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Autore: Emily Doe    29/10/2005    23 recensioni
I tempi di Hogwarts per i nostri eroi sono terminati, la guerra infuria ed un particolare incontro tra Hermione e qualcuno che non vedeva da molto, molto tempo, potrebbe cambiare le sorti di tutti. Perché nessuno ha mai capito... e non potrà mai esserci qualcosa di più difficile.
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Draco/Hermione, Harry/Ginny, Ron/Hermione
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Altro contesto
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Capitolo 10° “Perdere la presa”

Could it be any harder?

Se il suo tocco aveva la proprietà di perpetuare la sua delicata e viva fermezza per ore ed ore – anche giorni – su di lei ed in lei, il suo abbraccio le mozzava letteralmente il respiro. Forse era il fatto che la stava stringendo forte, quasi con disperazione, forse era proprio quell’essere appena lucidamente conscia dell’esigenza vertiginosa che quell’abbraccio poteva significare per lui, forse era anche il fatto che probabilmente tale significato affettivo – e non solo – quel gesto lo aveva anche per lei, forse si trattava di un misto di tutte queste cose a far sì che Hermione sentisse un doloroso nodo alla gola che le impediva di inghiottire – la sua bocca, comunque, era troppo asciutta perché potesse farlo -, che le impediva di formulare verbo, che le impediva quasi di respirare. Una mano ancora stretta in quella incredibilmente gelida del ragazzo, la fronte premuta contro il suo torace, un po’ più in basso delle spalle, avvertiva con un brivido di emozione il respiro di lui – forse per la prima volta accelerato, rotto dall’emozione, quasi affaticato, proprio come se anche lui stentasse a ricavare ossigeno dall’ambiente circostante – infrangersi sul suo collo, solleticandole la pelle. Perlomeno, in quell’occasione, non era solo il suo cuore a lanciarsi in una sconclusionata corsa verso l’infinito: quello del ragazzo, a quanto pareva, le avrebbe fatto compagnia. Lo sentiva battere furiosamente, con prepotente decisione, con cupo rimbombo, così forte che – ne era sicura: l’aveva sperimentato tante volte su se stessa – faceva male.
Con la mano libera – forse guidata dal suo infallibile istinto, dato che il cervello sembrava aver deciso di andarsene in vacanza per un po’ in quel luogo dove le emozioni possono tutto, dove le emozioni sono tutto – prese la sottile bacchetta magica, pronunciò qualche leggera parola – sperava solo di aver utilizzato quelle giuste, dato che non solo la testa, ma anche il senso dell’udito era avvolto da una cortina fumosa, ovattata, sleale nell’insinuarsi in lei nei momenti meno opportuni. Quella che comunemente viene detta confusione totale -. Soltanto quando ebbe la certezza che il vento non le sferzasse più i polpacci nudi ed indolenziti, soltanto quando ebbe il remoto sentore dello stesso vento che, infuriato per aver perduto le proprie prede, fischiava, sibilava sinistro all’esterno di una costruzione, lasciò cadere in terra il sottile bastoncino che produsse appena un tic acuto e che decise di rotolare più in là, lasciandoli soli, andando a fermarsi contro l’orlo consunto di un tappeto che da troppo tempo non prendeva più aria.
Strinse poi nel pugno la felpa del ragazzo – quella stessa felpa che gli aveva sfilato a forza qualche tempo prima nel tentativo di controllare la sua ferita – schiacciandosi quanto più possibile contro di lui. Lui che, come lei, sembrava sull’orlo dell’asfissia, per il terribile bisogno di quel contatto.
Dio, ti prego, fallo respirare!
Farlo respirare. Respirare veramente, per la prima volta in diciannove lunghi anni.
Per tutta risposta la stretta attorno alla sua mano si allentò, le dita fredde di lui si intrecciarono a quelle sottili e delicate di lei.
Per favore… per favore…
… quella richiesta posta con tale voce, quella disperazione, quella rassegnazione che gli aveva letto negli occhi… era stato tutto come il giorno in cui l’aveva salvata da quel maniaco, al parco. Era stato come una stilettata al cuore: breve, impercettibile all’inizio, sconvolgente quando ti rendi conto di quanto quella apparentemente piccola ferita sappia trascinarti con sé fino alla morte, fino a quando non ti senti svuotato di qualsiasi cosa.
… prendimi per mano.
“C’è sempre qualcuno pronto a prendere la tua mano… basta che tu la tenda.” sussurrò senza curarsi di star bagnando la felpa di lui con le proprie lacrime, senza essersi neppure accorta che – chissà come – Draco non indossava più il suo mantello, che ora era sulle spalle di Hermione. “Io non ti lascio.”
Lo sentì voltare il viso e chinarlo contro la propria pelle, nascondendolo nell’incavo tra il collo e la spalla, tremante. La schiena di Hermione si irrigidì a quel contatto, un fremito sulla pelle e su per la schiena, la sensazione di improvvisa debolezza nelle gambe; lei socchiuse gli occhi espirando piano piano quell’ansia che le aveva congelato tutto dall’interno. Senza più parole per la sorpresa di tale singolare reazione e per la girandola di sentimenti che si agitava freneticamente in lei, donandole l’indesiderato senso di ansia e di confusione, lasciò che la sua mano scivolasse con delicatezza fino alla nuca di lui e lo accarezzò con dolcezza, con quella dolcezza di cui lui non aveva mai – o quasi – potuto godere.
Dietro le sue palpebre chiuse poteva vedere quasi a portata di mano quel globo argenteo, quella verità che seguitava a sfuggirle, ogni volta. Era così luminoso, così misterioso… allungò mentalmente la mano intrecciata a quella di Draco verso quell’essenza ingannevole e fuggiasca.
Per la prima volta il globo non sgusciò via, non subito. Con le lacrime impigliate tra le lunghe ciglia nere, Hermione poté avvertirne il calore tra le dita. Qualche secondo dopo, l’argentea sfera svanì lentamente con un tintinnare leggiadro: l’unica cosa che Hermione teneva ancora nella mano era il calore di quella del ragazzo, non più gelida.
Inconsciamente sorrise; prima o poi quel momento sarebbe arrivato. Non ora. Era ancora troppo presto.
Draco alzò delicatamente il viso fissandola con quei suoi occhi di ghiaccio, bruciante per quanto sa essere gelido, e le cancellò le lacrime dalle guance, osservando i piccoli, puri, lucenti diamanti incastonati tra le ciglia di lei.
Lui, dopo tanti anni, aveva versato un’unica lacrima. Ma le altre erano quelle che Hermione aveva pianto per lui.
“Grazie per aver pianto al posto mio.” mormorò con voce vellutata.

*** *** ***

Could it be any harder?

Evitare di fissarlo negli occhi ed attenuare così quell’asfissiante sensazione d’ansia e preoccupazione sarebbe stata una buona, anzi, ottima idea. Se solo ci fosse riuscita. Con un misto di rabbia e disperazione, si accorse di non poter distogliere lo sguardo da quegli occhi verdi, puri, che mai aveva visto più decisi. Mai. Si sentiva come se tutto il sangue del suo corpo le fosse affluito al cervello, sovraccaricandolo ed ottenendo due risultati – l’uno più spiacevole dell’altro: per prima cosa aveva il fastidioso, irritante sentore di essere arrossita – ancora -, in secondo luogo questo non poteva darle noia più di tanto, perché le sinapsi del suo amato cervello sembravano essersi definitivamente scollegate. In poche parole, Ginevra Weasley, un’allegra e dolce ragazza di diciott’anni, aveva prematuramente – e, sperava, momentaneamente – perduto la capacità di ragionare con lucidità.
Sei una stupida,si disse distrattamente, naufragando irrimediabilmente negli occhi di Harry. dovresti esserci abituata. È stato così… è sempre stato così. Da sempre.
Da quando eravate così piccoli che... Da quando ti ha guardata per la prima, dolcissima volta, con quel viso da bambino.

Il ragazzo era rimasto in silenzio ad osservarla, sulla sua guancia guizzava, ogni tanto, un muscolo; sembrava estremamente concentrato, come se stesse raccogliendo il coraggio e la decisione necessari per attuare tale delicata manovra: dire tutto. Aprire la bocca, vuotare quel sacco vecchio di anni ed anni, ormai saturo, colmo fino all’orlo di sentimenti, di pensieri, di sensazioni, di emozioni che non potevano più essere taciute. Altrimenti sarebbe scoppiato. Ed inconsciamente, lo sapeva, avrebbe fatto del male anche a Ginny; questo, di certo, non poteva permetterselo. Ginny aveva il sacrosanto diritto di sapere la verità, di sapere tutto; l’aveva ferita a sufficienza da piccola, quando non si era reso conto della sua cotta o aveva preferito ignorarla – maledetta sensazione di insicurezza, maledizione al suo timore di non essere in grado di proteggerla! -, l’aveva ferita a sufficienza quando le aveva comunicato che lui, suo fratello e la sua migliore amica l’avrebbero lasciata sola per andare a vivere nella Londra Babbana, rischiando la vita ogni giorno per combattere quella che, amaramente, appariva da ogni angolazione una lotta disperata dalle esigue probabilità di vittoria, lasciandola indifesa, senza neppure Hogwarts a confortarla – era stata di fatti chiusa poco dopo il sesto anno di Ginny, per un inspiegabile attacco subito da parte dei nemici. L’aveva ferita oltremodo – e mai se lo sarebbe perdonato – nascondendole la verità. Non una verità qualsiasi, una verità che riguardava proprio lei. Ginny in quanto Ginny. Ma che la collegava a lui. Ed era, ancora una volta, tutta colpa sua.
“Scusami.”
La voce vibrante di Harry le giunse come disturbata da un rumore sordo e continuo – il sangue che le pulsava nelle tempie.
Spiazzata, Ginny tacque.
Il giovane distolse per un breve istante lo sguardo, stringendo il pugno sopra il proprio ginocchio. Lei osservò con rapita assenza – solo apparente – anche quel piccolo gesto, come le nocche di Harry sbiancassero ed il sangue defluisse rapidamente ad altre zone delle dita.
Dentro di sé sapeva cosa stava per succedere. Avete presente quando nel vostro cuore avvertite una strana ansia, una sensazione particolare che vi rende sicuri di sapere con certezza quasi assoluta ciò che sta per accadere? Bene. Solo che Ginny non voleva ammetterlo neppure con se stessa. Dopo tanti anni di attesa soffocata, dopo tanto tempo di lacrime ed amori che si potrebbe definire superficiali, mirati allo scopo di dimenticarlo, dopo tutto quel tempo – poteva avvertirne la pesantezza sulle proprie ormai fragili spalle, ogni anno, ogni mese, ogni settimana, ogni giorno…-, inaspettatamente, la situazione aveva preso quella piega. E lei non era pronta. Era ignobilmente impreparata.
Non voleva che si trattasse di un’ulteriore illusione, non voleva trovarsi poi cosparsa di scottante amarezza nella dura consapevolezza di aver inutilmente sperato, semplicemente sperato, stupidamente sperato che qualcosa potesse cambiare, come troppe volte era stato.
Scosse con decisione il capo, i lisci e lunghi capelli rossi le scivolarono giù dalle spalle, dondolando un poco; decise di ignorare quel campanello d’allarme che sembrava trillare acutamente dentro di lei – chissà dove – e che la induceva a notare la diversità di tale situazione. Harry era cresciuto, era maturato, era diventato un giovane uomo. Le sue parole sembravano ferme e decise, così come la sua voce, i suoi occhi. Non avrebbe mai, mai saputo spiegare cosa fosse a trasmetterle quell’idea, ma qualcosa nell’aria tra loro le faceva captare tanti piccoli segnali, le faceva formulare nella mente quattro semplici, agognate parole: è arrivato il momento.
Adesso poteva sentirsi schiacciata da ogni ora, ogni minuto, ogni secondo di tutto quel tempo in cui aveva scioccamente sperato, pur sapendo di non avere alcuna speranza – lui era troppo, per lei.
E’ arrivato il momento? È arrivato il momento…
Non seppe mai – o forse le venne detto solo in seguito – della luce implorante, spaesata dei suoi occhi, mentre tornava a fondere il proprio sguardo con quello del ragazzo che le stava di fronte.
“Scusami,” ripeté lentamente Harry, scandendo bene ogni misera lettera. “scusami per tutto.” disse. Le palpebre di Ginny presero a tremare, così come le sue mani, piccole, delicate, infreddolite. “Scusami per non aver mai capito. Scusami per averti lasciata sola. Scusami per non essere riuscito a starti vicino. Scusami per non averti detto prima la realtà delle cose, nonostante ti toccasse in prima persona.” qui si fermò: con una sorpresa resa vaga dal furioso agitarsi di quell’unico, grande sentimento, si rese conto che ormai non aveva più paura, non aveva più timore. Il suo sguardo si addolcì improvvisamente, così come il tono della sua voce e la sua postura, mentre sul viso gli andò a sbocciare come un fiore un sorriso dalla struggente, malinconica dolcezza. “Scusami per non essere l’uomo che meriteresti di avere accanto.”
E’ arrivato.
Ormai era una certezza dalla forza devastante.
Ginny perse anche la facoltà di respirare, ma acquisì la certezza che dopo quel colpo il suo cervello – vogliamo parlare forse del suo cuore? - non avrebbe mai più ripreso a funzionare normalmente.

*** *** ***

Could it be any harder?

Vide il suo riflesso sul vetro semi appannato della finestra, lo vide sorridere con amarezza, con una certa nota di auto ironia, auto disprezzo; lo vide socchiudere gli infiniti occhi grigi ed osservare un orizzonte lontano lontano, impossibile da vedere ad occhio nudo a causa della nebbia, del vento, della neve. Respinse a stento l’impulso di poggiargli una mano sul braccio, delicatamente, per sapere, attraverso quel contatto solo apparentemente superficiale, se lui era ancora lì, se era ancora lì con lei… perché i suoi occhi sembravano immersi in un’altra dimensione, la dimensione dei ricordi, una dimensione di orrori.
“Che cosa si può immaginare di più ridicolo di questa creatura miserabile e meschina che non è neppure padrona di sé, esposta alle offese di tutte le cose, che si dice padrona e signora dell’universo, ma che non ha la facoltà di conoscere neppure la minima parte di esso e tanto meno di comandarla?”
La voce bassa, un po’ roca, del ragazzo si diffuse con chiarezza nell’ambiente, spegnendosi pochi secondi dopo, ma continuando a risuonare vivida come non mai nella mente di Hermione.
“Montaigne.” rispose semplicemente lei. “Questa è la visione dell’uomo da parte di quel filosofo Babbano francese, Montaigne.”
Draco rimase in silenzio, un sorriso amaro sul viso.
Era tutto tremendamente vero.
Sapeva che lei, la geniale Hermione Granger avrebbe subito capito.
L’uomo da sempre si era proclamato padrone e signore dell’universo, quando sin dall’alba dei tempi era bastata una semplice epidemia, un’inondazione per ucciderlo violentemente. Qualsiasi piccola – oltre che grande - cosa del creato poteva costituire per lui un pericolo. Ma più che altro, l’uomo era un pericolo per se stesso. ‘Homo homini lupus’, avrebbe detto Hobbes – filosofo inglese vissuto tra il Cinquecento ed il Seicento.
Possibile che nessuno avesse mai capito?

“Non sapevo avessi studiato filosofia.” la voce di Hermione, piccola e timida, faceva capolino, con dolcezza, nella mente del ragazzo.
“Interesse personale.” replicò lui, voltandosi a guardarla.
Possibile che tutti si ostinassero a non capire? A non capire che il più grande pericolo per l’uomo è l’uomo stesso? Chi altro poteva aver causato tutto quel dolore? Sia in grande che nel piccolo. L’esempio lampante era proprio lui, erano proprio...
...
... loro due.
Loro due da soli e loro due insieme.
...
Loro due. Insieme.

Peccato. Colpa.
Co-cosa mi succede?
“Sei cinico.” disse semplicemente Hermione, battendo lentamente le palpebre.
“Lo so.” ammise tranquillamente il ragazzo, in risposta.
“Tuttavia hai tralasciato un punto di fondamentale importanza.” sussurrò lei, osservandosi brevemente le piccole, candide mani per poi tornare con i propri caldi occhi fissi in quelli non più gelidi di lui. “L’uomo è grande poiché si riconosce miserabile.” Draco abbozzò un sorriso quasi divertito alla pungente osservazione di lei. “Si è quindi miserabili perché ci si riconosce miserabili, ma è essere grandi il riconoscersi miserabili.” lui le si avvicinò di un passo, Hermione abbassò lo sguardo. “Non dovresti dimenticarlo…”
Avvertì un movimento alla propria sinistra ed intravide solo l’ombra della mano del ragazzo avvicinarsi alla sua fronte e scostarle, in un gesto quasi inconscio, un ciuffo di capelli che le era scivolato davanti agli occhi.
“Blaise Pascal.” constatò lui, colpito dalla citazione del famoso filosofo francese. “Sarà davvero un pregio il saper riconoscere il fango che ci contamina da sempre? La nostra colpa?” le chiese lui quasi in un sussurro.
La ragazza teneva lo sguardo basso per paura che, sollevandolo, non sarebbe – nuovamente – più riuscita a spezzare il legame visivo con quegli occhi dalle sfumature di pura madreperla, appena visibili nel grigio avvolgente.
“Saper riconoscere i propri errori è il punto di partenza per chiunque. Io e te…” il ragazzo era vicinissimo a lei, poteva sentirne il respiro lento e controllato sulla fronte. “Io e te abbiamo iniziato proprio da lì.”
Non perdere mai la speranza.
“Hai ragione.” ammise improvvisamente lui con voce lineare; Hermione lo osservò, stupefatta da tale ammissione di errore. “Per questo ti chiedo scusa. Scusa per averti offesa quando eravamo a Hogwarts, scusa per averti attaccata senza motivo. Posso dire solamente questo: riconosco il mio errore e ti chiedo scusa. Sii ne lusingata, è la prima volta che mi scuso con qualcuno.”
Lei sorrise.
“Ne sono oltremodo onorata.”
Il silenzio ovattato sembrò avvolgerli, le dita leggere di Draco andarono a sfiorare lievemente le labbra della ragazza, Hermione socchiuse inconsapevolmente gli occhi, con il cuore che le palpitava frenetico nel petto, sbattendo impazzito contro le costole doloranti per il freddo e la corsa come un uccellino in gabbia, un uccellino che brama la libertà più di qualsiasi altra cosa e che, seguendo il proprio cuore, quel desiderio impresso a vita nel suo leggero animo di animale semplice e piccolo, si lancia incontro al dolore, incontro alla morte per sfinimento, si lancia verso qualcosa che, lo sa, gli è impossibile raggiungere... ma lui si ostina a battere il capo sulle sbarre, a cadere a terra, a riprovare. Due dita pallide e sicure le carezzarono il labbro inferiore, Hermione dischiuse gli occhi giusto quel minimo per osservare la pelle del suo collo, candido, palpitare lievemente per opera del sangue pompato nelle vene, sollevarsi appena appena e tornare alle dimensioni originarie seguendo ogni suo singolo respiro; improvvisamente, però, lui si voltò e si diresse di nuovo alla finestra.
Non posso.
“Draco…” mormorò inconsciamente, quella domanda che le premeva sulle labbra dall’interno, da quando tutto era cominciato, da quando quello era successo…
“Ti ascolto.” la voce controllata, gli occhi quasi socchiusi mentre la osservava. La pelle candida, perfetta, macchiata dall’ombra di quello che doveva essere stato sangue. Tanto, tanto sangue. E non solo quello versato da lui stesso – la stessa Hermione aveva provvidenzialmente rimediato con un incantesimo al suo naso rotto.
“Draco,” ripeté lei in un insicuro sussurro, un brivido lungo la colonna vertebrale al ricordo di quel bacio intorpidito dall’incantesimo della sera prima.
Vorrei. Lo vorrei disperatamente, disperatamente come l’aria...
“Intendi parlare dell’altra sera.” pura constatazione della sua voce, bassa e stranamente piatta in quel momento.
... ma non posso. Non voglio che qualcun altro soffra a causa mia... esclusivamente mia...
Hermione rimase in silenzio, limitandosi ad un semplice, breve cenno del capo. I capelli bagnati gocciavano lentamente in terra, un rumore costante, sordo, sul parquet consumato della vecchia baita. Plic... plic... plic...
E… e adesso?

Con un brivido freddo saettante per la sua spina dorsale, vide il ragazzo adombrarsi improvvisamente, perdere quella momentanea serenità – o quasi – che sembrava aver acquisito nel corso di quel dialogo. I suoi occhi di un grigio cristallino scintillavano ombrosi dietro le ciglia scure, come a volersi proteggere da qualcosa o da qualcuno. Le labbra si irrigidirono, in un gesto decisamente forzato. Si voltò di poco, e disse senza alcuna espressione:
“Dimenticalo.”
Fu come se avesse ricevuto un pungo in pieno stomaco: Hermione si sentì improvvisamente pesante, troppo pesante per le sue gambe, che cominciavano a tremare – ora leggermente, col passare dei secondi, ne era certa, il tremore sarebbe aumentato – sotto quel peso abnorme che sembrava esserle caduto improvvisamente sulle spalle, troppo esili per sorreggerlo. Deglutì a vuoto.
“Dimenticalo, Granger.”
Non posso. Non posso permettermelo.
“Dimenticalo e basta.”
Non posso permettermi di amare. Non più.
“Be… bene.” rispose lei, cercando di non dar mostra di quell’assurdo sentimento che l’aveva penetrata e la stava lentamente conducendo sull’orlo delle lacrime.
Te lo saresti dovuto aspettare, Hermione! Si gridò mentalmente. Avresti dovuto immaginarlo, era tutto così… strano, diverso… è tutto troppo difficile per due come noi…
Lo sapeva, l’aveva sempre saputo… eppure com’era che sentiva un bruciore assurdo lacerarle l’anima ed il cuore? Com’era che le lacrime, amare, premevano per uscire allo scoperto, lontano dagli occhi castani, scivolare sulle guance arrossate dal freddo di quella disperata fuga, lanciarsi in una folle corsa lungo il suo pallido collo e morire soffocate dalla stoffa del mantello che indossava?
Il mantello di Draco, che lei stava indossando, per la precisione.
Perdonami, Hermione, probabilmente non puoi capire… non puoi capire che per due come noi…
“A-allora io… vado. E… ci vediamo.” balbettava, maledicendosi per tutto, per le stupidaggini che andava mormorando, per quell’incertezza, per quel dolore che aveva afferrato lei, nolente, per essersi inconsciamente illusa, per essersi lasciata trasportare a largo da quelle onde, troppo grandi per lei, fatte di pure emozioni
… che per due come noi, a causa degli altri, a causa del mondo, a causa delle nostre stesse paure… l’amore non potrebbe essere concepibile.
L’amore...

“Granger…”
Non la chiamava neppure per nome. Era accaduto quasi miracolosamente che l’avesse chiamata ‘Hermione’, ma era comunque accaduto… cosa significava quel tornare indietro? Era realmente un tornare indietro? O poteva costituire un tentativo – ma la giovane non poteva saperlo – di resistere, bloccato dalla sua più grande paura?
Era veramente arrivata a parlare di amore?
La ragazza, di spalle, raddrizzò la schiena, fingendosi disinvolta e per nulla toccata da tale argomento. Se solo avesse voltato il viso verso di lui, se solo avesse visto la luce cupa nei suoi occhi, quella luce che ormai stava per spegnersi, avrebbe capito quanto potesse essere difficile, anche e soprattutto per Draco.
“Non c’è bisogno che tu aggiunga altro.” rispose sfilandosi il mantello e lasciandolo sull’attaccapanni, afferrando la propria bacchetta magica.
Sì, era decisamente arrivata a parlare di amore. E di questo non sapeva se rallegrarsi – c’era apparentemente ben poco per cui farlo – o maledirsi.
In un battibaleno scomparve, lasciando come unico ricordo di sé un semplice crack! che si dissolse nell’aria nel giro di due secondi.
Perdonami, Hermione, non puoi capire che...
Draco chiuse piano gli occhi, senza profferire verbo, senza fare nulla, rimanendo semplicemente lì, in quella stanza, in piedi. Come una statua di marmo – sperando che anche il suo cuore potesse assumerne tale insensibile consistenza, cosa che non fu.
Che per due come noi non potrebbe esserci qualcosa di più difficile.

Could it be any harder?


*** *** ***

Could it be any harder?

Una particolare sensazione la fece indugiare con la mano sopra la maniglia d’acciaio della porta, quasi come ne avesse ricevuto una piccola scossa. Hermione deglutì, ringraziando il cielo – non senza essere sospettosa - di non essere ancora stata scoperta. Chissà cos’era successo all’ospedale… avrebbero pensato che se ne era volutamente andata? Avrebbero creduto alla storia che avrebbe raccontato? Avrebbero creduto al suo semplice, candido racconto? – Se ne era andata perché non ne poteva più e si era recata a casa, niente di più… niente di… diverso.
Tenne lo sguardo basso, amareggiata: da quando era arrivata al punto di mentire ai suoi migliori amici?
Sei una persona orribile, Hermione Granger. Lasciatelo dire.
Orribile ed irrimediabilmente illusa.

Strizzò gli occhi cercando di allontanare quei sensi di colpa – una tra le cose che più detestava nella sua intera esistenza – almeno per un poco, giusto per il tempo necessario a riordinare le idee. Cosa che le sarebbe piaciuto moltissimo fare, se solo quella sensazione di forte nausea all’imboccatura dello stomaco non le avesse ostruito faringe e laringe; cosa che avrebbe volentieri tentato di fare, se solo quell’orrendo sentore di malessere fisico non la stesse costringendo a cercare continuamente un appoggio fisico. Era come se le sue gambe non reggessero più: tremavano. E non per il freddo, non per la fatica della corsa. Non solo.
Aveva inalberato il suo atteggiamento più altezzoso ed indifferente – l’aveva collaudato così tante volte -, aveva mantenuto il passo fermo, la schiena dritta – Ron ne sarebbe stato orgoglioso… lui e le sue fissazioni sulla postura inculcategli dagli Auror. Ron… -, il mento alto, ma ora tutta quella tensione sembrava schiacciarla come un macigno di granito. Duro e pesante. Oltremodo duro e pesante.
“Stupida,” si disse, dopo aver pronunciato l’incantesimo di riconoscimento per poter aprire la porta d’ingresso della casa che divideva con Harry, Ron e, da qualche tempo, con Ginny. “sei solo la solita stupida, Hermione.”
Quelle parole l’avevano colpita come neppure lei avrebbe mai e poi mai voluto ammettere; quelle parole l’avevano raggiunta, gelide, e ferita sottilmente, subdolamente, come il vento che si insinua tra le pieghe dei vestiti: aveva ripiegato la sua anima, aveva tentato di nascondere i propri sentimenti, aveva sopportato, aveva soffocato il proprio dolore, ma nulla aveva potuto contro quella dura voce che, implacabile, aveva vinto ogni sua difesa – da tempo superflua. Avrebbe dovuto saperlo, avrebbe dovuto rendersene conto dal momento in cui quegli occhi l’avevano imprigionata. – ed aveva raggiunto l’obiettivo: il suo cuore. E la cosa più dolorosa era il modo in cui l’aveva letteralmente fatto a pezzi: non era stato un assalto aggressivo, violento, improvviso. No, niente di tutto questo. L’aveva percepita distintamente, nella sua lenta atrocità, mentre si avvicinava al luogo proibito – quel cuore che aveva quasi anestetizzato del tutto, rendendolo impassibile a quasi qualsiasi cosa. Almeno in apparenza. -, mentre lo circondava delicatamente; morbidamente vi era scivolata sopra come un fazzoletto di pura seta può scivolare su di una sfera di cristallo, l’aveva ricoperto del tutto. Quella era stata la fine, perché piano piano aveva cominciato a stillarvi la sua linfa letale, placida nella sua sicura vittoria contro quel debole muscolo – purtroppo non atrofizzato – e poco a poco l’aveva stretto sempre più, sempre più, con la stessa morbida, delicata fermezza con cui le sue mani avevano stretto lei, quella stessa mattina. Oramai Hermione si sentiva piena di rabbia, di amarezza, di qualcosa che neppure lei avrebbe saputo descrivere. Ancora una volta senza parole. Solo per colpa sua.

Could it be any harder?


*** *** ***

Could it be any harder?

Dopo che fu riuscita a raggiungere la via dove si trovava la propria abitazione senza essere sorpresa, materializzandosi nel vicolo lì dietro e dirigendosi di soppiatto verso la propria casa, cominciò a pensare che ci fosse qualcosa sotto. Insomma, non tutti i giorni una ragazza di appena diciannove anni, attaccata da un Mangiamorte e ricoverata perché totalmente priva di sensi, fuggiva di soppiatto, spariva per un giorno intero – un giorno? Era... era passato così tanto da quando...? Aveva passato così tanto tempo con... lui? Possibile che il tempo fosse volato via, così? Possibile che il tempo, con lui, si fosse addirittura annullato? Avesse smesso di essere quel continuo andare avanti, quel continuo avvicinarsi della fine? – e ricompariva dal nulla, dopo aver fatto perdere totalmente le proprie tracce grazie ad un incantesimo che solo poche persone tra gli Auror più esperti potevano conoscere, senza essere sorpresa da alcuno, senza che nessuno le dicesse nulla. Senza che nessuno la stesse aspettando? Si guardò brevemente alle spalle: niente. Il corridoio era deserto. Erano ormai le dieci di sera; la giovane aspettò qualche secondo. L’unico rumore percepibile era il suo respiro lento e cauto ed il lontano rombo di una moto. Era tutto strano. Molto strano. I suoi sensi erano all’erta. Temendo qualcosa che neppure lei avrebbe saputo identificare, girò lentamente la maniglia dopo aver pronunciato a mezza voce le parole magiche dell’incantesimo che apponeva sempre sull’intero uscio di casa; spinse con molta poca decisione la porta in legno e gettò un’occhiata esitante all’interno. Era tutto buio. Probabilmente sia Harry che Ron erano ancora in ospedale con Ginny – di sicuro lei non era fuggita. Hermione stessa si sorprendeva di come, in quel momento, avesse agito seguendo il puro, purissimo istinto, senza pensare.
Meglio così...
“Sì, meglio così...” si sussurrò per convincersi ad entrare, bloccata da una strana sensazione.
Ed allora cos’era quella strana morsa allo stomaco?
Si morse il labbro inferiore, respirando profondamente.
Cos’era quella morsa che le rendeva difficile respirare?
Abbassò gli occhi sui propri piedi, le scarpe sporche di fango e neve corrotta da chissà quale e quanta sporcizia raccolta per strada.
Lei lo sapeva cos’era.
Sentì la pelle d’oca sulle braccia, un’ondata di ansia attraversarla.
Oh, eccome se lo sapeva!
Si era sempre sentita così, sempre, quando Harry e Ron... non si accorgevano che anche lei aveva bisogno di aiuto, quando... quando, senza volerlo, pensavano a loro stessi, lasciandola da parte. Si sentiva sempre così, quando si sentiva sola, quando aveva paura di aver perso tutto, quando si sentiva abbandonata.
“No.” si disse bruscamente. “Sei patetica. Ora basta.”
Alzando nuovamente lo sguardo, aprì maggiormente la porta; mise dentro un piede, poi l'altro, avvertì la sensazione di familiare calore avvolgerla come una soffice coperta, come un vestito che le calzava a pennello – l’unico – mentre lei buttava via quegli altri vestiti – le altre situazioni – che la facevano sentire a disagio, che non si modellavano alla perfezione al suo corpo; richiuse lentamente la porta rimanendo per qualche secondo con entrambe le mani poggiate sul legno tiepido. Quello era l’unico calore? Era veramente l’unico calore capace di farla sentire completa, appagata? Solamente Harry, Ron e Ginny potevano farla sentire così?
Non era vero. Non al cento per cento.
La sua presenza, pensò Hermione senza accorgersi di star trattenendo il respiro, le trasmetteva un calore singolare, del tutto particolare, un calore unico che eguagliava in tutto e per tutto quello che poteva assaporare in quell’esatto momento.
Si portò la mano sinistra all’altezza del petto: che strano... le era quasi sembrato di sentire un dolore acuto ma persistente, una specie di pizzico, una sorta di scossa elettrica dolorosa ed indisponente proprio lì, in una qualche parte – più o meno remota – nella zona sinistra del suo torace. Inspirò profondamente, chiedendosi per quale dannatissimo motivo la sua mano destra stesse ostinatamente tremando, e nel buio strinse i denti. Poco a poco il tremore sciamò e la giovane torno a respirare normalmente; la stanza era buia e tiepida – piacevole – e forse proprio grazie a quel buio Hermione Granger non vide – o fece finta di non vedere – il velo sottile che le rendeva meno nitida la visuale. Con una lentezza del tutto surreale, si tolse la giacca, senza neppure meravigliarsi nel constatare che indossava ancora la camicia da notte dell’ospedale; le gambe nude, arrossate dal freddo e dal vento, ora, per lo sbalzo di temperatura, bruciavano come fossero state ustionate – e non erano l’unica cosa. Anche dentro, anche dentro di lei qualcosa bruciava. In vari modi ed intensità, che vanno dalla disperazione, alla rabbia, alla rassegnazione, al dolore, alla disillusione, alla rabbia, al dolore, alla rabbia, al dolore e... l’aveva già pensate rabbia e dolore?
Mosse qualche passo senza avere un’idea precisa; forse voleva semplicemente adagiarsi su una di quelle morbide poltroni così invitanti e riposare, finalmente. Sì, forse... sì, decisamente era quello che voleva. Niente fuoco acceso nel camino – il suo calore, la sua luce avrebbero ricordato troppe parole, troppe frasi, troppi sguardi -, nessuna luce mattutina a penetrare dalle finestre – aveva sempre odiato la luce mattutina. Le era sempre sembrato qualcosa di freddo, di, in un certo senso difficile da comprendere per i più; più distante. E di certo il suo amore per quella luce, in quel momento, non aveva cominciato la propria scalata verso il successo.
Sì. Una bella poltrona morbida e confortevole... sì, era... era quello che ci voleva.
Ma proprio sulla poltrona che tanto adorava, era riposto qualcosa. Dietro quel velo fastidioso – un globo argenteo tremolava incerto nel buio – non riusciva bene a distinguere cosa fosse... forse il cappotto di Harry. Dio santo, quel ragazzo era così disordinato. Formulando quindi pensieri sconnessi ed inutili, con gesti meccanici allungò una mano verso il presunto cappotto di Harry che sembrò accennare ad un movimento.
La giovane alzò il sopracciglio sinistro sfregandosi gli occhi castani, ma quel velo, dannazione!, non se ne voleva proprio andare. Il cappotto di Harry era nuovamente immobile.
I cappotti non si muovono.
“Bentornata, Hermione.”
Una voce terribilmente familiare, solitamente calda e semplice, spesso impacciata, in quel momento roca, bassa, strascicata. Quasi a parlare fosse stata una persona decisamente alticcia.
I cappotti non parlano.
E tanto meno si ubriacano.

Fu allora che il cappotto di Harry si alzò su quelle che, che strano, sembravano proprio due gambe... e le si avvicinò. Era decisamente un cappotto molto alto. Forse troppo, per essere un cappotto, per di più di Harry, che un watusso non era. Hermione rimase perplessa a fissarlo, sentendosi tanto un baccalà, con le sopracciglia corrugate e la bocca appena socchiusa.
E fu solo quando vi si trovò davanti che si rese conto che, in realtà, il cappotto di Harry non era il cappotto di Harry.
O meglio, quel cappotto di Harry non era altri che Ron.

*** *** ***

Could it be any harder?

“No!”
Il ragazzo la fissò tentando di non lasciar trapelare alcuna emozione o impressione sul proprio viso.
“Scu-scusa?” disse con voce incerta.
Lei scosse veementemente il capo ed i capelli rosso fuoco le si sparpagliarono poi nuovamente sulle esili spalle.
“Sta’ zitto!” ripeté senza guardarlo in viso. “Non dire un’altra parola.”
Harry rimase in silenzio per una manciata di secondi fissandola con i suoi bellissimi – e dannatissimi! – occhi verdi; con i capelli corvini arruffati – più del solito, il che era tutto dire -, i tondi occhiali storti sul naso e quell’espressione stupita – oh, per quanto avesse provato, non sarebbe mai riuscito a rendersi impenetrabile a lei, Ginevra Weasley, che conosceva ogni minima luce dei suoi occhi ed ogni più insignificante variazione espressiva di quel viso dall’aspetto sveglio che, alla fin dei conti, non rispecchiava più di tanto la realtà – sul volto... sembrava un bambino. E forse era questa una di quelle cose che Ginny, col passare del tempo, aveva scoperto in lui ed aveva imparato ad amare: Harry aveva sempre conservato dentro di sé quella parte di eterno bambino, quell’ingenuità innata e il candore a volte esasperante col quale si poneva di fronte al mondo. Eppure il discorso che le aveva fatto era giusto e, diamine!, calzava alla perfezione alla parte di Harry adulto. Un discorso così maturo, un discorso così... bello, così pieno di emozioni nei suoi confronti, che Ginny non poteva fare a meno di rifiutare. No. Non poteva accettare tutto quello dopo anni ed anni di sofferenza. Non che non lo volesse – perché, santo cielo, se lo voleva... -, ma il suo cuore, questo era ciò che temeva, non avrebbe retto. Le aveva dimostrato, al contrario delle sue aspettative, che lui aveva sempre pensato a lei e quell’errore – l’ennesimo, okay, ma pur sempre in buona fede – commesso proprio in quegli ultimi mesi, quell’omissione di verità... era scaturito solamente dall’immenso affetto che egli provava per Ginny stessa. E mentre Ginny si preoccupava e si adoperava per non essere un peso per lui, lui agiva in maniera opposta per il puro e semplice terrore di poter rappresentare un peso, o meglio, un pericolo per lei.
Tutto per lei, Ginevra Weasley.
Non era abituata. Perché? Perché proprio dopo tutti quegli anni?
No. Non voleva sentire. Non sapeva bene neppure lei perché, ma dopo quella frase l’aveva tacitato con un ‘NO!’ secco e ben piazzato.
Il silenzio aleggiava da ormai un paio di minuti nella stanza.

“Scusami per non essere l’uomo che meriteresti di avere accanto.”

Volente o nolente, non poteva non percepire la moltitudine di impliciti significati che quella frase celava solo in apparenza, come una fragile costruzione di cristallo che, ad un soffio solo un po’ più deciso di vento, si sarebbe incrinata e sarebbe inesorabilmente crollata su se stessa, producendo un rumore pressappoco insignificante, ma lasciando manifestamente scoperto il proprio prezioso tesoro, custodito, in precedenza, nel suo stesso cuore.
Eppure sentiva una sensazione fredda, dentro, un qualcosa che la bloccava.
“Ginny...” la sua voce era bassa, insicura.
E quella sensazione, quel qualcosa era paura.
“Harry, no... non è il momento. Anzi, è il momento che ti potrebbe far dire certe cose, quindi... non le dire. Non mi pare il caso, perché poi cambieresti idea ed io non sono sicura di ciò che penso che potrebbe accadere e...” si zittì, rendendosi conto di stare affastellando frasi senza alcun senso logico e di star adducendo delle scuse non plausibili. “io...”
Il ragazzo la fissava ancora, facendole andare il viso ed ogni minima particella del corpo in fiamme.
“Non vuoi neppure sentire cosa ho da dire?” le chiese.
Ginny aprì la bocca ma tacque per qualche istante, incerta.
Sei sicura, Ginny? Sei sicura che non vuoi ascoltarlo?
Sentiva i suoi occhi fissi sulla propria figura rannicchiata sul letto; con le mani torturava nervosamente il lenzuolo immacolato dell’ospedale. Sentiva freddo, eppure si sentiva ardere da dentro.
Sai che un momento come questo non si ripeterà mai più.
Persa questa occasione, avrai perso anche lui. Per sempre.

Poteva percepire l’immobilità di Harry come qualcosa di fisico che andava a sconvolgere il suo equilibrio.
“No. Non... non voglio.”
Idiota.
Si alzò e si mise sulle spalle la coperta di lana che Ron le aveva premurosamente lasciato sulla sedia accanto alla finestra.
“Sono stanca.”
Harry si alzò senza dire una parola e si avvicinò alla porta, aprendola lentamente. Nel suo viso si leggeva chiaramente il dolore, la delusione, la mortificazione cui Ginny l’aveva sottoposto. Gli occhi sembravano aver assunto un taglio triste e malinconico – gli occhi di Harry, sempre così vivi, sembravano avere la capacità di modificare il proprio taglio in uno più, per così dire, languido, quando si sentiva veramente giù di morale. O si sentiva dannatamente male, precisò Ginny a se stessa, non senza una fitta di dolorosa colpa nel petto. -, eppure non disse nulla. Non insistette, non domandò spiegazioni. Nulla.
Pulito, educato, ingenuo come sempre.
Così dolce, premuroso, affidabile, candido...così odiosamente ma adorabilmente Harry.
Io... i-io...

Ginevra Weasley alzò appena lo sguardo verso di lui, osservandone la schiena dritta che oscillava lievemente al suo incedere lento ma deciso.
Non lasciarlo andare.
Sei un’idiota, Ginevra Weasley.

“Ha... Harry...”
Lui si bloccò, non si voltò.
“Sì?”
Non lasciarlo andare via!
“Io ho...” qualcosa continuava a frenarla, a tenerla ancorata al passato. “i-io non...”
Dannazione, Ginny, diglielo!
DIGLIELO!

Inutile a dirsi, la facoltà oratoria sembrava averla abbandonata facendo ‘bye bye’ con la manina, ed aggiungendo ‘io con una stupida masochista come te non voglio avere nulla a che vedere’.
Harry rimaneva in completo silenzio, fissando la propria mano poggiata sulla fredda maniglia ferrea della porta.
“Io...”
Come faccio a dirti che ti amo da impazzire ma ho paura del mio stesso sentimento?
“No, niente,” concluse alla fine, stringendo forte i pugni sulle lenzuola, rabbrividendo nonostante la coperta le tenesse, dal punto di vista scientifico, un caldo ragionevole. “... niente.”
Harry aprì la porta e se la richiuse alle spalle, sempre nel più completo silenzio.
Forse quel silenzio era la cosa che faceva più male.
E Ginevra Weasley rimase nella sua stanza d’ospedale, infreddolita, seduta su un letto bianco e stranamente freddo, a fissare un qualcosa di indefinito davanti a sé, sentendo i lenti e calcolati passi di Harry allontanarsi.
Probabilmente quel silenzio era la cosa che più faceva male.
Non le importava di ferire se stessa, ma non si sarebbe mai, mai perdonata l'aver ferito Harry.
E quel silenzio pesava come non mai.

Could it be any harder?

*** *** ***

Could it be any harder?

Harry camminava per il banale corridoio senza alcuna idea in testa, producendo un rumore di passi assolutamente banale, osservando facce irrimediabilmente banali ed inalando respiri che più banali non potevano essere.
I respiri potevano essere banali?
Certo.Tutto era banale.
Che strano.
Eppure prima non gli era sembrato. Prima tutto sembrava avere un colore, una forma, un sapore, un odore... un qualcosa. Ora, invece, sembrava di vivere in un ambiente informe e non meglio identificato, dove tutto è un qualcosa di puramente formale senza alcun contenuto, dove tutto, in poche parole, è niente.
I suoni risultavano ovattati come ronzii fastidiosi di insetti insignificanti.
Voleva solo... a dire il vero neppure lui sapeva cosa volesse.
Sapeva solo che l’entusiasmo, la forza e la decisione, che pochi secondi prima gli avevano riempito l’animo, erano evaporati nel giro di una manciata di secondi. Orribili secondi, se proprio vogliamo descrivere le cose con il loro nome.
Era come se si trovasse a camminare in una dimensione a lui completamente estranea, in un universo che non lo riguardava neppure in minima parte – quindi perché preoccuparsene?. Avete presente quando vedete, sentite e parlate ma vi sentite la mente eccezionalmente leggera, tanto che vi sembra di non essere realmente lì in quel momento? Di essere solo un corpo che continua a muoversi ed a vivere solo e semplicemente secondo quella che gli studiosi che i Babbani definivano illuministi avrebbero definito una visione meccanicistica e materialista della natura? Ecco. Prendete quella sensazione, fatela vostra. Poi moltiplicatela per mille. Come vi sentite?
Male. Malissimo. È qualcosa che, proprio per la sua indescrivibilità ed inafferrabilità, risulta orribilmente odiosa. Qualcosa che non si riesce a comprendere, ma che, quando ci sembra di aver capito, ci sfugge dalle mani come una bolla di sapone.
E così si sentiva Harry.
Dopo una trentina buona di passi, un pensiero lucido – l’unico – attraversò la confusione che dettava legge nella sua testa:
Un attimo.
Non ha senso camminare.
Che significa tutto questo?
Che vuol dire?

Si bloccò, e nello stesso istante una porta, alla fine del corridoio, si spalancò con impeto.
Come fossimo stati sempre legati da un filo dorato, indissolubile.
Voltò il capo scorgendo con la coda dell’occhio quello che non aveva bisogno di vedere, poiché l’avrebbe sentito dentro.
Solo noi due.
In tutta quella confusione di quelle due anime impaurite e frementi nella propria incertezza, in quell’ignoto che li circondava, in quel dolore, in quella lacrimosa malinconia, in tutto quello... Harry vide una ragazzina dall’aspetto minuto, una ragazzina dagli spauriti occhi velati di lacrime e dalle fragili spalle che non potevano, non riuscivano più a sopportare il peso di tante cose. Non da sole.
Solo io e te.
E la sua voce, tremante per l’emozione che ormai non poteva più reprimere, lo raggiunse come un lampo a ciel sereno, penetrandogli la testa, il cuore, l’animo.
“Non volevo sentire perché ho paura di perdere la presa!”
Il corridoio desolato le donò una brevissima, quasi inudibile eco.
Perdere la presa da te.
Harry si voltò del tutto e qualcosa parve sciogliersi nel suo cuore, riscaldandolo da capo a piedi. Un sorriso – probabilmente molto stupido, visto dall’esterno – affiorò sulle labbra e nell’animo vibrante d’emozione.
“Perché ho paura di non poter più gestire quello che provo! Perché ho paura di costituire un pericolo per te! Perché, Harry, non voglio perdere la presa da te! Io voglio esserti vicino, sempre. E voglio stringerti la mano senza aver paura di scivolare via, di perdere la presa,” il discorso ormai rotto dai singhiozzi. “Perché è tutto troppo bello per essere vero. Perché, Dio santo, Harry, perché io ti amo ancora così tanto come ti ho sempre amato... ed ho paura dell’intensità delle mie emozioni.”
Ginny si strofinò gli occhi sentendosi il viso bagnato di lacrime indescrivibili: di felicità, di paura, di sorpresa, di piacere, di tristezza, dell’improvvisa consapevolezza di essere riuscita a dire a lui quello che da anni teneva strettamente e gelosamente custodito dentro il suo cuore, che per la sua debolezza non era mai riuscita a tirare fuori.
Perché ormai...
E quasi non fu sorpresa di vedersi Harry davanti con uno splendido, innocente, dolce e felice sorriso dipinto sul volto. Le aveva lasciato dire quelle parole che da tanto avrebbe voluto pronunciare. Non l’aveva interrotta né l’aveva abbracciata o cos’altro prima che avesse finito di parlare. Lui l’aveva capita. L’aveva sempre capita e non se ne era mai resa conto. Che stupida...
Perché ormai...
“Ho paura di perdere la presa... di farti del male,” mormorò lei tra le lacrime irrefrenabili, la mano di Harry sulla testa in un gesto dolce e tenero.
“Non potresti mai farmi del male, Ginny. Tu sei e sarai sempre la mia salvezza.” le sue parole, dopo quel silenzio terribile, suonavano calde ed avvolgenti, come una boccata d’aria per Ginny, che le aveva sognate tante di quelle volte da temere che fosse tutto un ennesimo, deludente sogno. Deludente in quanto sogno, appunto. Un semplice sogno. Ma la sua mano sulla sua testa, il calore del suo corpo e quegli occhi verdi così limpidi e vivi... Ginny lo sentiva, non poteva essere solo un sogno. Ed allora sorrise, sentendosi stupida almeno quanto lo si era sentito poc’anzi Harry, e quel sorriso irradiava una sensazione di amore così profonda da far tremare la stessa mano di lui. “Perché ormai ci siamo solo io e te.”
Perché ormai siamo solo noi due.
La mano di Harry scivolò sulla sua nuca con una dolcezza tipicamente sua, un candore che nulla aveva del sensuale, ma tutto del passionale; Ginny sorrideva ancora quando si sentì attrarre leggermente a lui, con una pressione educata e per nulla invadente, sorrideva ancora quando le loro labbra si incontrarono, in un bacio dal sapore del sale, in un bacio dal sapore delle lacrime – che sicuramente sarebbe stato, a discapito delle apparenze, un ottimo inizio – e della felicità; Ginevra Weasley sorrideva ancora quando diventava tutt’uno con il ragazzo che sempre aveva amato.
Anche se un tutt’uno lo siamo sempre stati.
Ginny sorrideva ancora quando, contro la bocca di lui, sussurrava:
“Siamo solo io e te.”
Perché ormai siamo solo io e te.

*** *** ***

Could it be any harder?

Rimase immobile, come se al suo cervello servissero una manciata di minuti – neppure secondi! – per realizzare che la persona che aveva davanti era quella che meno avrebbe voluto incontrare in quel momento, in quelle condizioni. Il senso di smarrimento sembrava prolungare la sua presenza nella sua testa, anzi, sembrava addirittura farsi più radicato. Si sentiva allo stesso tempo incredibilmente leggera ed incredibilmente pesante, come una creatura sperduta che non sa se il suo regno è il cielo o la terra. Che non sa dove sia la sua casa.
Che non sa dove – e se – potrà essere felice.
Come lui.
Ron era in piedi, diritto, emanava quasi un’aura tale di decisione da far barcollare la giovane, come se le onde diffuse dal corpo del ragazzo potessero invisibilmente colpirla – e non solo fisicamente – e lasciarla priva di un qualsiasi punto d’equilibrio.
Ron.
Ronald Weasley, il suo migliore amico.
Lo fissava stupefatta, sorpresa e, specialmente, senza ben capire quella situazione.
Fu Ron allora a parlare, e la sua voce suonò ancora strascicata, pesante; la lingua gli si arrovellava su ogni parola, sembrava quasi ubriaco.
“Bentornata, Hermione.” ripeté con calma irreale.
Avrebbe potuto pensare che Ron fosse arrabbiato perché se ne era andata dall’ospedale senza dire nulla, avrebbe potuto pensare che fosse furibondo per non essere stata attenta quella sera, così come avrebbe anche potuto pensare che Ron, che conosceva da una vita, fosse semplicemente confuso per la loro ultima lite. Eppure Hermione Granger non pensava nessuna di queste cose.
Così come sapeva che Ron non era arrabbiato, non era furioso, non era tanto meno confuso.
Era semplicemente sconvolto.
Non c’era bisogno di parole, di sguardi o di gesti perché Hermione riuscisse a capire una cosa del genere, in fondo lei aveva sempre capito Ron. Era sempre stata lei a spiegare a Harry, le rare occasioni in cui quei due avevano litigato sul serio, che per Ron, insicuro cronico, era davvero dura avere sempre a che fare con lo stereotipo di eroe infallibile che Harry, seppur nolente, rappresentava. Era sempre stata lei a rammaricarsi perché, in fin dei conti, se Harry era lo stereotipo dell’eroe infallibile, lei stessa era quello della ragazza dall’intelligenza fuori del comune – era difficile non notare lo sguardo di Ron quando qualcuno chiamava Harry e Hermione l’Eroe ed il Genio, mentre lui rimaneva solo il semplice Ron, semplice ragazzino di quattordici, quindici, sedici anni... era al massimo Lenticchia. O peggio, perché subdolamente caustico, il Re -, aveva capito con amarezza che anche lei in quanto Hermione rappresentava per Ron una sofferenza. Ed era stata sempre lei che, per quello stesso motivo, aveva tentato di non dare a vedere le proprie qualità – quando era stata abbastanza grande da comprendere il dolore di Ron, un dolore che comunque era difficile da estirpare, perché partiva proprio da lui. Era un qualcosa che lo faceva fuori dentro, che lui per primo considerava insuperabile. E finché non fosse riuscito a superarlo, a prendere un po’ di coraggio ed a saltare, non ne sarebbe mai uscito. Neppure con l’appoggio di lei e Harry.
Niente da fare, Hermione aveva sempre quasi inconsciamente percepito le reali emozioni di Ronald – come tendeva a chiamarlo quando dialogavano di qualcosa di serio o si lanciavano in una di quelle loro tipiche guerre fredde, fatte di frecciatine e battute sarcastiche, che poi sarebbero scoppiate in liti furibonde e tempestose come, prima tra tutte, quella del quarto anno e del sesto.
Ron era una persona passionale, ovvero una persona agitata da emozioni che potevano raggiungere livelli molto, molto intensi, una persona che il più delle volte, agli occhi dei più – e quindi di tutte quelle persone estremamente superficiali -, trasmetteva apertamente, quasi fanciullescamente, ciò che provava. Ed era considerato uno ‘stupidotto’. Eppure Hermione sapeva che non era così, che spesso Ron mascherava il suo dolore più profondo, la sua malinconia più atroce con un sorriso o una battuta infantile, con un bisticcio da quattro soldi, proprio perché lui, in prima persona, credeva che non sarebbe riuscito a sostenere quel dolore, quella malinconia, quella tristezza. E così mascherava i suoi veri sentimenti anche a se stesso, peggiorando la situazione, perché una ferita che ci si tiene dentro, che non viene curata, che non viene condivisa – nel caso delle ferite spirituali – con qualcuno che sappiamo ci è amico e di cui siamo certi di poterci fidare, una ferita che viene volutamente mascherata ed ignorata, alla fine si infetta. Diventa doppiamente dolorosa. Diventa un qualcosa di grave, di estremamente serio, qualcosa che è a tutti gli effetti quasi impossibile da curare. Un qualcosa che comunque lascerà per sempre una cicatrice.
Se Hermione aveva capito tutto ciò oramai da anni – da piccola, quando aveva appena tredici anni, queste cose le intuiva, ma, logicamente, non riusciva a farle proprie – non poteva non capire lo stato d’animo di Ron in quel preciso istante. Era lampante.
Ron era sconvolto.
“R-Ron,” riuscì a balbettare dopo qualche secondo, la sua voce suonava leggermente più alta del solito e si incrinava nelle incertezze.
Il ragazzo si esibì in tutta risposta in una strana smorfia che, secondo i bene allenati sensi di Hermione, sarebbe dovuta essere un sorriso sardonico.
“Risparmiati la farsa, Hermione.” disse improvvisamente, con tono brusco. Lei si sentì gelare. “So cosa hai fatto.”
Sconvolto e disperato.
Di colpo le sembrò che il sangue le fosse affluito alla testa tutto assieme, tutto così di fretta che si sentì sbilanciare e dovette poggiarsi alla parete accanto a sé per tener testa alla vertigine che l’aveva colpita.
O forse più che il sangue, erano state quelle ultime parole di Ron a disorientarla maggiormente.
Parole dette con amarezza, parole dette con la fredda aggressività di una rabbia a malapena repressa, celata, e sorta dalla delusione, una delusione fortissima. Parole gettate fuori dalle labbra, fuori dall’animo, quasi come a voler ferire. Con una carica aggressiva che in realtà nascondeva il desiderio di difendersi da una ferita oramai già inflitta.
Hermione dischiuse le labbra sgranando gli occhi, ma non riuscì a dire nulla.
Ron le si fece vicino con passo incerto, sembrava quasi che ogni movimento gli costasse uno sforzo sovrumano in concentrazione ed equilibrio; si poggiò con una spalla a quella stessa parete di cui l’amica aveva appena usufruito come sostegno. Essendo più alto della ragazza di una trentina buona di centimetri, lei fu costretta ad alzare lo sguardo per poterlo osservare negli occhi.
Almeno quello glielo doveva. Dopo quel che aveva fatto, doveva trovare il coraggio di guardarlo negli occhi. In quegli azzurri occhi, buoni e puri. Anche se faceva dannatamente male.
La vista di Hermione si era oramai semi abituata all’oscurità della casa, eppure non riusciva ancora a scorgere la luce negli occhi di Ron, la luce che sempre li aveva fatti brillare. Forse perché aveva il viso in ombra, leggermente chino verso di lei. O forse semplicemente perché quella luce non c’era più.
Per colpa mia...
Richiuse la bocca, qualsiasi parola sarebbe stata inutile.
Ron si distaccò momentaneamente dalla parete per frugare nella tasca dei jeans, ed afferrata la bacchetta magica la puntò verso di lei sussurrando un incantesimo. Dopo un breve spruzzo di scintille dorate, nell’esiguo spazio che riempiva l’ancor più esigua distanza tra i due si materializzò un’immagine, o meglio, una proiezione.
Hermione Granger e Draco Malfoy. Abbracciati.
Come in un’orribile moviola, Hermione vide il ripetersi di quegli ultimi momenti con Draco, fino al momento in cui lei stessa aveva utilizzato l’incantesimo – che lei sola e quelli dell’equipe in cui lavorava potevano sapere – che avrebbe impedito la loro localizzazione. Fino al momento in cui erano scomparsi.
Sollevò lentamente lo sguardo fino ad incrociare nuovamente quello di Ron.
“L’audio te lo risparmio,” sussurrò lui con voce roca. “anche perché non ne avresti bisogno.”
Ed allora Hermione si rese conto che Ron Weasley, oltre ad essere sconvolto e disperato, era anche ubriaco fradicio, di prima mattina.
E sempre per colpa mia...
Il ragazzo aveva preso da qualche anno la stupida quanto difficilmente arrestabile tendenza di affogare i propri dolori nell’alcol, disperatamente, ma fino a quel giorno, con l'aiuto di Harry e Ginny, lei era riuscita, non senza fatica, a tenere la cosa sotto controllo, per impedirgli di farsi del male.
“Hai bevuto?”
Fu solo questo ciò che Hermione riuscì a dire.
Ed allora, impetuoso, il pugno di Ron colpì con forza inaudita – quanto potevano essere serviti quegli estenuanti allenamenti da Auror, Hermione lo sapeva bene – la parete, producendo un botto sordo che echeggiò per qualche secondo nell’ambiente, fondendosi al tonfo di un quadro che, poco distante, per le vibrazioni provocate dal colpo inferto era rovinato in terra.
Lei distolse solo allora lo sguardo: non ce la faceva a sostenere quello del giovane.
In compenso, non sentiva più nulla, non provava più niente. Tutto era come appartenente ad un’altra dimensione – tutto eccetto Ron. Lui era sempre stato una parte di lei, in fondo. Come Harry, ma in maniera diversa. -, si sentiva come proiettata in un incubo terrificante in cui – lo sapeva – stava perdendo, anzi, aveva perso la persona più importante della sua vita assieme all’altra persona – Draco -, che comunque aveva poco prima perduto, ed alle altre due – Harry e Ginny – che, inevitabilmente, avrebbe perso in un futuro davvero molto prossimo.
E questo era peggio della confusione di prima.
Il nulla è la fine di tutto.
E la peggior cosa che possa capitare.
“Stronzate!” ruggì Ron rischiando di perdere l’equilibrio.
Il nulla è dimenticanza.
Il nulla è oblio eterno.
Il nulla è mancanza di amore, ma anche mancanza di rabbia, di delusione... di tutto.
È come cominciare a svanire piano piano, senza che nessuno se ne accorga – o se ne curi.

Cause today, oh, you're gone

“I-io… Ron, posso spiegarti,” balbettò Hermione, che nel suo nulla più totale non sapeva neppure perché quelle lacrime le stessero nuovamente bagnando le guance fredde e pallide.
Ron le si piazzò allora davanti, l’odore dell’alcol così forte da far quasi girare la testa, e la bloccò inchiodando saldamente le mani al muro accanto a lei, intrappolandola davanti a sé.
“Spiegarmi cosa?” biascicò con rabbia. “Quello che ho visto è abbastanza. E questa non è rabbia, Hermione, tu lo sai bene, dovresti saperlo bene...” Hermione avvertì una stretta al cuore: per la prima volta Ron accennava ai suoi veri sentimenti, alle sue vere emozioni. Al suo vero dolore. “Lo sai bene,” confusione. “... e quello che ho visto io, Hermione, non eravate te e Malfoy abbracciati. Non era il tradimento della ragazza con cui ho vissuto quasi dieci anni... lo sai cos’è, Hermione?”
Lei scosse il capo, impercettibilmente.
Una mano di Ron le prese tra due dita il mento e glielo sollevò con una delicatezza che nessuno si sarebbe mai aspettato in un momento del genere, con Ron in uno stato simile.
Ma Hermione, si sa, era sempre stata il suo punto debole.
“Quello che ho visto, Hermione, ero io che perdevo te.”

Cause today, oh, you're gone

Hermione tentò di voltare il viso, ma lui le impedì ogni movimento con leggera fermezza nella mano ed uno sguardo penetrante, che sembrava entrare nella sua testa, nella sua anima e sconvolgere tutto, gettare tutto a terra, distruggere, per poi andarsene lasciandosi dietro solo il caos più totale, come un uragano, un tornado dall’inarrestabile potenza.
Quel globo argenteo che le era sembrato più vicino, sembrò schizzare via, guizzare con una scintilla e sparire nel buio. Dietro quella patina di dolore.
Che lei stava costringendo tutti a sopportare.
Lei, Ron, Harry, Ginny... e lui.
Quell’opacità da dolorosa era divenuta annientante.
“Ero io che perdevo la ragazza che amo...” la sua voce ormai era così bassa da poter benissimo essere scambiata per un sussurro sordo.

Could it be any harder?

Il nulla implose, ripiegandosi su se stesso liberò una quantità di energia, emozioni così forti da non poter essere descritte; tutto stava accadendo così velocemente da risultare sconvolgente, eppure, nonostante ciò, Hermione non mancò di captare le ultime parole impastate, disperate, sussurrate dal ragazzo che, tremante – forse scosso da singhiozzi che aveva celato tante volte ed avrebbe voluto continuare a celare -, le aveva poggiato la fronte sulla spalla, chino su di lei, le mani strette a pungo, nuovamente sulla parete.
“Ero io che perdevo la presa.” mormorò ancora, eppure la sua voce non era rotta da alcun singhiozzo. Quel tremore era il pianto di un’anima, non il pianto fisico di una persona comune. “Avrei voluto proteggerti. Solo questo. Non chiedevo altro, non chiedevo amore... sarei vissuto solo per te e per saperti felice. Eppure... eppure ti ho persa. Non sono stato in grado di tenerti per mano, perché la tua mano... la mano di quella ragazzina saccente con cui litigavo sempre, una mano piccola e calda... è scivolata via. Perdere la presa...” Hermione chiuse gli occhi, il respiro mancante, avrebbe voluto sussurrare parole di scuse sia per non avergli spiegato cosa le stesse succedendo, sia per non averlo capito fino in fondo come credeva d’aver fatto, sia per averlo fatto soffrire fino a tal punto, ma riusciva solamente a piangere, a serrare gli occhi, a maledirsi per l’egoismo dimostrato e per l’interno calore che provava davanti al discorso di Ron, che come sempre rispecchiava il suo grande altruismo. Che nulla aveva preteso da lei, solo che gli permettesse di esserle accanto, nel bene e nel male. Cosa che lei aveva impedito. Celandogli l’accaduto, allontanandolo. E facendogli del male. Ancora. “Perdere la presa è la cosa peggiore. E io ti ho persa, Hermione...”

Could it be any harder?


   
 
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