Tata si diventa
2)
La
famiglia Peyton
“Non
se ne parla nemmeno!” scoppiò mio padre, mentre
sul suo collo aveva preso a
gonfiarsi una vena e i suoi baffetti fremevano al movimento delle
labbra “Non
ti ho mandato al college perché facessi la badante!”.
“A
parte che non vado a fare la badante …”
provai a difendermi, ma s’intromise anche mia madre nel
discorso e fu la fine.
Quella
mattina avevo stabilito di dare la favolosa (almeno per me) notizia che
mi
sarei trasferita a New York per iniziare il mio nuovo lavoro.
Erano
passate due settimane da quando avevo letto l’annuncio.
Avevo
preferito metterli subito davanti al fatto compiuto, in modo che, se mi
avessero vista convinta della mia scelta, forse si sarebbero persuasi
più
facilmente.
Il
mio piano, però, aveva fallito al primo attacco.
“Hai
idea di cosa penserà la gente?” chiese mia madre
come se fosse priorità
assoluta l’opinione
altrui “Diranno che
siamo dei morti di fame, che siamo costretti a mandare i nostri figli a
lavorare per portare a casa il pane!” concluse con un acuto
isterico.
“Mamma,
lo dicono già …” svelai.
Il
volto di Kate cambiò svariate volte colore, fino a fermarsi
su una bella
tonalità di violetto che s’intonava quasi con i
suoi abiti e i baffetti di
Milton tremolarono fino ad arricciarsi.
Non
avevo mai visto i miei genitori così su di giri.
“Io”
tuonò Milton “Non ho sborsato un sacco di soldi
…”, ma non lo lasciai
continuare.
Era
giunto il mio turno per arrabbiarmi.
“Basta!
Sempre parlare di soldi vuoi due! Quella lì che non pensa ad
altro se non a
farmi sposare con un riccone e tu così attaccato al denaro
che te lo porterai
nella tomba! Il nostro conto in banca diminuisce sempre più
e forse non sarebbe
male se qualcun altro guadagnasse qualcosa! Io non ho intenzione di
lasciare
gli studi, ma solo di prendermi una pausa. Non ho bisogno della vostra
benedizione, ritenevo solo giusto informarvi. Me ne vado con o senza il
vostro
consenso”.
Dopo
questo discorso mi resi conto che mi ero fatta un po’ troppo
prendere la mano.
Come minimo mia madre sarebbe svenuta di fronte alla ribellione della
figlia e
mio padre mi avrebbe preso il collo come una gallina da spennare.
La
reazione fu ben diversa: li osservai trattenere il fiato e restare
immobili
(sicura che stessero ponderando il modo migliore per uccidermi) e
cercai con lo
sguardo l’aiuto di Lucy.
Lei
fissava il pavimento ignorando palesemente il mio appello: voleva
restarne
fuori.
Viva
la solidarietà tra sorelle!
La
reazione dei miei fu tutto fuorché prevedibile: entrambi
concordarono con me. Avevo
sperato che approvassero la mia decisione, ma mi stupii quel
cambiamento
repentino di idee.
Perché
all’improvviso non si opponevano più al mio
trasferimento?
Era
forse una delle tattiche genitoriali, secondo la quale il mio piano mi
si
sarebbe ritorto contro e io sarei tornata a casa con la coda fra le
gambe,
dando ragione a loro?
Al
momento non ritenni importante sapere il motivo, mi bastava avere la
loro approvazione,
così me ne sarei andata con la coscienza un po’
più tranquilla.
Scattai
in camera mia a fare le valigie prima che il loro umore mutasse
ulteriormente.
Aprii gli armadi, posai il borsone sul letto e ci buttai dentro tutto
ciò che
reputavo necessario.
Aveva
già parlato con il padrone di casa, colui che aveva messo
l’annuncio, e gli ero
piaciuta subito; diceva che gli ero parsa una ragazza responsabile e
determinata, di carattere forte e intraprendente, qualità
che mi sarebbero
sicuramente servite per tenere a bada i suoi figli.
Non
avevo fatto molto caso a quell’affermazione; credevo fosse un
modo per fare il
simpatico.
Col
senno del poi compresi che era la pura e semplice verità.
Ma
all’inizio della mia prima esperienza lavorativa non avevo
messo in conto le
difficoltà che avrei trovato; dopo tutto dovevo solo fare la
babysitter: dove
stava il problema?
Chiusi
la cerniera dei miei bagagli e scesi in cucina a salutare Kate e
Milton. Sulle
prime temevo ci avessero ripensato, ma poi mi accorsi che la loro
espressione
cupa era dovuta solo al dispiacere per la mia partenza.
Mamma
mi saltò addosso sull’orlo delle lacrime e quasi
mi stritolò nel suo abbraccio;
anche papà mi abbracciò e mi sussurrò
“Fatti sentire ogni tanto, sai per tua
madre”.
In
realtà sapevo che ne aveva più bisogno lui: mia
mamma era attaccate a tutte
allo stesso modo, si sarebbe consolata con Lucy e Kiki;
papà, invece, aveva una
sorta di preferenza nei miei confronti. Ero la più ribelle,
testarda e
somigliavo a lui da giovane.
Li
salutai ancora una volta prima di uscire in attesa del taxi. Milton mi
aveva
aiutato a trascinare giù per le scale le valigie ed ora
erano accanto a me nel
vialetto davanti a casa.
La
porta alle mie spalle sbatté rumorosamente e io mi voltai:
Lucita mi stava venendo
incontro con un’espressione tutt’altro che felice.
“Ma
sei impazzita!” sbraitò “Butti tutto
all’aria per un po’ d’indipendenza? Non
puoi aspettare un annetto?! Ti mancano solo pochi esami e sarai
laureata e a
quel punto avrai tutta la libertà che vuoi. Che senso ha
andare via adesso?”.
“Lucy
io e te siamo diverse. Tu ami questa città, la gente che ci
vive, sai
perfettamente cosa farai del tuo futuro. Io no! Odio stare in un paese
dove
tutti criticano tutti, sparlano, spettegolano; questa è la
capitale
dell’ipocrisia. Io non ho la più pallida idea di
cosa sarà di me dopo la
laurea, mi capisci? Non so se ho scelto la strada giusta, non so
più niente e
questa opportunità di cambiare aria mi schiarirà
le idee”.
Lucy
mi guardò non troppo convinta.
“Fidati
di me per una volta, per favore” l’implorai.
Lei
sospirò “E non saluti nemmeno Kiki?” mi
chiese cercando di farmi crescere il
rimorso.
“Dalle
un bacio grosso da parte mia” risposi. Ormai ero ferma sulle
mie posizioni.
Le
schioccai due baci sulle guance e m’infilai sul taxi appena
arrivato prima che
Lucy con le sue perle di saggezza mi persuadesse a rinunciare al mio
piano.
Io
mi sistemai meglio sui sedili posteriori. L’aeroporto non era
molto lontano da
casa mia, in dieci minuti sarei stata lì.
Mi
venne la nausea a pensare al check in e a tutte le procedure di
sicurezza;
avrei passato più tempo in aeroporto che in aereo. Tanto
valeva ascoltare un
po’ di musica.
Imbarcai
i bagagli quasi senza accorgermene, passai sotto il metal-detector come
un
automa ed aspettai. Il viaggio durò poco e dormicchiai per
quasi tutto il
tempo. Mi ritrovai a New York in un batter d’occhio.
C’impiegai quasi venti
minuti per trovare un taxi libero. Tutti uscivano dal terminal correndo
come
matti e si accaparravano l’auto più vicina.
“Reginald
Boulevard 25” dissi all’autista e la macchina
partì. Non avevo mai visto
Manhattan in vita mia e ne restai affascinata. Era totalmente diversa
da San
Francisco. I grattaceli, gli alberi, le persone sfrecciavano davanti ai
miei
occhi velocemente adeguandosi al ritmo della città stessa.
New York era la
città che non si fermava mai.
La
casa nella quale avrei abitato, era un attico enorme in cima ad un
palazzo in
uno dei quartieri più eleganti ed esclusivi. Lì
le strade non erano intasate
dal traffico, ma anzi sembrava una zona molto tranquilla, immersa nel
verde e
nel silenzio.
Cercai
sul citofono il cognome: Peyton. Ero certa di averlo già
sentito dal qualche
parte, ma al momento non ricordavo dove e associato a chi.
Suonai
un paio di volte e il pesante uscio scattò. Mi venne
incontro il portiere che
con incredibile gentilezza si offrì di caricare le mie
valigie sull’ascensore.
La
porta di casa Peyton era aperta ed entrai piano chiedendo permesso.
Sgranai gli
occhi. Mi ci vollero un paio di secondi per riprendermi: quel salone
d’ingresso
era immenso.
Se
solo l’entrata era grande quasi come casa mia, cosa sarebbe
stato il resto?
A
distogliermi dai miei pensieri, fu una voce proveniente dalla stanza
adiacente;
mi diceva di raggiungerla. Io m’incamminai verso quella che
era sicuramente la
cucina.
“Lei
deve essere la signora Peyton” esclamai rivolta ad una donna
che mi dava le
spalle.
Si
voltò e mi gelò con il suo sguardo penetrante.
“No,
ma lo sarò presto. Sono Delia Gilbert, la compagna del
signor Byron Peyton”.
Più
che Delia, così d’impatto, la paragonai a Crudelia
Demon: era avvolta in una pesante pelliccia di visone e portava un paio
di
scarpe di vernice rossa, con un tacco che mi faceva venire le vertigini
solo ad
osservarlo. Aveva un caschetto platinato, rigido come lei e due occhi
piccoli
ma incredibilmente freddi ed inespressivi.
Mi
schiarii la voce e mi presentai “Piacere, sono Nalita
Occleve”.
“Assolutamente
no!” trillò lei alzandosi e facendomi cenno di
seguirla in un tour della casa.
“Il
tuo nome è da cambiare: i piccolini non riusciranno ad
impararlo e non mi pare
adatto ad una tata. Ne cercheremo uno più consono”.
Intanto
che la futura signora Peyton mi mostrava ogni angolo della casa, io
stringevo i
pugni lungo i fianchi per non strozzarla a mani nude.
Antipatica,
presuntuosa e prepotente, erano gli unici aggettivi che mi venivano in
mente.
“Mi
scusi, ma il padrone di casa dov’è?”
chiesi, forse con un po’ troppa foga dato
che mi lanciò un’occhiata che mi fece rabbrividire.
“Al
lavoro. Ha lasciato me per accoglierti. Ti assicuro che se tu sei qui,
è solo
per merito suo; io non ero per niente d’accordo: sono
convinta che per tenere a
bada i suoi figli ci voglia una persona esperta e quindi più
anziana, ma Byron
si è impuntato. Non chiedermi perché”.
Stavo
per risponderle per le rime, non era nella mia natura starmene zitta e
farmi
mettere i piedi in testa, ma poi ricordai le parole di Lucy quando mi
raccomandava di tenere a freno la lingua e mi trattenni. Se volevo
tenermi quel
lavoro, dovevo imparare a controllarmi.
Lasciò
per ultima la mia camera. Un buco in confronto alle altre stanze, ma mi
potevo
adattare. Dovevo immaginare che la babysitter non avrebbe avuto una
suite.
Era
carina comunque, ben arredata e il letto sembrava comodo.
“Ora
i ragazzi sono a scuola torneranno verso le cinque. Io esco, se hai dei
problemi chiedi al maggiordomo” poi mi tirò
addosso degli abiti puliti che
odoravano di ammorbidente “Questa è la
divisa” spiegò “E te lo devo proprio
dire:
non abituarti a questo lavoro; tra meno di un anno io mi
sposerò con il signor
Peyton e i ragazzi finiranno in collegio. La tua presenza qui
sarà
perfettamente inutile” poi sparì dietro la porta.
Ritornò
dopo pochissimi secondi per darmi il colpo finale “E scordati
Nalita; da oggi
in poi sarai Danielle”.
Tra
tutte le cose che mi erano state dette, l’ultima era la
più sopportabile: in
fondo io odiavo il mio nome e Crudelia
aveva trovato il modo di levarmi l’impiccio. Anche se un
po’ mi dispiaceva
vederlo eliminato così indegnamente.
Ringraziai
il cielo che quella donna se ne fosse andata, non potevo reggerlo un
minuto di
più. Era come essere finita in un film tipo “Nanny
McPhee” o “Tutti insieme
appassionatamente”.
Feci
un altro giro dell’appartamento; del maggiordomo non
c’era traccia. Forse era
uscito o forse era nascosto in qualche angolo a me ignoto per tenermi
d’occhio.
Girovagando,
mi ritrovai nello studio del signor Peyton. Mi soffermai sulle
fotografie che
affollavano la scrivania: cercai di contare quanti figli avesse il
padrone di
casa.
Mi
venne quasi un infarto: sei. Sperai che una buona parte fosse
già grande.
Il
campanello suonò. Mi voltai di scatto e mi accinsi ad andare
ad aprire, ma una
figura mi superò e corse alla porta. Avevo trovato il
maggiordomo.
Non
mi degnò comunque di uno sguardo. Raggiunsi anche io
l’entrata.
Tre
bambini si stavano togliendo i cappotti e appoggiavano le cartelle a
terra.
Li
studiai per bene; in fondo mi dovevo occupare di loro, era mio compito
conoscerli.
Quello
che doveva essere il più piccolo aveva un visino simpatico.
Capelli biondi,
occhi chiari e vispi. Gli mancavano un paio di denti davanti. Me ne
accorsi
quando mi vide e mi sorrise.
L’altro
maschietto era un po’ più grande, doveva avere
circa dieci anni. Assomigliava
molto al fratello, ma appariva più serio e composto. Sotto
braccio teneva la
custodia di un violino.
Con
impeccabile educazione mi si fece vicino e mi porse la mano
“Piacere, Edwin
Peyton; e quelli sono mio fratello Matthias e mia sorella Annette. Lei
è
sicuramente la tutrice”.
Rimasi
stupita da tali formalità. Avevo solo ventidue anni ed ero
la tata: non era
certo necessario che mi desse del lei. Glielo avrei detto
più tardi.
Spostai
la mia espressione sulla bambina; mi colpì subito la sua
bellezza: morbidi
capelli castani chiari divisi in boccoli, un nasino piccolo e occhi
circondati
da folte ciglia nere. Il colore era la caratteristica più
sorprendente: miele.
Dove
avevo già visto quegli occhi?
“Io
sono la tata, mi chiamo Nal – mi corressi subito –
Danielle”.
I
bambini mi salutarono e scapparono in un attimo nelle loro camere per
fare le
docce e mettersi più comodi in casa.
“Beh
sembrano simpatici” commentai.
Il
maggiordomo rispose con sarcasmo “Perché lei non
ha ancora conosciuto i più
grandi. Charlotte e Susan torneranno a momenti. Per il maggiore
dovrà aspettare
fino al week end; è a San Francisco a studiare”.
“Io
sono determinata, sono sicura che andrà tutto
bene” replicai “Comunque non mi
dia del Lei” e gli porsi la mano “Danielle
Occleve”.
Lui
la strinse con forza “Martin”. Non volle dirmi il
cognome ed io non insistetti.
Desideravo
porgli qualche domani sulla famiglia Peyton, ma il campanello
trillò
nuovamente.
L’entrata
in scena delle due ragazze questa volta non fu così
silenziosa come prima.
“Tu
sei soltanto una bambina! Perché diavolo sei venuta dai miei
amici?!” urlò una
ragazza, presumevo la più grande, gettando lo zaino sul
pavimento.
“Non
sono una bambina, ho quattordici anni! E poi mi hai lasciato sola in
macchina
per mezz’ora! Che dovevo fare, mettere le radici?”.
“Ti
avrò detto mille volte che quando sono in compagnia, tu non
ti devi avvicinare!
Fosse caduto un meteorite o quant’altro!”.
Non
potei nemmeno presentarmi. Entrambe corsero verso le proprie stanze
gridandosi
contro, mentre Martin le inseguiva per raccogliere cappotti, felpe e
tutto ciò
che facevano cadere.
E
il campanello suonò ancora; ebbi paura di quello che potevo
trovare dietro la
porta.
Era
Delia, tornata evidentemente dallo shopping per tutte le borse che
aveva in
mano.
Non
mi salutò nemmeno “Dov’è
Martin?”.
“Con
Charlotte e Susan”. Pregai di non aver sbagliato i nomi.
“Ah!”
esclamò “E non dovrebbe essere compito tuo
occuparti dei ragazzi?”
mi tirò addosso la pelliccia e mi disse di
appenderla “E mettiti la divisa” aggiunse.
Ero
finita in una gabbia di matti.
Passai
le prime due settimane ad ambientarmi e ad analizzare i Peyton. Il
signor Byron
era un tipo piacevole, dalla battuta facile, dotato di grande umorismo,
tutto
il contrario insomma di quella scopa che si era scelto come fidanzata.
Annette
era una bambina molto perspicace che per alcuni aspetti mi ricordava
Lucita.
Era la più coccolata di casa, ma non era viziata, anzi nei
suoi discorsi
risultava molto umile e semplice. Edwin era stato più
complicato: era sempre
così impettito e posato; non sembrava nemmeno avere dieci
anni. Riuscii a
conquistarmi la sua simpatia accompagnandolo con il pianoforte nei suoi
esercizi di violino.
Con
Matthias non c’era stato invece alcun problema: mi adorava.
Mi seguiva ovunque
andassi, mi dava retta senza mai obiettare; era un angelo.
Non
mi era, al contrario, per nulla facile farmi accettare da Susan e
Charlotte.
La
prima solamente m’ignorava: se ne stava per lo più
chiusa nella sua stanza e se
mi doveva rivolgere la parola, stava bene attenta a mantenere un certo
distacco.
La
seconda mi metteva spesso in serie difficoltà. Solitamente
non m’istigava, ma
se io provavo a stabilire una conversazione, lei mi rispondeva con
superiorità
ed arroganza.
Non
capivo perché ce l’avesse così con me:
forse credeva che fossi una specie di
sostituta di sua madre, ma a quel punto sarebbe stato più
sensato prendersela
con Crudelia.
Il
secondo giorno di lavoro avevo conosciuto il migliore amico di
Charlotte: Sean
Hopkins.
Era
un ragazzo brillante, con il pallino per il golf. Mamma sosteneva che
non
poteva esserci amicizia tra una ragazza e un ragazzo; più
osservavo quei due,
più mi trovavo a darle ragione.
Sean
aveva i capelli neri, lasciati un po’ lunghi e gli occhi
azzurri; era l’idolo
delle ragazze al liceo e mi rendevo conto che per Charlotte non fosse
semplice
essere amica di un donnaiolo del genere.
Ormai
mi ero abituata a vederlo gironzolare per casa come uno di famiglia.
Una
delle mie tante mansioni era preparare la colazione per tutti. Stavo
scaldando
il latte per i più piccoli, quando Delia entrò
reclamando il suo caffè.
Ovviamente
l’avevo già preparato ed era sul tavolo in bella
vista pronto per essere
bevuto, ma quella donna provava uno strano piacere a farmi diventare
matta.
“E’
sul tavolo” risposi mentre versavo il latte nelle tazze degli
altri.
“E
che ci fa sul tavolo?” mi chiese.
“Di
solito dov’è che si fa colazione?”
ribattei con sarcasmo. Mi maledii appena mi
accorsi di quello che avevo fatto; era inutile, non riuscivo proprio a
farmi
trattare così.
Per
fortuna quella mattina, la pazza sclerotica era di buon umore e mi
ignorò.
Arrivarono in cucina anche Charlotte e Susan. Mi voltai verso di loro
con un sorriso
a trentadue denti.
“Ho
cucinato le frittelle, le volete?”.
Susan
sembrava tentata di assaggiarle, ma Delia la bacchettò
duramente appena la
ragazza allungò la mano “Non vorrai mangiare
quelle cose piene di grassi?”.
Susan
non poté nemmeno ribattere, poiché
s’intromise anche la sorella maggiore “Delia
ha ragione! Devi stare attenta alla linea”.
Charlotte
normalmente non era mai d’accordo con Delia, anzi tendeva a
darle contro ogni
qualvolta ne aveva l’occasione; solo su due cose quelle due
erano in perfetta
sintonia: tutto ciò riguardasse l’aspetto
esteriore e prendersela con me. Ero
il loro capro espiatorio; quindi non mi sorprese che le avesse dato
ragione.
“Se
posso permettermi” dissi “Susan ha solo quattordici
anni e deve crescere; non
può tirare avanti a carote crude e tofu … come
nessun altro dei ragazzi”.
Delia
assunse un’aria supponente “In questa casa si
mangiano solo cibi sani”.
“Giusto.
Ma se ogni tanto si trasgredisce non cade il mondo. Io l’ho
sempre fatto”.
La
donna alzò le sopracciglia “Appunto”
prese la borsetta e mandò tutti a scuola.
Io
rimasi con le frittelle ancora in mano. Mi aveva forse dato della
ragazza
grassa? Io non ero affatto grassa. Ero magra, nel mio perfetto peso
forma. Non
avevo mai sentito nessuno dire che avevo qualche chilo di troppo, anche
perché
la mia corporatura era talmente minuta che era impossibile affermare il
contrario.
Eppure
Delia aveva detto che ero grassa, senza nasconderlo più di
tanto per altro.
Io
non ero grassa! Io ero magra, non anoressica,
magra! Giusta per la mia statura. Se per quella donna essere
magra
significava assomigliare ad uno scheletro, allora sì: ero
decisamente in carne!
E ne ero fierissima.
Quel
giorno conobbi un’amica di famiglia del signor Byron. Si
presentò a casa
proprio quando madame Demon stava
uscendo. S’incontrarono sulla porta e così
d’impatto credevo stessero per
ammazzarsi a suon di borsettate.
La
signora sconosciuta aveva dei lucenti capelli color mogano, lunghi e
liscissimi, quasi quanto i miei, e occhi verdi-azzurri. Era elegante e
fine;
nonostante qualche ruga intorno agli occhi era una bella donna e
soprattutto
non era assomigliava ad un appendiabiti da tanto era secca.
Aveva
delle bella forme fasciate perfettamente dall’abito.
“Giselle”
salutò
freddamente Delia.
“Ciao
Delia; tesoro ogni giorno che
passa
diventi sempre più magra” rispose
quell’altra.
Crudelia
sorrise osservando il suo figurino, senza cogliere il tono sarcastico
di
Giselle che voleva solo farle notare quanto apparisse appuntita e
spigolosa.
“Che
ci fai qui?” chiese.
“Sono
venuta a prendere Byron … ricordi che lavoriamo insieme,
vero?”.
Io
mi appoggiai al muro spiando le due donne, soddisfatta che qualcuno
tenesse
testa a Delia senza cadere nel terrore.
Delia
sbuffò spazientita e uscì superando Giselle che
se la stava ridendo sotto i
baffi.
Sopraggiunse
all’entrata anche il signor Peyton, vestito di tutto punto
pronto per andare al
lavoro. Afferrò il cappotto appeso
all’attaccapanni e lo indossò.
“Oh
Danielle!” esclamò vedendomi “Non ti ho
ancora presentato la mia socia, vero?”.
Scossi
la testa. La donna si avvicinò e con un gran sorriso mi
porse la mano.
“Giselle
Ripley, tu devi essere la nuova tata”.
“Esatto
… Danielle Occleve”.
Sembrava
simpatica e affabile. Non potemmo dirci altro, perché
Annette si gettò
letteralmente tra le braccia di Giselle stringendola forte.
Anche
gli altri ragazzi l’accolsero amabilmente, Charlotte
compresa. Non l’avevo mai
vista comportarsi in quel modo con qualcuno e la cosa mi fece molto
piacere.
Significava
che non era una stronza assurda
con
tutti e forse anch’io prima o poi le sarei andata a genio.
Successivamente
Martin mi raccontò che la signorina Ripley era amica di
Byron, avevano
frequentato lo stesso college e avevano fondato un’azienda
che era la fonte di
tutta la loro fortuna. Giselle frequentava casa Peyton da sempre, anche
da
prima che la moglie, con la quale aveva stretto un ottimo rapporto, di
Byron
morisse e i ragazzi la conoscevano fin da quando erano nati e la
consideravano
come una seconda madre.
Così
mi spiegai quella favolosa confidenza e intesa che si era instaurata
tra
Giselle e i figli del suo socio in affari. Avevo inoltre capito come
mai Delia
non la potesse sopportare: non doveva renderla molto contenta il fatto
che il
suo quasi marito stesse tutto il giorno con una donna di indiscutibile
fascino
ed eleganza.
La
casa si svuotò in fretta. Non ero abituata a tutto quel
silenzio, mi metteva a
disagio, così di solito uscivo a visitare la
città. New York era enorme e mi
offriva infinite passatempi: il primo fra tutti guardare le vetrine.
Dato che
con me non avevo portato molti soldi, non potevo far altro che
limitarmi a
fissare i capi di abbigliamento esposti nei negozi.
Quel
giorno, però, rimasi in casa. Era un venerdì e
Delia mi aveva riempito di
faccende in vista dell’imminente arrivo del figlio maggiore
del signor Byron.
Lessi
tutte le istruzione che Crudelia mi aveva segnato su un foglio:
1)
Fai
il letto di tutti i ragazzi.
2)
Dai
una sistemata alle loro camere
3)
Vai
nella sua
( sua stava per “la camera del
figlio più
grande; da quando ero lì non avevo ancora sentito il suo
nome) e puliscila a
fondo
4)
Lava
il pavimento del suo bagno
5)
Aiuta
Martin a preparare la cena di
stasera
Richiusi
il foglio e maledii mentalmente quell’arpia di una donna. Non
le bastava
trattarmi come una pezza da piedi!
Era
normale che mi facesse svolgere mansioni non proprio pertinenti con il
mio
ruolo di babysitter: riteneva infatti che, mentre non mi occupavo dei
ragazzi,
fosse uno spreco che me ne stessi con le mani in mano a non fare niente.
Mi
rimboccai le maniche e completai i primi quattro punti della lista.
Alla fine
del mio lavoro la casa risplendeva.
Martin
tornò verso l’una, ma non si fermò
più di un’ora: giusto il tempo di farmi
qualcosa da magiare, dato che ero una vera inetta in cucina, e
riuscì per
alcune commissioni per la strega.
Ed
io mi ritrovai di nuovo nel silenzio.
Controllai
l’ora: erano le due e mezza. Edwin aveva lezione di violino,
Annette di canto;
Matthias cominciava a destreggiarsi con il calcio, invece Charlotte
aveva un
impegno con le cheerleader o qualcosa del genere e Susan probabilmente
l’aveva
seguita cercando disperatamente di entrare nel gruppo, che tanto
agognava,
della sorella.
Il
venerdì era il giorno peggiore per me, come il
lunedì: nessuno rientrava prima
delle cinque ed io ero costretta a starmene da sola e senza qualcuno
che mi
tenesse compagnia e mi distraesse, ero perseguitata dai sensi di colpa
per aver
lasciato la mia famiglia.
Sola
e senza nessuno che mi controllasse, pensai di approfittarne per fare
un bagno
caldo e godermi un po’ di pace.
Crudelia
aveva una vasca stupenda nel suo bagno personale: come poteva non
tentarmi
l’idea di andarci?
M’immersi
nell’acqua bollente, piena di bollicine e poggiai la testa
sul bordo. Era tutto
perfetto, mancava solamente un po’ di musica, ma per il
momento potevo anche
accontentarmi.
A
malincuore fui costretta ad abbandonare quel relax e a ripulire tutto
prima del
ritorno di Delia: se mi avesse scoperta nella sua vasca, mi ci avrebbe
affogata.
Mi
avvolsi nell’asciugamano e strizzai i capelli; e
lì udì un rumore che mi gelò
il sangue: qualcuno stava entrando in casa.
Era
sicuramente Delia!
Non
mi feci prendere dal panico, aprii piano la porta e sbirciai fuori: non
c’era
nessuno; il qualcuno probabilmente era ancora all’ingresso.
La
mia camera non era lontana, bastava passare per il corridoio di fronte
e si
arrivava subito nell’ala dell’attico riservata alla
“servitù”, ovvero io e
Martin.
Sì,
ce la potevo fare e Delia non mi avrebbe mai scoperto. Richiusi piano
la porta
alle mie spalle, scattai verso il corridoio, lo attraversai e svoltai
l’angolo.
Purtroppo
non avevo calcolato il tappeto dell’anticamera e ovviamente
slittò facendomi
scivolare. Al confronto Bella Swan era un trionfo di grazia ed
equilibrio.
“E
questo cos’è? Il regalo di bentornato?”.
^^^^^^^^^
Eheh
che dire? Sono decisamente in ritardo con tutti i miei aggiornamenti e non so se
potrò mai postare i capitoli con
regolarità. Ma questo era pronto da un po’ e ho
pensato di caricarlo.
Fatemi
sapere che ne pensate, i vostri commenti e anche le vostre critiche mi
stimoleranno sicuramente a mettermi al lavoro e scrivere ;)
Grazie!