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Autore: Karyon    18/09/2010    1 recensioni
Ore di libertà.
Questo sono, quei minuti passati a stare bene, bene per davvero.
Ore di libertà dalla vita.
E nient’altro.
(Partecipa al "A year together" del Collection of Starlight).
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Partecipa al “A Year Together” del Collection of Starlight.
91. ~ Ora di libertà
 
Ora di libertà
 
»Ore di libertà.
Questo sono, quei minuti passati a stare bene, bene per davvero.
Ore di libertà dalla vita.
E nient’altro.
 
Faceva caldo lì fuori nel Mondo, lo vedeva: il paesaggio di villette aggraziate e viottoli ordinati ondeggiava ad una forza invisibile, come un miraggio immerso in un deserto incandescente.
Joe appoggiò la fronte accaldata al vetro fresco, con gli occhi fissi sulla strada assolata; nonostante i piedi scalzi, la schiena nuda velata di sudore e i pantaloni appiccicati alle gambe, non sentiva caldo. O meglio,  quello c’era – lo avvertiva tutt’intorno – ma una membrana invisibile sembrava preservarlo dal sentirlo.
Era strano da spiegare.
Ad esempio, sapeva che la televisione in cucina era accesa e per di più ad alto volume, mentre trasmetteva quello stupido programma sulla “gioventù bruciata”, tuttavia non la sentiva realmente. Le sue orecchie captavano più una sorta di ‘bzz’ attutito, come se il volume interno del suo cervello si fosse abbassato di colpo.
Con uno sbuffo smorzato, si passò velocemente una mano nei capelli biondi: quello che stava pensando non aveva molto senso, supponeva.
Un ‘biip’ e il nastro della segreteria telefonica, buttata in un angolo del tavolino ingombro di fogli da disegno, cominciò a girare.
«Jay, il tuo turno è cambiato. Janis aveva bisogno del pomeriggio libero per non so che cazzi, ci vediamo alle due» la voce di Mia nella segreteria risultava sempre titubante, come se non sapesse esattamente cosa dire. Probabilmente pensava a quanto fosse stupido parlare con un aggeggio elettronico.
Comunque, due secondi dopo, la voce della stessa Janis lo raggiunse con tanto di sottofondo fastidioso «Tesoro, non so se Mia ti ha avvisato… sono ancora in facoltà perché c’è stato il solito casino con quello stronzo di Harkinson, poi ti spiego! Ti ricambierò il favore, ti amo!»
Gli altri messaggi erano un po’ sempre uguali, tra i folli del corso d’arte e i vari clienti fissi che avevano il suo numero.
Beh, sicuramente la voce che avrebbe voluto sentire non c’era, tra quelle.
Joe fece un sorrisetto che sapeva tanto di autocommiserazione, poi si portò le ginocchia al petto: quel bastardo di Kurt era partito per chissà quale giro con gli sfigati del suo gruppo e neanche l’aveva chiamato; la notte prima lo aveva mollato al locale in mezzo al casino del Venerdì, dopo un breve e schifoso saluto di circostanza.
Era un vero idiota. E all’apice del proprio masochismo sapeva che lo avrebbe perdonato ancora e ancora, sempre, solo perché gli era entrato dentro come una specie di parassita.
«Dovrò ricominciare col progetto o non ce la farò per l’esame» fece atono a se stesso, mentre le vibrazioni della sua voce venivano assorbite dal silenzio che impregnava quella stanza. Non poteva permettere che tutto quello lo immobilizzasse, non di nuovo, non in modo così indolore – quasi non si era accorto di come era cambiato il loro rapporto. Si alzò lentamente, le piante nude sul parquet lucido e compatto, muovendosi verso la cucina nel frattempo che lanciava uno sguardo critico al bozzetto che campeggiava al centro del foglio A4: la struttura base per disegnare un viso, un accenno di una mano, nient’altro.
Mentre in quel momento il foglio gli sembrava immenso, un tempo era sempre riuscito a berne centinaia, migliaia di spazi bianchi come quelli: un foglio vuoto era come la sua anima lasciata un po’ incompleta, disegnarci sopra era un modo per riempirla. Ora, il bianco gli inghiottiva l’aria.
Senza una parola, lasciò che il disegno scivolasse sul pavimento chiaro, poi riempì la tazza di tè bollente, appoggiandosi al candido ripiano della cucina.
Il mal di testa della notte prima – misto di musica, disordine, lavoro frenetico e alcool – gli pulsava nel cervello, impedendogli di pensare. In realtà non era abituato a bere, nonostante fosse un barman: non c’era mai il tempo né la voglia di farlo.
Tuttavia, solo qualche ora prima, aveva deciso che non gliene fregava niente, che stava troppo male per pensare anche solo lontanamente all’Università, ai corsi e alle strafottutissime buone maniere.
Un tonfo lo avvisò che il grosso elefante che giaceva in salotto si stava muovendo; con un sorriso si sporse a guardare il divano, dove Brian ronfava sfidando la forza di gravità.
Quella casa era fatta su misura – piccola, funzionale e scombinata –, uno come lui non ci si incastrava molto bene.
Non ricordava molto di quello che era successo solo poche ore prima, però era sicuro che ad un certo punto lui fosse spuntato fuori col suo mantello e la tuta da supereroe. Brian era sempre una specie di supereroe, pronto a salvare il Mondo col suo fare rude.
Joe sospirò, poi si mise comodamente a guardare il suo ospite che calciava via l’unica coperta decente che aveva raccattato in casa, scoprendosi e rivelandosi totalmente vestito. Gli dispiaceva che fosse crollato sul divano, per di più senza cambiarsi – lui e i suoi fanatismi da “stropicciamento vestiti” -, solo perché quell’imbecille di Kurt aveva deciso di piantarlo per l’ennesima volta.
Si sentiva debole e allo scoperto, con le sue difese tutte abbassate a lasciarlo disarmato contro gli attacchi esterni.
Mentre era perso a guardare attraverso la portafinestra che dava sul cortile incendiato dalla luce del sole, una voce arrochita dal sonno gli s’infilò tra gli ingarbugliati pensieri.
«Che o-o-ore sono?» Biascicò Brian, sbadigliando.
Joe lanciò un’occhiata al grosso orologio in alto «Mezzogiorno e venti. Direi che è l’alba!» Ironizzò, con voce pacata; usare più voce significava anche alzare il volume della sua emicrania.
Brian ghignò, ma a quell’ora il suo collaudato ghignetto da rompipalle non gli veniva poi così bene, e si passò una mano tra gli arruffati capelli lunghi «Come va il mal di testa?»
Il biondo scrollò le spalle «Sopravvivrò anche per oggi...» commentò, spostandosi verso i fornelli. «Vuoi tè?» Domandò, mentre l’altro si alzava stiracchiandosi veementemente.
«Io non ho bevuto, quindi direi che voglio del forte e potenzialmente dannoso caffè!» Esclamò, sottolineando la prima parola con fare quasi rabbioso.
Joe roteò gli occhi, mordendosi la lingua per non irrompere in una rispostaccia, poi si girò con un sorriso a quartantadue denti «Ma te lo fai tu» cinguettò, trovandoselo fin troppo vicino.
La prima regola della buona convivenza con Brian Ward recitava qualcosa come “mai stargli troppo vicino quando non ha dormito bene, bevuto prima un buon caffè  e, soprattutto, quando può essere presumibilmente incazzato”. E visto che lui faceva i compiti a casa, decise di saltare via dalla traiettoria del fuoco, posizionandosi dietro al tavolo, come se fosse uno scudo.
Brian seguì i suoi movimenti con la coda dell’occhio e rise, scuotendo il capo.
«Tu hai paura ragazzino» commentò mentre sistemava la moka.
Fu soprattutto a causa della vena superba del suo tono, che Joe reagì quasi con rabbia «Non è vero!»
Brian annuì come a dargli ragione, usò quasi tutti i neuroni per caricare il “caffè più buono dell’Universo”, poi si appoggiò al ripiano, incrociando le braccia «Come stiamo stamattina?» Gli chiese, fissandolo.
Il biondo scrollò le spalle «Ti ho detto... un po’ di mal di testa, ma sta passando».
«Chissenefrega del tuo mal di testa, che cazzo è successo ieri?»
Joe sbuffò «Niente».
«Non fare ‘niente’ con me. Ho visto quel celebroleso di un musicista che ti urlava in faccia e deve ringraziare la sua buona stella che avevo troppo da fare per staccargli la testa di cazzo che si ritrova» grugnì, mentre la voce gli si abbassava di qualche tono.
Joe capì che aveva passato tutta la notte prima a pensarci e sicuramente farsi vedere ubriaco marcio non era stata una mossa brillante.
«Abbiamo solo discusso un po’, capita nelle coppie... poi però sono tornato a lavoro, no?» Spiegò, minimizzando quanto più possibile. Comunque quando mentiva si sentiva sempre a disagio e non riusciva a guardarlo in faccia; strusciò un piede nudo contro una caviglia e ficcò le mani in tasca, decidendo all’istante che l’angolo destro completamente bianco della stanza era decisamente una roba interessante.
Brian rimase in silenzio per un po’, sorvolando con una smorfia mentale sulla parola “coppie” – decisamente fuori luogo – mentre l’aroma penetrante del caffè già si diffondeva nell’aria.
«Non mi piace quando bevi» fece solo, sentendo che la rabbia della notte precedente, sbollita nel sonno, stava ritornando a scorrergli addosso, assieme all’irritazione di vederselo di fronte così: pallido, senza forze per mancanza di cibo e con delle occhiaie da far spavento.
E ubriaco.
Diosanto, quella notte quasi non lo riconosceva tanto era fuori.
«Può succedere! Di bere, dico. Non sono un ragazzino, quindi posso fare come mi pare e quella sera avevo voglia di bere» mugugnò Joe, senza tanta convinzione ma con voce ferma.
Ora lo guardava ed era pure incazzato: si era rotto le palle del fatto che tutti gli dicessero cosa fare, come comportarsi e come gestire la sua fottuta vita.
Peccato che con Brian un discorso del genere non poteva essere fatto; non con Mister Comando-Tutto-Io.
Infatti si limitò a guardarlo, senza muovere muscolo: gli occhi scuri e stretti piantati su di lui e le labbra serrate.
«Non voglio che bevi» replicò laconico.
Joe strinse i pugni, il cuore sembrava pompargli il sangue direttamente nelle tempie, che gli pulsavano furiosamente; sapeva che voleva aiutarlo, tuttavia era troppo stanco, incazzato, deluso e debole per dargli retta.
Improvvisamente desiderò stare da solo in quella casa che normalmente amava riempire di gente.
«Non sono cazzi tuoi» sibilò, cercando di controllare il tremito della voce.
«Io non voglio che bevi» ripeté Brian, questa volta staccandosi dal ripiano, abbandonando il caffè al raffreddamento e con gli occhi solo per lui, solo per il suo pallore, il viso tirato e le mani tremanti.
«E io ti ripeto che non sono affari tuoi!» Sbottò il biondo, poi si portò le dita alle tempie e chiuse gli occhi con un sospiro. «Senti, non ho voglia adesso. Mi fanno male persino le orecchie, ho voglia di tornare a dormire e dimenticare...»
Sentì la voce dura di Brian a pochi passi da lui, di fronte a sé, che gli parlava con la sua solita intonazione bassissima e ferma, come se si stesse trattenendo con la forza.
«Tu non bevi mai e ieri eri talmente ubriaco da rischiare di farti ammazzare dalle macchine in strada. Io non dovevo esserci ma, fortunatamente per te, c’ero e ti ho trascinato a casa quasi in spalla. Ora, questo è successo perché quello stronzo ti tratta peggio di una puttana» spiegò.
Joe sgranò gli occhi chiari « Ma vaffanculo!»
«Beh, è vero. Ti prende e ti molla come gli pare e tu, tutte le volte, lo fai entrare nel tuo letto. Magari è tanto bravo da farti scodinzolare, ma non ti facevo così bisognoso di essere fottuto».
Lo schiaffo gli partì in automatico, come se fosse sempre stato lì – sull’orlo del burrone. Brian era la spinta, neppure tanto forte, che lo aveva gettato nel vuoto.
«Sei un bastardo, non ho di certo bisogno delle tue frasi ad effetto da rompicazzo!» Urlò, questa volta con la voce che tremava di rancore e odio represso; si morse le labbra per evitare di piangere, ma sentiva le lacrime appannargli lo sguardo, in attesa. Se solo avesse battuto le palpebre, sarebbero venute giù senza freni.
Si arrischiò a guardarlo di nuovo quando i minuti di silenzio divennero troppi, e il suo sguardo non nascondeva la voglia di colpirlo a sua volta, magari mandandolo a dormire una volta per tutte.
Brian alla fine non era uno violento e il suo autocontrollo era quasi invidiabile.
«D’accordo, forse ho esagerato, ma tu sei un dannato egoista» replicò, dopo un paio di respiri profondi.
«Sì certo, perché appena uno decide di essersi stancato di farsi calpestare tutte le volte e finalmente fa quello che gli pare è egoista!» Partì Joe, cominciando a muoversi per la stanza come un invasato. Praticamente stava piangendo e urlando contemporaneamente, ma la cosa non lo preoccupava; ormai che l’argine si era rotto, era impossibile frenare la massa d’acqua che scorreva. «Beh mi sono rotto, d’accordo? E non è solo Kurt, tutti mi dicono cosa fare! L’Università è una merda e lì tutti a dare lezioni di morale, quel bastardo di Fred che decide di fare il padre spuntando da chissà quelle merdosa città, e anche al locale non è che le cose vadano poi meglio! Cazzo, Mia che rompe le palle come se non avesse pure lei un sacco di problemi, James che fa l’ipocrita e tu...»
Un colpo secco del pugno sul ripiano lo fece sussultare.
Brian riaprì la mano, accigliato, gli si avvicinò con poche lunghe falcate e se lo tirò per il braccio sottile, stringendolo tanto stretto da fargli male «Credi che non le sappia tutte queste cose? Ora ti spiego meglio la situazione, stupido deficiente: se proprio vuoi ammazzarti, vedi di mettere un paio di Continenti o un Oceano tra di noi, perché non ho nessuna intenzione di passare il tempo a guardarti in questo stato. La prossima volta che sarò costretto a salvarti da qualche maniaco perché ubriaco da fare schifo, mi premunirò di atterrarti io stesso» tirò, quasi senza prendere fiato.
Joe poteva sentire le sue dita, e quindi anche tutto il braccio, tremare sottilmente, mentre la sua voce si spezzava.
«Mi sono preoccupato, mi sono spaventato. Ho passato tutta la maledetta notte a cercarti, dopo che quello stronzo se n’era andato, e avevo paura che fossi andato fuori».
«Lavoro al locale da anni, mi conoscono tutti e so come comportarmi...» replicò Joe, questa volta a voce bassa e timorosa.
«Non mi interessa un cazzo! Razionalmente io lo so, ma viverle è un’altra cosa. Eri ubriaco, era Venerdì, era notte fonda e non ti vedevo da nessuna parte. Non è stato un bel quarto d’ora, te lo assicuro» sbottò ancora Brian, lasciandolo in modo violento, per poi passarsi una mano nei capelli. «Se vuoi fare quello che vuoi, almeno non costringermi a guardare» sibilò alla fine, allontanandosi da lui.
Joe pensò che sentiva freddo, ora che si era spostato, nonostante il calore persistente del suo tocco sul braccio; lo guardò sedersi sul divano a fatica e perdersi in chissà quali pensieri.
S stava già allontanando, come tutte le volte che discutevano in quel modo. Quasi come se si trovassero su livelli di tempo diversi, nel momento in cui lui arrivava finalmente a capire cosa stava succedendo, afferrandone tutte le implicature, Brian già era andato via; risucchiato da qualche altro Mondo.
Il risultato era che rimanevano nella stessa stanza, magari anche a lungo, ma lontani anni luce – dopo essersi scontrati e sfiorati per qualche secondo.
Quel fenomeno, poi, stava diventando sempre più profondo, i suoi meccanismi sempre più imperscrutabili ma esatti, da quando i loro apporti erano drasticamente cambiati. Lui non avrebbe voluto, ma non sapeva cosa fare: l’unica cosa che interessava a Brian era difenderlo; quando lo guardava negli occhi, ci vedeva solo tenerezza e voglia di protezione, due sentimenti che aveva sempre cercato di avallare e in cui si era sempre crogiolato.
Tuttavia, spesso, quelli non bastavano.
Non gli bastava più essere visto come il fratellino casinista, asessuato e angelico, da proteggere come se fosse l’unica cosa pura rimasta al Mondo. Gli era piaciuto essere idealizzato e sentirsi speciale, ma la verità era che veniva lasciato sempre lì in alto, intoccabile da tutti, persino da Brian stesso.
«Ehi, Rambo...» gli fece dopo un po’, piazzandosi lentamente di fronte a lui.
L’altro lo fissò dal basso in alto, seduto rigidamente sul divano chiaro «Senti, ragazzino...»
Joe scosse il capo «Hai ragione. Forse dovrei lasciare perdere Kurt, sai... definitivamente» lo interruppe, soppesando le parole.
Brian sorrise circospetto «Sarebbe un buon inizio... almeno così dimostreresti di avere ancora un cervello!»
La risata gli morì in gola, quando il biondo gli si sedette addosso, a cavalcioni.
«Che diavolo fai?» Grugnì, piazzandogli subito le mani sui fianchi sottili con la mezza idea di alzarlo di peso.
«Non mandarmi via...»  gli sussurrò Joe, prima di appoggiare le labbra sulle sue.
Rimasero così per un bel po’, o forse erano solo pochi secondi scanditi lentamente dal silenzio, poi Joe cominciò a muovere le labbra, delicatamente, come a sfiorare le sue.
Sentì i muscoli delle spalle di Brian indurirsi dalla tensione, ma chiuse gli occhi cercando di non pensarci: la paura che, se solo si fosse staccato, sarebbe scappato per sempre.
Il minuto in cui sentì tutto il suo corpo irrigidirsi sotto di lui e le labbra ancora ferme e completamente serrate sulle sue, sembrò non passare mai.
Nonostante quello, Joe non aprì gli occhi e non osò fermarsi o spostarsi da quella posizione; ormai che si era buttato nel fuoco, sperò almeno di evitare che le fiamme si propagassero troppo velocemente fino a bruciarlo. Impercettibilmente sentì le dita di Brian stringere i fianchi dove si erano fermate poco prima, la bocca schiudersi di poco – quasi con timore – per saggiare le sue labbra.
Con una vertigine violenta alla bocca dello stomaco, realizzò che Brian lo stava ricambiando.
Ironicamente, quella considerazione lo fece fermare per un attimo; l’idea che qualcosa di tremendamente sbagliato stava succedendo gli intorpidì tutto il corpo.
Quando le mani di Brian lo tirarono per il bacino verso di sé, la mente piombò nel buio totale. E, per una volta, decise di assecondarla.
Alle volte si era messo a fantasticare su come poteva essere, stare con lui intendeva, e mai avrebbe creduto che fosse così delicato, anzi quasi dolce.
Joe inarcò la schiena ad aderire meglio contro di lui, mentre il bacio s’intensificava con un semplice ma vigoroso incontro di labbra e nient’altro; le mani scese ad accarezzargli la nuca e le gambe serrate attorno alle sue. Era cosciente che le mani di Brian non si erano mosse dai suoi fianchi, senza neanche accennare ad una carezza, ma la cosa non importava, non ancora.
Tutto quello che voleva fare, era assaggiarlo totalmente.
Brian alzò le mani ad accarezzargli la schiena nuda, per poi spingerlo verso di sé; allungò il collo a baciarlo con più forza, fino a mordergli le labbra, facendogli sfuggire un gemito.
La sua voce rapita dalla passione, ma delicata, gli penetrò il cervello come un colpo di fucile.
Contemporaneamente che un calore istintivo gli attaccava il basso ventre, eccitandolo, la mente tornò quasi totalmente lucida: quello era Joe, quel Joe.
Non poteva farlo.
Brian aprì gli occhi di scatto, ritrovandosi a guardare il suo corpo caldo e arrossato addosso, gli occhi lucidi e le labbra turgide e fin troppo vicine.
Cazzo, faceva male vederlo in quello stato; quasi più che vederlo soffrire per qualcun altro.
«Togliti» fece, con tono tanto secco da farlo trasalire.
Joe sgranò per un attimo gli occhi chiari, poi un sorrisino amaro gli si formò sulle labbra, mentre si girava per sedersi al suo fianco; quasi con fretta, si spostò nell’angolo più lontano del divano, raccogliendo le gambe al petto com’era d’abitudine.
Brian rimase fermo «Non volevo essere così duro» disse, con un sussurro.
Joe scrollò le spalle «Non importa».
L’altro gli lanciò un’occhiata «Tu non vuoi questo».
Il biondo alzò gli occhi al cielo, reprimendo a stento un urlo: ancora la sua psicoanalisi da uomo vissuto che parlava con un adolescente in crisi ormonale; ancora la sua superiorità, ancora i suoi errori.
«Non dirmi cosa voglio. Non farlo di nuovo» replicò freddamente, senza neanche guardarlo.
Brian sospirò «Lo sai che non sei abbastanza lucido adesso».
Joe rise, suo malgrado, e si girò a guardarlo «Cristo, Brian. E tu? Dimmi un po’, non dovresti essere tu quello lucido, mh?» Provò a chiedere, mentre l’amarezza gli si srotolava sulla lingua come acido.
Sentirsi rifiutato faceva sempre male, ma essere costantemente sottovalutato, considerato un ragazzino che faceva una marachella e non un adulto che prendeva le sue decisioni coscienziosamente, era ancora peggio.
E ora si ritrovava a guardare la sua espressione indecifrabile – a metà tra la confusione, la rabbia e la paura di ferirlo – con il suo sapore ancora addosso e la sua eccitazione latente sotto la delusione.
«Anch’io posso perdere la lucidità, ma è stato un errore» replicò cautamente Brian, cercando di avvicinarsi.
«No, non toccarmi! Piantala di trattarmi come se fossi una statua di cristallo o, peggio, come se fossi un idiota che non sa decidere! Io ho voluto farlo ed ero lucido, quando l’ho deciso. Kurt non centra un cazzo, centri tu! E se non vuoi ammetterlo, allora vaffanculo!» Sbottò, alzandosi di colpo.
Aveva tanta elettricità addosso, da doverla sfogare in qualche modo.
Joe si girò a guardarlo, ancora lì, piantato sul divano, con una stretta al cuore: dannazione, gli sarebbe saltato addosso di nuovo, cercando di tenerlo stretto il più possibile per assorbire quel calore che lo faceva stare così bene.
Una sola ora, una sola ora per avere tutto quello che aveva sempre voluto, per essere libero di essere – finalmente – come voleva. Con lui poteva succedere, voleva che Brian vedesse anche la parte più reale di sé, per una volta senza accantonare i suoi difetti come se fossero piccole intaccature di un capolavoro d’arte.
Per una volta, voleva essere vero – sbagliato, cattivo, infantile, imbranato, ma anche serio, delicato, gentile – e tutti quegli aggettivi veri e difettosi che compongono una persona.
«Io non voglio condizionarti, tu devi decidere da solo cosa fare» replicò Brian, alzandosi.
Joe rise nuovamente «Ma se lo fai sempre! E comunque, se avessi deciso? Se avessi deciso che voglio mollare quello stronzo e volessi te?» Sbottò, quasi senza accorgersene che erano ritornati in cucina.
Brian si arrestò sulla porta, incredulo «Non è possibile che tu voglia questo».
«Senti, mi critichi sempre dandomi dell’indeciso, quindi ora ti sto dicendo le cose che penso. Fallo anche tu. E, per favore, non addolcirmi la pillola: dimmi le cose come stanno».
Tanta decisione lo sconvolgeva, in qualche modo; Brian doveva ammettere che non ci era abituato. Cercando di pensare velocemente, si crogiolò per qualche attimo nel calore che gli aveva lasciato addosso, senza però permettere all’eccitazione che lo aveva colpito improvvisamente di prendere il controllo su di lui.
«Le cose stanno che è stato un errore. Io non dovevo... non volevo farlo» rispose guardando, con segreto terrore, l’azzurro dei suoi occhi andare in pezzi.
«Una temporanea mancanza di lucidità, quindi» sussurrò Joe.
Se il suo sguardo non fosse stato puntato su quelle labbra, probabilmente non l’avrebbe nemmeno sentito.
Brian annuì «Già».
«Bene. Allora. Vai a risposarti anche tu, ne abbiamo bisogno entrambi, ci vediamo domani. A lavoro» concluse, superandolo per andarsene in camera – scappando dai ricordi di solo pochi minuti prima.
L’altro annuì di nuovo, sebbene ci fosse solo il vuoto a guardarlo, poi sospirò: poteva dirgli che non era fatto per lui, che avrebbe solo sofferto a farsi coinvolgere troppo in profondità dalla sua vita; poteva dirgli che, se avesse accettato, non avrebbe potuto più difenderlo, perché i suoi problemi futuri sarebbero stati colpa sua e non voleva che accadesse. Poteva dirgli tante cose, ma dovette ammettere che aveva deciso di concludere quella cosa, qualsiasi cosa fosse, il più velocemente e indolore possibile.
Rivelargli ciò che pensava, significava dargli ulteriori speranze e, contemporaneamente, rendere più difficoltoso il suo proposito di stare fuori dalle complicazioni sentimentali.
Gli serviva quella difesa, per non perdere il controllo e lasciarsi trascinare inevitabilmente in qualcosa di troppo grosso da poterlo gestire. Non voleva perdere di nuovo l’orientamento, tanto da non vivere che per qualcun altro.
Con un ultimo sguardo al divano e uno all’imboccatura del piano superiore, gli lasciò un biglietto sul ripiano dei disegni, con una scrittura così frettolosa che quasi non la riconobbe.
Poi scappò. Di nuovo.
 
N/A
 
Puff <.<
Sapete già tutto il contorno di “che cosa orrenda” e “bleah” che già dirò, quindi andiamo avanti.
Vi aspettavate il NC_17 eh? Eh? Tsk, peccato, non c’è. *Schiva pietre*
No, davvero.
Sarebbe stato troppo, troppo, insomma.
Prima o poi ci arriveranno. XD
Dunque, dedico questa cosetta a Sorella Erba e Memo che sono anche le due pover’anime che leggono di questi due XD Dai è quasi shonen ai!
Bon, sperando che cominci a scrivere più decentemente, alla prossima!
 
 
 
 
 
   
 
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