistenza, ma non me l’aveva ancora spezzata in due sulla testa. Non sapevo se si fidasse di me. Non credo, o almeno quasi mai. I fiorellini, lenti e animosi, rilasciavano ancora delle scintille bianche che ricadevano sulla fodera mezza marcia del fondo del cassetto, facendola brillare. Me la infilai nella parte superiore dei pantaloni e richiusi l’armadio. Lasciai gli occhiali.

Beh, avevo fatto colazione, ero vestita. Ora dovevo solo immergermi profondamente nel tessuto della realtà sciamanica ed evocare la Morte stando attenta a non farmi staccare impetuosamente lo scheletro dalla pelle. Tutto in un giorno solo, dalla vostra Eiko Carol-Fabool. Urrà. Evviva.

Fine dei festeggiamenti.

Quando il mondo era più giovane e gli sciamani vivevano tutti insieme, mi raccontava sempre mio nonno, estraevano d’ufficio gli Eidolon da tutti gli sciamani più piccoli; così facendo, questi venivano alienati dal flusso dell’essere, e turbinavano nell’abisso in cui andavano tutte le creature di cui si era a conoscenza. Per ottenere le ali, lo sciamano doveva Chiamare i suoi Eidolon per mettere alla prova il proprio potere. È sempre più facile convincere gli Eidolon nati con te, quelli che hanno condiviso un grembo con te.

Chiamare gli Altri è tutta un’altra storia. E quando non riesci neanche a chiamare i Tuoi, oh beh.

Lavoravo con diagrammi d’ingegneria; lavoravo con cose certe, confortanti, concrete, linee, angoli, equazioni matematiche. Evocare era come macchinare un sogno. Non sapevo da che parte cominciare.

Allora cominciai, in una delle sale da ballo di Kuja (per chi indicevi i tuoi balli, Kuja? Chi invitavi?), sfatta, impolverata, con le tende in broccato che marcivano. Da quelle parti le cose o marcivano o seccavano. Rain era un piccolo figlio del deserto, quasi quanto lo ero stata io, teneva le maniche gonfie legate ai polsi per non far entrare la sabbia; ne stava spazzando via dall’entrata quando era arrivato Sunny a portarmi giù.

« È in condizioni tremendamente buone » illustrò suo fratello, raggiante. Rain amava la pulizia; amava pulire, amava le cose nuove, amava tutto ciò che non stesse morendo o fosse già morto. Volevo tanto mostrargli Lindblum fino a fargli cadere gli occhi per tutto il vapore e lo splendore. « Come la maggior parte della Reggia. Abbiamo perfino riparato la finestra da cui ti sei buttata tu, perché stavano entrando le lucertole. Al Signore non piacciono le lucertole. »

Pensai a Vivi, che giocava con una lucertola in un piccolo pezzo di terra illuminato dal sole; non giocava mai con le mani, guardava soltanto. Odiava quando molestavo le formiche, i ragni o i centopiedi con un ramoscello; gli piaceva osservare quello che facevano. Pensai a Tango, che squarciava una lucertola, ne masticava le interiora e ne beveva le orbite.

Abbiamo sbagliato, Gidan. Avremmo dovuto controllare. Avremmo dovuto trovarlo. Avremmo dovuto, avremmo dovuto, avremmo dovuto. I sensi di colpa si attaccano stancamente alla pelle-

« Rain, ti spiace se chiudo la porta? » Forse, se avessi perso contro un mostro dell’abisso, quello mi avrebbe mangiato e si sarebbe scatenato nella Reggia del Deserto. Volevo che Rain e gli altri fossero al sicuro.

« Non c’è nulla con cui chiuderla, Eiko. » Guardò mestamente le doppie porte. « Non si chiudono bene; la porta destra è umidissima e sporge. »

Merda. « Accidenti. E va bene. » Mi avvicinai a lui, lisciando amorevolmente le pieghe del suo cappello. « Rain, se senti qualcosa – di strano, per esempio io che grido, magari sangue che scorre da sotto le porte e organi che vengono sbattuti contro il muro – tu corri a prendere tuo padre senza guardarti indietro. »

Corri, prendi tuo padre. Era loro padre. Era l’unico padre che avrebbero mai avuto. A pensarci era strano. Lui strinse gli occhi, fece una smorfia; poi, alla fine, annuì. « Sì, Eiko »

« Guarda che dico sul serio. » Gli diedi una pacca sulla spalla. « Vabbè, sparisci. Cosa c’è per pranzo? »

« Torta » rispose allegramente. « una grossa torta rustica di carne. »

L’avrei lasciato alle sue grosse torte rustiche, alla sua pulizia, al lucido, ai suoi fratelli e a suo padre. « Rain, ti voglio bene. »

« Anch’io ti voglio bene, Eiko. » Trotterellò via, attento a non inciampare con i piedoni sulle mattonelle incrinate della sala da ballo. Chiuse le porte dietro di sé, indugiando su quella umida e spingendola tanto da riuscire quantomeno a incastrarla contro l’altra.

Bene.

Basta con la misericordia.

Con ampie falcate arrivai al centro della stanza. Era grande, spaziosa e arieggiata; le tende non coprivano le ampie finestre di vetro per far sì che entrassero i forti raggi di sole. Meravigliosamente adatta al mio scopo. C’era un vento caldo che si insinuava da qualche crepa e mi agitava i vestiti. Il cotone che mi sferzava la pelle era soffice come le nuvole; Kuja aveva molto gusto per i materiali.

« Fenice » dissi ad alta voce, innalzando la bacchetta. « Fenril. Carbuncle. Madein. »

Abbassai la bacchetta al fianco e iniziai a percorrere un cerchio lento e misurato, disperdendo la consacrata polvere di fiore per terra; una sillaba a passo. « Madein. Carbuncle. Fenril. Fenice. »

Sulla mia scia comparve presto pulviscolo brillante; le mie dita si contrassero quando riconobbi le indicazioni, muovendo la testa in ogni grado. Tre e sessanta; due e settanta; novanta; nord, sud, est, ovest. Concentrati, ragazza, concentrati; sei sul campo di battaglia con Garnet. State evocando; le ti fa quel sorrisetto che fa sempre, quello lontano quanto gli altri pianeti, e tu senti il potere che emana come una ventola di energia. È bellissima, è la tua anima sorella; ricordati di quella sensazione, di lei che ti faceva sentire come se la tua magia fosse una supernova arroventata e tu stessi esplodendo più forte che mai. Non hai una pietra pomice al collo; non ti serve. « Fenice. Fenril. Carbuncle. Madein. »

Ritmo e battiti cardiaci. Mi voltai dall’altra parte e continuai a camminare, affrettando il passo. « Madein. Carbuncle, Fenril, Fenice- »

Più in fretta, ora. A voce più alta. « Fenice. Fenril. Carbuncle. Madein! »

Dondolai da ferma, senza neanche più collegare la bacchetta a terra; non ce n’era bisogno. Stava eruttando scintille bianche di luce come un bricco che versa il tè, come una brocca d’acqua. Sfavillava alla luce del deserto, elettrizzata.

« Madein! »

madeinmadrepadreterrafirmameteosismamadeinmaduimaduinmadein

« Carbuncle! »

carbunclecarbunclerubinosmeraldopietralunarecandoredidiamanteardentecarbuncle

« Fenril! »

fenrilragnirfamelupoirasismicaerosionemillenariaventomelodiasottolalunafafnirfenril

« Fenice! »

feniceaugellodivitapiumedangelonuovorespirophoenixfenice

Voce più alta.

« FENICE! »

steiner sta morendo, sta morendo – garnet riesce a malapena a trattenere il respiro; sull’armatura si è formata ruggine di sangue, e non riesce neanche più a ruggire, perciò dagli del fuoco

« FENRIL! »

hai sempre odiato i terremoti; a madain sari ce n’erano di troppi e troppo forti che appianavano la terra e le davano dei denti: ora i denti sono tuoi, nella bocca di un lupo

« CARBUNCLE! »

splendore di rubino; a volte hai paura, quando t’inghiotte il fuoco e sulla pelle hai solo la luce dell’eidolon di cui non ti puoi fidare quando sei stanca e hai freddo e il colpo arriva solo per te. dalla grande bambina di sei anni che eri ti saresti fatta pipì addosso se ti fosse rimasta un po’ d’acqua in corpo

« MADEIN! »

c’è una ragazza dai lunghi capelli verdi che non riesce a vedere a causa dei tremori e delle troppe lacrime; c’è qualcosa di bianco e viola che si muove attorno a lei, e allora ricordi (anche se non l’avevi mai saputo): mogu non è mai stata semplicemente tuo padre

Non venivano.

« MADEIN! »

Avevo attribuito all’assenza degli Eidolon il silenzio del mio cuore; adesso percepivo qualcosa di molto più sinistro, il mutismo di bocche che non volevano aprirsi. Mi riempii di rabbia; crollai in ginocchio, sbattendo la parte inferiore della bacchetta sul pavimento, smuovendo le particelle sottili che mi vorticavano attorno.

« MADEIN! »

Non venivano.

Non ce l’avrei mai fatta; non avrei salvato Gaya. Tango Nero si sarebbe posto sulla cima di una montagna e avrebbe distrutto tutto e tutti mentre rideva, rideva e piangeva, e poi sarebbe venuto Trivia e avrebbe distrutto se stesso. Neanche Vivi poteva far nulla contro la Morte, non da solo, neanche con me al suo fianco. Non ce l’avrei mai fatta.

Non venivano.

E così feci una scenata.

« Dove siete! » urlai, strillai, lasciando perdere la bacchetta e accasciandomi a terra, picchiando il pavimento con le mani e i piedi. Vedevo rosso, rosso, rosso. « Dove siete, figli di puttana, vi sto CHIAMANDO! Dovreste VENIRE! Non ho fatto niente di male, nononono, perciò venite da me, venite da me e subito, vi odio tutti, viodiotutti, nonnofallivenire, venite venite venite- »

Ero soffocata dai singhiozzi, di quelli arrabbiati, riuscivo a stento a parlare e enfatizzavo le parole dando alle mattonelle pugni tali da ferirmi le nocche. Il mio petto palpitava contro il pavimento.

« Io sono vostra, voi siete miei, miei miei miei, arrivate adesso, non capite, ho bisogno di voi, bisogno più che mai, troie, stronzi, stupidi, stupidi- » La mia voce si alzò in un guaito. « Non volevo, non volevo che – perché mi avete abbandonato, voglio mia madre, voglio mio padre, voglio papà – voglio, qui, voglio Madein- »

Eiko.

La voce era imperiosa; rimbombò per la sala da ballo fino a toccare il fioco lampadario di cristallo, che fissai con occhi rossi e stupiti.

Eiko, non verremo.

« Madein? » sussurrai. « Madein – vi prego » Ricominciai a piangere, per la disperazione. Ormai avevo il naso rosso, la faccia gonfia; non esattamente il ritratto della dignità sciamana. « Madein, io ho bisogno di voi. »

Non verremo.

E Carbuncle: Non lo faremo.

Con Fenril: È un abominio.

Poi Fenice: Siamo d’accordo; non verremo, non ti aiuteremo in quest’impresa.

« Ma- » La mia bocca era asciutta; avevo un disperato bisogno di bere. « Ma devo farlo, devo fermarlo. È Vivi; e i maghi neri, loro non hanno mai fatto nulla di male, vogliono solo vivere- »

Lo facciamo perché ti amiamo, Eiko. Era la mia madrepadre. Lascia che ciò che è morto muoia. Proseguire lungo la strada verso cui ti stai incamminando porterà rovina-

Distruzione.
Fenril.

Apocalisse. Carbuncle.

Morte. Fenice.

« Ho già affrontato Trivia. » Digrignai i denti, un brutto vizio. (« Ti verranno i denti rovinati come a una cucitrice » diceva sempre mamma.) « Se la mia vita è perduta, che così sia. Non m’importa più. Non m’importerà mai più. »

Chi chiami Trivia è incatenato, declamò Fenril. La sua voce era un ringhio basso, lacerante, come l’ululato di un tornado. Se lo facessi scioglieresti le catene.

Non è incatenato per nulla
, intervenne Carbuncle. Avevo sempre avuto voglia di allungare una mano e accarezzarlo, di toccare quella piccola meraviglia che risplendeva come un gioiello. Divorerebbe tutto ciò che sia mai esistito, una volta libero dalle catene. Non fidarti del mago; non può farcela, e non puoi farcela neanche tu.

Non vogliamo vederti divorata, Eiko.
Ancora Madein. Eiko. Eiko. Non lo vedi il pericolo? Se fossi Bahamut o Ashura ti direi la stessa cosa.

« Non potete resistere per sempre » mormorai. « Lo so che siete lì. »

Ci costringeresti? Fenice. Ci dilanieresti? Siamo i tuoi fratelli e sorelle in schiavitù; la porta del mondo degli spiriti non ti si aprirà senza di noi.

« Voi non capite! » Qua e là mi veniva qualche altro sporadico attacco. « Tango – Vivi – lui morirà, non capite, e così Rain, e Sunny e tutti gli altri – si Fermeranno proprio come Tide. Non posso lasciare che ne muoiano altri. Non posso. Devo tentare; vi prego, vi prego, devo tentare. Oh, Dei, devo tentare o non riuscirò più a vivere la mia vita. »

In questo sentiero dimora la follia, Eiko.

« Madein, sono già mezza pazza, diamine. »

Lo ama. Era Carbuncle, accusatorio. Lo Ama; non vedete, è pazza di lui. L’ha detto lei stessa.

Chi mai potrebbe amare quello?
Fenril. Non lo ama. È terrorizzata, turbata, facilmente manovrabile. Lei ama i bambini, non ama lui.

« Preferirei che la piantaste di parlare di me come se io non ci fossi! »

Tacquero immediatamente.

La voce di Madein. Più gentile. Avvertiva la mia spossatezza, la mia disperazione. Che cosa vuoi, Eiko?

« Sai una cosa? » sbottai meccanicamente. « Mi piacerebbe fare un bagno caldo senza sentire le grida degli antoleon, o gli antoleon che si accoppiano, o quello che diamine fanno quando urlano. Mi piacerebbe sentire il suono di un’aereonave. Mi piacerebbe riavere il mio letto. Voglio mia madre e mio padre e Gidan e Garnet ed Elia e tutti gli altri. È questo che voglio. »

Ci fu un silenzio, come se stessero bisbigliando.

Questo, Eiko, lo esaudiremmo volentieri. Vorresti tornare a casa?

Volevo tornare a casa?

Volevo lasciare i maghi neri e il loro piccolo, solitario cimitero a un padre che li uccideva a mani nude? Senza neanche la minuscola protezione che potevo offrire loro? Abbandonarli a Tango Nero, impazzito e inferocito dal dolore e dalla solitudine, un bambino che una volta avevo amato con tutta me stessa e per cui avevo combattuto e perso sangue? Volevo davvero abbandonare tutto ciò?

« Sì » risposi.

E poi arrivò Fenice, che si impennò sulle zampe posteriori, inondando la camera di una luce abbacinante e di calore sbattendo le ali maestose. Scompigliò la polvere che mi attorniava; infilai ancora una volta la bacchetta nei pantaloni e tra qualche scivolone mi arrampicai disperatamente su di lui fino a raggiungere sana e salva la sua schiena. Fenice se ne infischiava delle porte: mandammo in pezzi il soffitto, e coprimmo centinaia di metri in pochi secondi.

L’ultima cosa che vidi, mentre mi aggrappavo il più possibile alle piume del mio Eidolon, fu un piccolo, logoro spaventapasseri con le ali ripiegate dietro la schiena, che ci guardava dall’alto di una delle torri della Reggia del Deserto. Poi Fenice spiccò il volo veloce come il vento e mi portò ad Alexandria.

Casa. Lontano da lì. Ero libera.

E l’unica cosa a cui riuscissi a pensare era: ho lasciato lì gli occhiali.





NdT: Alexandria! Finalmente rivedremo un paio di vecchie conoscenze… : D
La poesia che Guardian ha scelto per questo capitolo è in realtà la traduzione inglese di Housman di un’ode di Orazio. Ero mezzo tentata di usare una traduzione dal latino, mediamente reperibile, ma alla fine ho tradotto personalmente dall’inglese. Mandando a benedire le rime, ma tant’è xD
   
 
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