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Autore: Melanto    12/10/2010    4 recensioni
Fuggire. Reazione immediata dinanzi ad un dolore troppo grande per essere affrontato a viso aperto. Camuffare la sofferenza in voglia di lavorare. Poi partire. Cambiare persino continente per ricostruire precari equilibri su cui camminare in punta di piedi. Dimenticarsi di tutto: amici, famiglia... assopire i ricordi e cullarli come bambini, perché non facciano troppo male, per ricaricare le certezze. E poi... e poi tornare, per affrontare il passato ed i sensi di colpa.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alan Croker/Yuzo Morisaki, Yoshiko Yamaoka
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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- Questa storia fa parte della serie 'Huzi - the saga' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Huzi

- Capitolo 24 -

“Nessuna avvisaglia di lahar al momento.” gracchiò la voce dalla radio “Ma fossi in voi non mi fermerei troppo a lungo. Sapete bene quanto siano bastardi. Finite il giro e rientrate. Passo.”
Il Sergente Honda dell’Esercito Giapponese rispose prontamente; gli abiti inzaccherati di fango fino alle ginocchia ed i cani delle unità cinofile che abbaiavano di tanto in tanto, appena rinvenivano un nuovo cadavere.
“Ricevuto, signore. Chiudo.”
Si guardò intorno per qualche momento, calcandosi il cappello sulla testa e chiudendo il bavero dell’impermeabile fino alla fine. Per fortuna le piogge che avevano caratterizzato gli ultimi due giorni s’erano acquietate, permettendo loro di poter lavorare con maggiore celerità e relativa sicurezza, ma tutti continuavano a rivolgere costantemente un occhio al vulcano, quasi a volerlo controllare.
“Santoddio, non finiremo mai.” il Capitano Numikura comparve al fianco del giovane Sergente, portandosi le mani ai fianchi e scuotendo il capo. “Quanti altri potrebbero ancora essercene là sotto?”
La sua domanda retorica rimase senza una risposta precisa, anche se Honda se la immaginava.
Tanti.
Non se ne sarebbe mai avuta una stima esatta, di questo ne erano un po’ tutti consapevoli, ma loro avrebbero continuato a scavare, facendo il possibile.
Il Capitano levò lo sguardo al vulcano, fissandolo con espressione indecifrabile. Al posto del bianco della neve che avrebbe dovuto ricoprire i suoi fianchi in quella stagione, c’era il grigio della cenere che aveva creato una sorta di sporco mantello. E diveniva sempre più spesso. Dopo quattro giorni dal suo inizio, l’attività si manteneva viva e stabile. Secondo gli esperti avrebbe potuto andare avanti addirittura per un mese e la sola idea non rendeva felice nessuno.
“A quanto stiamo?” domandò il Capitano, volgendosi al suo sottoposto. Il Sergente Honda osservò un gruppetto di soldati radunarsi nel punto indicato da uno dei cani.
“Con quello” disse, mettendo mano al block-notes che aveva con sé e appuntando la nuova cifra “dovrebbero essere trecentoquarantuno, signore. Solo nel lato Ovest della montagna. Continuo a ricevere altre stime dai contingenti che si trovano un po’ più verso Est. Sembra che i paesi distrutti su questo lato siano circa una ventina, molti dei quali erano evacuati già spontaneamente.”
L’uomo sospirò, incrociando le braccia al petto. “La cosa non riesce a consolarmi, ahimé. Il Giappone ne uscirà comunque cambiato.” ed era inevitabile.
Quattro soldati delle unità cinofile si avvicinarono a loro che restavano in piedi su un rialzo di fango accumulatosi sul fianco di un edificio crollato, da cui controllavano lo svolgimento delle operazioni di recupero dei cadaveri.
“Sergente Honda.” esordì il proprietario di un labrador, il cui manto miele era ormai irriconoscibile per quanto sporco. “Noi ci dirigiamo verso Fujinomiya, viene anche lei?”
Il graduato scambiò un’occhiata col suo superiore, che annuì.
“Vada pure, me la vedo io qui.”
“Sì, Capitano.” il Sergente fece un rapido saluto e abbandonò la sua posizione per raggiungere gli altri militari.
Si mossero a piedi perché usare dei mezzi li avrebbe rallentati vista la quantità di materiale che intasava la strada. Le ruspe sarebbero arrivate solo successivamente, alla conclusione del lavoro di setacciatura che le squadre stavano effettuando.
Il Sergente Honda camminava affiancato dagli altri soldati, guardandosi intorno; le sopracciglia sempre debolmente aggrottate su quello scenario che aveva in sé qualcosa di apocalittico. Forse era un aggettivo eccessivo, ma quando si trovava circondato da case che erano nulla più che scheletri vuoti, semi-crollati; quando vedeva letti trascinati in mezzo alla strada dalla furia del fango  mescolarsi ad alberi diroccati, tavolini di bar e automobili, l’unico concetto che gli veniva in mente era l’Apocalisse. Sarebbe stato un ottimo titolo per un’opera di Arte Contemporanea nella quale Nankatsu si era assurdamente trasformata: accozzaglie di materiali senza capo né coda, ecco, solo questo restava della città e la sua scia di cadaveri da recuperare come in una macabra caccia al tesoro.
Stavano camminando lungo quella che era la strada che portava alla città di Fujinomiya, anch’essa caduta vittima dei lahar del Fuji. Se ne erano susseguiti quasi a ripetizione nell’arco di quelle novantasei ore. Acqua-fango-tefra, il copione si era ripetuto costante, monotono come un vecchio disco e mentre ci pensava, si avvicinavano alla zona ribattezzata: Lo Sfasciacarrozze. Già dalla loro posizione potevano vederlo, farsi sempre più vicino e lugubre, silenzioso, come qualsiasi altro posto in quella città fantasma.
Il proprietario di Malcom-X, un massiccio Rottweiler, strinse un po’ più fortemente il guinzaglio. “Brrr. Questa zona mette i brividi. Sembra un cimitero.”
“Ma questo è un cimitero, Baku.” ci tenne a sottolineare il soldato che teneva il labrador.
Ed il Sergente convenne: l’intera area era una grandissima necropoli, ormai.
Con i brividi messi dalla soggezione, il gruppo si fermò proprio all’inizio de ‘Lo Sfasciacarrozze’.
“Ma quante saranno?” il proprietario di un altro labrador, di colore nero e nome Akira, alzò la visiera del cappello per osservare meglio lo scenario che si apriva davanti ai suoi occhi. La fila di auto, che durante la fuga erano state abbandonate nel mezzo della strada, ora giacevano come ammassate, impilate con precisione maniacale assieme a massi altrettanto grandi lungo i lati della carreggiata. Alcune erano cementate tra loro a causa del fango, che sembrava come ergere un muro. Una fortificazione rudimentale da cui sporgevano anche travi e tronchi d’albero, relitti di tetti e altre macerie. Un pullman scolastico giaceva riverso su un fianco nel mezzo della strada.
“Non chiedertelo, non dobbiamo contarle e spero che tu non sia tanto masochista da farlo.” fu l’affermazione del quarto soldato, più anziano degli altri, e padrone di Jethro, un pastore tedesco.
“D’accordo. Lasciamo andare i cani. Vai, Kagemusha.” il militare sganciò il guinzaglio dal collare e il labrador miele fu libero di andare a svolgere il suo compito. Gli altri seguirono il suo esempio e quattro chiazze colorate presero a rovistare la zona con loro che li seguivano poco distanti.
I primi cadaveri furono rinvenuti in un groviglio di melma e lamiere, tanto che ad occhio non si capiva dove finisse il cadavere e cominciasse la vettura.
“Oddio, questo è completamente a pezzi.” osservò il padrone di Akira, mentre Baku si tappava la bocca allontanandosi di corsa per vomitare.
Il Sergente prese appunti, cominciando a fare una mappa dell’area e segnando i luoghi in cui avrebbero avuto bisogno di aiuto per recuperare le vittime.
Un altro cadavere lo trovarono poco distante, schiacciato dal peso di quattro SUV, ma tutti si augurarono che fosse morto sul colpo, così come per il corpo murato dentro una coltre di fango.
“Questa è una delle zone più colpite.” il soldato che si occupava di Kagemusha si fermò accanto al Sergente. “La gente stava fuggendo a piedi quando è arrivato il primo lahar. Sono stati travolti, non hanno avuto scampo.”
“E’ terribile.” constatò Shigatsu, mentre osservava Akira apparire e scomparire tra le vetture. “La fine dei topi: in trappola.”
Baku riemerse con la tonda faccia pallida madida di sudore. Malcom-X gli uggiolò, sedendosi accanto a lui, e Shigatsu tentò di sdrammatizzare.
“Ecco che ne spunta uno vivo. È arrivato addirittura X a salvarti.”
“Non scherzate. Qua ci sono cadaveri ad ogni angolo. Sarà una giornata lunga.”
Gli altri convennero con un cenno del capo, quando si sentì un altro intenso uggiolare, seguito da un abbaiare di avvertimento.
Shigatsu allungò il collo verso una fila di auto. “Kagemusha ha trovato qualcosa?”
“Sì direbbe.” convenne il padrone, muovendosi velocemente in direzione del richiamo. Dietro di lui, anche l’altro militare s’avvicinò, mentre il Sergente scrutava con curiosità, tenendosi da parte.
Ueno raggiunse il suo cane che scodinzolava impaziente sul cofano di una ormai distrutta Toyota, prima di infilarsi tra i rottami. Lui gli tenne dietro, cercando di muoversi come poteva tra lamiere ed auto ammassate. Finalmente raggiunse un passaggio abbastanza largo da poter stare in piedi. Kagemusha si era accucciato sul tettuccio di quello che, al militare, sembrò un Pick-up della Mitsubishi a cui era stato staccato di netto il vano posteriore. Restava solo l’abitacolo, ridotto anch’esso piuttosto male. Gli parve di scorgere una scritta sulla fiancata, ma la violenza dell’acqua e l’abrasione del fango avevano come strappato la vernice rossa e argento. Ueno si fermò sul cofano, affacciandosi dal parabrezza senza più il vetro, e scorse un corpo. Il corpo di un uomo.
“Bravo, Musha, bravo!” gratificò il cucciolo, che rimase lì in attesa.
Il soldato si distese sul cofano, lasciandosi scivolare all’interno di mezzo busto, giusto il necessario per riuscire a toccare la figura adagiata su entrambi i sedili anteriori. Il volante non c’era più, quindi non fece troppa fatica, pur mantenendo lo sguardo attento e concentrato: c’era solo un motivo per cui il labrador aveva uggiolato e non abbaiato come al solito, ma gli sembrava quasi impossibile. Toccò la pelle del viso sporca del fango rappreso. Era fredda, per via dell’acqua, dei vestiti in buona parte strappati via dalla violenza del lahar e dell’essere rimasto quattro giorni all’addiaccio. Di sicuro, aveva un principio di ipotermia, ma… non era un freddo da ‘cadavere’. Fermò le dita sul collo, mentre da fuori alla fila di auto, Shigatsu attendeva una sua parola, così come il graduato più distante.
Ueno cercò il punto giusto e rimase in ascolto. Gli bastò un attimo ed i suoi occhi si spalancarono, quasi increduli. Si sporse di più e con entrambe le mani gli cercò il petto, lo tastò e quello che credeva d’aver immaginato trovò conferma.
“Oh, cazzo!”
Svelto si ritrasse e la prima cosa che fece, fu afferrare il labrador e scoccargli un bacio sul naso.
“Sei stato grande, Musha!” poi la sua voce risuonò per tutto ‘Lo Sfasciacarrozze’. “Shigatsu, fate venire un’unità di soccorso, presto! Qui ce n’è uno ancora vivo!”
L’interpellato boccheggiò. “Che cosa?!” e con la stessa agitazione riferì al suo superiore.
“Sergente Honda! Contattate il campo, signore, abbiamo trovato un sopravvissuto!”
Gli occhi del giovane si fecero enormi, mentre afferrava la radio che aveva con sé. In rapidi passi si fece dappresso ai suoi uomini. Anche Shigatsu era scomparso per raggiungere Ueno.
“Capitano Numikura, qui è il Sergente Honda.”
“Novità, Sergente?” la voce dell’uomo arrivò forte e chiara col suo tono basso e amaramente rassegnato.
“Assolutamente, sì! Abbiamo bisogno di un’unità per il soccorso, signore. C’è un superstite!”
“Dici sul serio?! Vi mando subito qualcuno. Ottimo lavoro. Chiudo.”
Di improvviso, anche se la persona intrappolata tra le auto fosse stata davvero l’unica ad avercela fatta, fu evidente l’aria elettrica di speranza rinata che serpeggiava tra tutti i militari impegnati nel recupero.
Honda si arrampicò sui relitti, osservando il lavoro degli altri due.
“Condizioni?” domandò, accovacciato sulla ruota di un furgoncino rovesciato di lato.
Ueno si volse. “Ipotermia e un braccio rotto. Dobbiamo tirarlo fuori.”
“Ma sei pazzo? E se avesse qualche lesione interna?” Shigatsu non aveva tutti i torti, così come il suo collega.
“E che vuoi fare, lasciarlo qui? Lo spazio è quello che è, la squadra di soccorso non potrebbe fare di più di quanto possiamo fare noi; non hanno nemmeno le ruspe per spostare tutta questa roba! E inoltre…” sollevò con occhio critico e preoccupato lo sguardo agli altri resti che sovrastavano il mezzo. “…non so per quanto tempo ancora potrà resistere questo Pick-up.”
“Ueno ha ragione. Procediamo con il recupero.” decise il Sergente e gli altri si misero immediatamente all’opera. Shigatsu scese dall’altra parte, dove aveva abbastanza spazio per riuscire ad aprire la portiera. Provò a tirare un paio di volte,  ma era bloccata. Ueno gli passò un pezzo di ferro recuperato dal marasma di macerie per fare perno e l’altro riuscì a forzare la serratura. Adagio, sollevò lo sconosciuto afferrandolo da sotto le braccia, mentre Ueno, di nuovo per mezzo busto dentro la vettura, lo prese per i piedi. Il Sergente osservò con attenzione ogni singolo momento delle operazioni, chiamando a raccolta anche Matsuda, seguito dal fedele Jethro. Crearono come una sorta di catena umana. Shigatsu teneva il corpo dalle parte della testa ed avanzava adagio, per uscire dal quel groviglio, Ueno arretrò fin dove poté, cedendo poi il posto proprio al Sergente che arretrò ancora. Ueno, intanto, cercava di fare quanto più spazio possibile fino a che la catena non si concluse con Matsuda che lo prese in consegna per ultimo, uscendo finalmente da quella sorta di loculo fatto d’auto. Adagiarono il sopravvissuto per terra e il Sergente si tolse la giacca, mettendogliela addosso per contrastare l’ipotermia. Su ordine del padrone, Kagemusha si accucciò accanto a lui per cercare di infondere calore al corpo.
Il primo a rivolgere la parola a quella specie di miracolato fu proprio Honda.
“Signore! Signore riesce a sentirmi?”

Non era mai stata quella la sua idea di morte.
Non tanto il modo, perché in cuor suo aveva sempre saputo che la pelle ce l’avrebbe lasciata, un giorno, quanto proprio l’essere morto.
Dov’erano gli angeli che cantavano tutti in coro? E la famosa luce bianca fuori dal tunnel? Lui non la vedeva e, a dirla tutta, non vedeva nemmeno il tunnel. Non vedeva sé stesso, non aveva coscienza della propria fisicità, c’era solo il nero ed era ovunque. Intrappolato in un enorme cristallo d’ossidiana dal perimetro infinito. E faceva… sì, faceva freddo.
Era forse questo quello che aveva provato anche la sua Aiko?
Da sola, perduta nel… niente.
Il solo pensiero lo fece tremare anche se non sentiva il proprio corpo, ma i brividi sì. Era orribile che le fosse toccata quella condizione di atroce solitudine. Gli faceva rabbia e tristezza.
Se avesse saputo che sarebbe finita in quel modo, avrebbe chiuso la propria esistenza già sul Ruiz, assieme ad Aiko, così lei non sarebbe stata sola, lui non avrebbe sofferto in maniera crudele per quattro anni e Yoshiko…
Ebbe l’impressione di sorridere, con una piega amara.
Yoshiko non sarebbe stata costretta ad assistere ad una cosa così devastante come la morte della persona amata.
Se il destino o chi per lui aveva solo voluto dimostrargli quanto fottuto e bastardo sapeva essere, beh, c’era riuscito e aveva pure superato sé stesso.
Poi, qualcosa sembrò mutare nella sua condizione di nulla assoluto. Sentì dei rumori o, meglio, dei versi, dei lamenti. Se era il famoso coro di angeli, non stavano messi molto bene.
Il lamento cominciò a divenire più forte e, sì, anche familiare.
Il guaito d’un cane.
E qualcosa di umido finalmente lo toccò, restituendogli nuovamente la sensazione di fisicità, concretezza, esistenza. Ma era tutto così labile; il corpo gli sembrava solo un ricordo perché la sua mente non riusciva a comandarlo, a muoverlo. Forse non c’era nessun corpo da muovere. Forse era diviso in migliaia di pezzi.
Altri rumori, di metallo, di voci. Urla concitate che si davano da fare, che impartivano ordini l’un l’altra e altri tocchi, più decisi. La mente che riprendeva a focalizzarsi dando nomi alle parti del corpo – ma allora era tutto intero! – che venivano toccate: braccia, collo, petto, piedi, gambe. E poi il movimento. Lo stavano sollevando e… spostando. Lo percepiva. Lo capiva.
Ad un certo punto, il freddo iniziò ad allentare la sua morsa e si rese conto d’esser nuovamente fermo. Le nere pareti d’ossidiana s’erano fatte più sottili, chiare. Quel nulla aveva un perimetro, una fine e lui vi era prossimo.
Anche le voci, in maniera omogenea e continua, acquisirono un significato: erano parole e avevano un senso e avevano una, anzi, più persone che le stavano pronunciando.
“Signore! Signore riesce a sentirmi?”
Sì, sentiva, e allora, forse, non era morto.
E se non era morto doveva aprire gli occhi.
E se non era morto doveva respirare – lo stava già facendo? –.
E se non era morto doveva alzarsi, nonostante il dolore – sentiva il dolore? Sì, lo sentiva! – andare da Yoshiko, abbracciarla più forte che poteva e dirle quanto meravigliosamente l’amasse.
E se doveva fare tutto questo, allora perché stava piangendo?
Non lo sapeva e non cercò una risposta.
Il suo primo, faticoso movimento fu di aprire la bocca.
Avvertiva il peso del fango incollargli la pelle e renderla di pietra, una pietra che si crepa e poi si spacca. Gli occhi varcarono il limite dell’ossidiana, schiudendo le palpebre adagio e tremanti. Si chiusero quasi subito; la luce gli sembrava così intensa, e le lacrime che scendevano agli angoli bruciavano. Poi li riaprì ancora, piano, un filo per volta, e le prime immagini cominciarono a prendere forma. Contorni, colori, figure.
Un uomo gli stava sorridendo, il verde della divisa gli fece capire chi fosse. Gli parlava a raffica, ma in maniera chiara.
“Riesce a capirmi? Ricorda cosa è accaduto?”
Le immagini del lahar scorsero come un fiume. Il grigio cemento, l’acqua e il fango ovunque; il loro sapore, l’impatto, il venire trascinato da una forza inumana e il pianto di Yoshiko che riecheggiava nel gorgoglio del muflow. Poi, più nulla.
Ricordava tutto.
“…sì.” fu più un mezzo sospiro che una risposta vera e propria, ma venne compresa.
“E ricorda come si chiama?”
Diede fondo a tutte le sue energie per tirar fuori la voce e articolare le lettere.
“Y… Yu… zo… Mori… Morisaki…”
Il Sergente Honda mise mano alla cartella che aveva con sé, velocemente prese a sfogliare la lista di nomi con i dispersi.
Yuzo Morisaki, vulcanologo dell’FVO.
Con un sorriso ancora più ampio, il giovane lo depennò.
“Signor Morisaki, bentornato nel mondo dei vivi.”
Yuzo chiuse gli occhi, mentre le labbra si distendevano nel suo primo sorriso.
Sì, era tornato. La sua guerra personale era finita e lui aveva vinto.

Con il vassoio su di un braccio, Taro bussò con due colpi leggeri e, come sempre, non ottenne risposta.
Il giovane sospirò, aprendo piano la porta. “Yoko, sto entrando.”
Sapeva che in quattro giorni nessun miracolo avrebbe potuto riportare le cose come erano prima, ma tutte le volte che vedeva sua sorella seduta presso il davanzale della finestra chiusa, con le gambe raccolte al petto e lo sguardo fisso all’esterno di cui sapeva non stesse osservando nulla, gli si stringeva il cuore.
E così la trovò anche in quel momento, come era stato per la mattina e la sera precedente.
Yoshiko aveva lo sguardo rivolto ai vetri rigati dalla pioggia e le labbra serrate in un mutismo che lo stavano facendo seriamente preoccupare. Ancora ricordava la sua disperazione, quelle grida che le sgorgavano dal cuore come sangue vivo. L’aveva tenuta stretta per tutto il tempo, l’aveva cullata per tentare di calmarla, ma lei era come se nemmeno fosse stata lì, non si rendeva conto di ciò che la circondava quasi fosse divenuta cieca e sorda insieme. Poi, quando la voce l’aveva abbandonata, era divenuta anche muta e lui non aveva più saputo che fare.
Taro avanzò nella stanza per gli ospiti della sua casa ad Iwata. Sul viso spiccavano i bendaggi e i cerotti che gli avevano messo all’ospedale di Shimizu City dove erano stati portati dalle unità di soccorso.
“Ti ho portato del tè caldo, tesoro, perché non ne bevi un po’?” glielo disse avvicinandosi al piccolo tavolo che c’era nella camera. Il vassoio col pranzo perfettamente intatto. Sospirò ancora, appoggiando quello col tè fumante e prelevando l’altro. “Yoshiko, per favore, dovresti mangiare qualcosa. Sono quattro giorni che quasi non tocchi cibo. Sono preoccupato per te.”
Lei non rispose né si girò, mentre fuori continuava a piovere in maniera uggiosa e sottile.
Taro le si avvicinò adagio, e con una certa rassegnazione le carezzò la testa, posandole un bacio tra i capelli.
“Ti voglio bene. Quando vuoi parlare, sappi che sono sempre qui. Va bene? Il tè è sul tavolo.”
Era consapevole che non avrebbe avuto risposta, così lasciò la stanza chiudendo la porta alle sue spalle e poggiandovisi contro. Ripensò a come, in pochissimi giorni, fosse successo veramente di tutto, forse troppo, e a come ora, mentre sul Fuji l’eruzione continuava ad imperversare, fosse calata su di loro una sorta di strana stasi fatta di attese. L’attesa di ricevere una telefonata. Forse, solo allora, quando la voce di Sanae le avesse comunicato il ritrovamento del cadavere di Yuzo, Yoshiko avrebbe cominciato a farsene una ragione. Nel frattempo, come fratello non poteva fare altro che aspettare  e starle vicino. D’un tratto, la vibrazione del cellulare lo distolse dai suoi pensieri, assieme alle note della suoneria. Svelto mise mano alla tasca cavando l’oggetto con una certa ansia e fissando il display col fiato sospeso, ma lo rilasciò con un pesante sospiro quando capì che non erano le notizie tanto attese.
“Mamma?” rispose dopo qualche momento.
“Ciao, Taro.” la donna aveva la voce stanca e preoccupata, come ogni singolo giorno in cui telefonava per avere notizie. “Come stai?”
“Come sempre. La situazione non è cambiata.”
Yumiko parve capire senza che lui dovesse specificare. “Almeno ha cominciato a mangiare qualcosa?”
“Pilucca giusto il necessario.”
A Taro sembrò che sforzasse un sorriso per quanto non potesse vederla.
“E’ già qualcosa. Forse dovrei venire lì e-”
Ma lui la stroncò prima che potesse terminare. Sapeva già che la sua presenza non avrebbe fatto altro che peggiorare le cose. “No, mamma. L’eruzione è ancora in atto e dicono che ne avrà per molto. Non muoverti da Sendai, per favore. Yoshiko non è da sola, qui, ci sono io, non preoccuparti. Penso io a lei.”
Stranamente per quanto fosse consapevole che avrebbe voluto impuntarsi come suo solito, Yumiko non insistette.
“Va bene, tesoro. Allora ti chiamerò più tardi o domani. Fammi sapere se ci sono novità, anche le più piccole. Per favore.” l’ultima richiesta gliela rivolse proprio come una supplica e Taro sorrise.
“Ma certo, mamma, sarai la prima a sapere.”
“Grazie.”
La conversazione morì così, dopo un rapido commiato. Il campione del Jubilo Iwata osservò il cellulare un’ultima volta prima di metterlo via. Sperava davvero di potergliele comunicare presto queste novità, ma sapeva che, comunque, non sarebbero state buone.

Il suono del cellulare di Taro, ovattato all’esterno della porta chiusa, le aveva fatto trattenere il respiro per un attimo talmente lungo che aveva creduto di morire. Il cuore, o ciò che ancora ne restava tra le macerie, aveva smesso di battere di colpo, lasciandola in uno stato d’ansia così doloroso da sentire lo stomaco implodere. Poi il nodo si era sciolto quando suo fratello aveva risposto e, no, non era la telefonata che da quattro giorni stava aspettando.
Quattro giorni in cui aveva sviluppato la fobia dei telefoni, quattro giorni in cui navigava come sospesa in una lenta e logorante agonia, consumata goccia su goccia ed il desiderio che non finisse mai per quanto atroce. Rompere quella sorta di equilibrio precario sarebbe stato come doversi risvegliare a tutti i costi; ammettere, convincersi, concretizzare, accettare ciò che era accaduto e prepararsi a dirgli addio per sempre.
Yuzo.
Quattro giorni in cui il suo nome era risuonato assieme alle grida e al rifluire dell’acqua. Quattro giorni che non aveva fatto altro che vedere fango, davanti ai suoi occhi, che lo stringeva tra le spire come una serpe, portandolo con sé.
Dove?
Chissà.
Yoshiko non sapeva se potesse esser capace di sopportare anche il pensiero di saperlo intrappolato in un muro di fango duro come cemento. A stento riusciva a comprendere come non fosse ancora crollata del tutto, come mantenesse una sorta di distaccata lucidità che la teneva seduta lì e immobile a guardare Iwata oltre i vetri e non vedendo altro che Nankatsu: la paura della gente, il fumo delle auto abbandonate, l’odore del Fuji. Le nubi basse, che stavano continuando a riversare pioggia sottile, avevano coperto la visuale e scorgere il vulcano non era possibile, ma Yoshiko riusciva a vederlo ugualmente attraverso quei ricordi troppo vividi che lo disegnavano senza difficoltà.
Ma pensandoci meglio, forse era già crollata perché non riusciva a fare altro che quello: osservare e rivivere istante per istante l’attimo in cui Yuzo le era stato trascinato via. Non parlava, non si muoveva, era un involucro, un guscio: le sarebbe bastato un solo tocco per rompersi del tutto e sapeva che sarebbe accaduto solo quando il telefono avesse squillato portando con sé la realtà.
Adesso capiva, e lo capiva davvero, cosa Yuzo aveva provato alla morte di Aiko, quando le sue mani non erano riuscite a tenere la presa, quando la sua debolezza gli era stata sbattuta in faccia, quando il senso di impotenza gli aveva urlato che niente, non avrebbe potuto fare niente per salvarla, quando tutto il suo corpo avrebbe voluto lanciarsi nel vuoto e morire assieme a lei.
Lo sapeva.
E, Dio, quanto era devastante.
Yuzo ci aveva messo quattro anni per riprendersi, rialzarsi e lasciarsi tutto alle spalle. E a lei, che erano passati solo quattro giorni, il concetto di ‘anni’ sembrò lungo un’eternità. Non sapeva nemmeno se avesse mai potuto riprendersi per davvero, perché non era così forte e perché non voleva accettare di non poterlo avere accanto mai più: di non poterlo vedere seduto al divano, pc sulle gambe e sigaretta tra le labbra, di non poter sentire la sua voce raccontarle aneddoti di avventure passate, di non poter avvertire il tocco delle mani, il calore del suo abbraccio, il suo profumo. Sforzava di recuperarne il ricordo, scavando nella mente come fosse anch’essa coperta dal fango, ma non vedeva altro che il suo ultimo sorriso sparire d’un tratto nell’acqua sporca.
Il labbro cominciò a tremare, mentre tutte le emozioni provate in quell’ultimo istante tornarono ad attraversarla come un’onda. Gli occhi umidi e Nankatsu che sembrava venisse investita da un nuovo lahar, ma Yoshiko si sforzò. Inghiottì le lacrime che non credeva d’avere ancora, trattenne il pianto e chiuse gli occhi, per distendere i tratti del viso che si erano contratti e tornare ad essere una maschera morta nell’attesa che il tempo passasse, e lo sapeva, lo sentiva come un formicolio sottopelle che, oramai, era in procinto di scadere.
Poi, il telefono di casa penetrò nel suo scudo di silenzio e Yoshiko tornò a trattenere il fiato.

Taro si era fermato a posare il vassoio in cucina prima di tornare nel salotto.
Nonostante la presenza di ospiti, la stanza era ugualmente silenziosa ed il clima teso.
Hanji Urabe restava seduto nella poltrona, le braccia conserte ed il dito che le tamburellava con nervosismo. Nel divano c’erano Azumi e Yukari, mentre Ryo restava in piedi presso il balcone con lo sguardo rivolto in direzione del Fuji. I coniugi Ishizaki avevano lasciato la prole a casa con la madre di Ryo, scampata al disastro solo perché si trovava ad Iwata da qualche giorno.
Come videro Taro comparire nel salotto, gli occupanti gli rivolsero meccanicamente lo sguardo.
“E allora?” chiese Azumi, ma la metà della storica Golden Combi scosse il capo, per indicare che non c’erano state reazioni di alcun genere e Yoko continuava a restare muta, sorda e immobile. Azumi insistette. “Ha almeno mangiato qualcosa?”
“Il piatto era tal quale come gliel’ho portato. Non ha toccato nulla.”
A quel punto la ragazza sospirò pesantemente.
Yukari si portò una mano al viso. “Così non va bene. Non sarebbe il caso di chiedere a Yayoi di provare a parlarle?”
Il giovane scosse il capo. “E’ stata proprio lei a dirmi di lasciarla tranquilla per questi primi giorni e non forzarla a confidarsi. Quando avranno… trovato Yuzo, allora, si vedrà. Dipende dalla sua reazione.”
“Sembra un enorme déjà-vu. Non avrei mai creduto di dover rivivere la stessa situazione della morte di Aiko.”
Ryo tornò a guardare l’esterno, serrando il pugno con rabbia. “Tutto questo è incredibile e a me non sembra ancora vero. In un colpo solo, il Fuji s’è portato via la nostra città e… e l’amico di una vita.” le labbra, curvate in una piega amara, restituirono l’espressione di un irriconoscibile Ishizaki. “Cristo! È assurdo!” ringhiò.
Yukari s’alzò adagio per raggiungere il marito. “Siamo miracolosamente riusciti a metterci in contatto con Kumi.” affermò, stringendo il pugno di Ryo. “Dice che Mamoru sembra un leone in gabbia perché non c’è modo di lasciare Yokohama: la cenere e i lapilli hanno bloccato completamente la città ed è stato fatto divieto di uscire dalle case.”
Urabe guardò Taro. “Novità da Sanae?”
I coniugi Ozora si trovavano a Shimizu City dove venivano trasportate le vittime recuperate nella zona Ovest del vulcano. Una fabbrica aveva messo a disposizione un enorme capannone dove la Protezione Civile aveva allestito il centro informazioni per i dispersi e le vittime. Restavano lì, assieme allo zio di Sanae e i coniugi Morisaki.
“Nessuna. L’ultima volta che l’ho sentita ha detto che era arrivato anche Genzo dalla Germania. Ci sono trasporti di corpi praticamente ogni giorno e nessuno ha idea di quanti ce ne siano ancora da trovare.”
“Come ha potuto farci questo?” riprese Ryo in un sussurro, continuando a guardare fuori, quasi che il Fuji fosse stata una persona vera che li aveva traditi, pugnalati alle spalle. “Mi ricordo ancora di quando, durante il World Youth, abbiamo raggiunto la vetta per vedere il sorgere del sole e augurare proprio a te, Taro, una pronta guarigione dall’infortunio.” l’aleggiare di un sorriso ironico e triste “Sembra passata un’eternità.”
Yukari appoggiò il mento sulla sua spalla, con gli occhi lucidi. A ripensarci ora, sì, sembrava avessero scalato un’altra montagna che purtroppo non esisteva più.
Poi, il telefono spezzò il silenzio che era nuovamente calato assieme all’attesa. Ciascuno di loro lo guardò senza dire una parola, fino a che Taro non si decise a prendere il cordless per rispondere e sapere, così, se tutto stava per cambiare.
“Sì, pronto?”
Gli sguardi fissi su di lui, la tensione palpabile e poi la conferma che l’attesa era finita.
“Ah, ciao Sanae.” riprese Taro ed il nervosismo trapelava nettamente dalle sue parole. “Novità?” un attimo di silenzio intercorse tra quella domanda e la sua frase successiva, durante la quale chinò il capo. “Capisco, l’hanno trovato.”
Ryo strinse i denti per celare la voglia che aveva di rompere qualcosa, Azumi e Yukari sospirarono rassegnate e Urabe si alzò in piedi per scaricare la tensione, quando qualcosa sembrò cambiare.
Taro sollevò il capo di scatto, sbottando quell’incredulo: “Cosa?!” che si attirò nuovamente gli sguardi degli altri presenti. “Dove?!” continuò “Sì, sì certo, arriviamo!” e chiuse la comunicazione fissando i presenti con la bocca semiaperta in un sorriso incredulo che gli distese adagio le labbra.
Azumi gli toccò il braccio. “Taro, che succede?”
L’interpellato continuò a sorridere, le sue espressioni che si succedevano velocemente sul volto ma il sorriso era sempre lì, sempre più largo.
“L’hanno trovato.” ma gli altri non sembravano comprendere la sua euforia fino a che non aggiunse quell’incredulo: “Vivo.” che lasciò muti i presenti.
Azumi si portò una mano alla bocca, mentre le si inumidivano gli occhi. Yukari lasciò il braccio di Ryo che fissava Taro con gli occhi spalancati.
“Cosa… cosa hai detto?” chiese, avanzando di qualche passo verso di lui.
“E’ vivo!” Taro era incredulo quanto loro, ma dentro di sé stava già rendendosi conto della realtà, quella che non avrebbe mai creduto possibile. “I-io non so come abbia fatto, ma Sanae ha detto che lo hanno trasportato all’ospedale di Shimizu e che… e che ha qualcosa di rotto, escoriazioni, ma… se la caverà. Se la caverà!” lo ribadì con un senso di sollievo che inumidì anche i suoi, di occhi, mentre Azumi gli stringeva la mano con forza, cercando ed ottenendo il suo sguardo.
“Devi dirlo subito a Yoshiko!” esclamò Yukari preda di un’euforica agitazione, supportata da Ryo anche lui su di giri.
“Sì! Noi andiamo a prendere la macchina! Vi aspettiamo giù. Andiamo, Hanji.” Ishizaki afferrò il cappotto e le chiavi in tutta fretta, seguito da Yukari e Urabe che non persero tempo. L’attimo dopo la porta si chiuse alle loro spalle.
“Credi sia un miracolo?” l’interrogò Azumi appena furono rimasti soli. Lo sguardo del giocatore del Jubilo di nuovo nel suo, sorridente.
“Non lo so, non so cosa credere, però… c’è sempre una prima volta.”
Lei ricambiò il suo sorriso, lasciandogli la mano.
“Va’ a dirlo a tua sorella; lei sta aspettando.” aspettava la conferma di una morte che aveva visto con i propri occhi, ma mentre Taro raggiungeva in rapidi passi la camera, di certo non poteva immaginare che ciò che era cominciato con gli intenti più drammatici avrebbe avuto la fine più lieta.

Era rimasta ad ascoltare il silenzio che aveva seguito lo squillare del telefono con lo stomaco distrutto, roso dall’ansia. Poi, la morsa aveva cominciato ad allentarsi nell’ennesima illusione che non fosse quella la telefonata che stava aspettando, ma quando aveva udito l’avvicinarsi svelto del passo di Taro, l’illusione si era infranta e lei aveva capito che l’attesa, atrocemente, era finita.
Finalmente, dopo un tempo che era sembrato lungo un’eternità, Yoshiko mosse il capo per guardare la porta. Da lì la realtà sarebbe entrata per ucciderla ancora con il colpo di grazia.
L’avrebbe perso per sempre… non voleva… oddio, non voleva. Non voleva sentire che non avrebbe potuto abbracciarlo mai più, non voleva sentire che l’avevano trovato, che non c’era più nulla da fare, che era finita, che l’avrebbero sepolto, che doveva cominciare a farsene una ragione.
Gli occhi punsero con violenza inaudita, sapeva che stava per esplodere, per urlare ancora come quando si trovava sul tetto e piangere nuove e più lacrime, ma le trattenne, stoicamente. Le serrò con tutte le sue forze mentre la porta s’apriva, prima adagio, introducendo la voce di Taro, poi con decisione. La figura di suo fratello comparve e si fece avanti. Frenesia nei gesti e nel volto, uno strano brillare nelle iridi scure, mentre la guardava con dolcezza, fermandosi al centro della stanza.
“Yoshiko…”
Ma lei non gli diede il tempo di finire che lo interruppe. Per la prima volta, dopo giorni di silenzio, risentì la propria voce. Ed era così vuota e fredda che non la riconobbe.
“Lo hanno trovato, non è così?”
Ancora quel brillio. “Sì.”
Yoko annuì, muovendosi adagio, quasi non avesse voluto separarsi da quella finestra. Il ‘sì’ di Taro che rimbombava nelle sue orecchie e nella testa che, invece, urlava quell’isterico: ‘No! No! No!’. Come un relitto che si trascinava per forza di inerzia, come una nave fantasma senza più una rotta da seguire ed un capitano a governarla, s’avvicinò alla sedia, accanto a suo fratello. Cercò sostegno nella spalliera.
“Sono pronta, andiamo.” anche se non era vero. “In quanto tempo raggiungeremo il centro di riconoscimento delle vittime?”
Ma le mani gentili di suo fratello la presero piano per le spalle e le fecero alzare lo sguardo con perplessità, anche se nulla trapelava dalla sua espressione.
“Non stiamo andando al centro.” disse il giovane con calma e lei non comprese. “Stiamo andando all’ospedale.”
Non capì, di nuovo. “Ospedale? Perché all’osp-” la frase rimase incompiuta, intrappolata nella bocca. Il brillio negli occhi di suo fratello che sembrava come parlarle, rispondendo alla sua confusione. Gli sguardi comunicarono tra loro la realtà delle cose, si sussurrarono il perché e le iridi di Yoshiko si fecero enormi, mentre la maschera apatica e distante si rompeva di schianto in due esatte metà.
L’incredulità, l’impossibilità, la paura anche solo di formulare l’ipotesi più desiderata nella mente scivolarono sulla sua mimica, facendo tremare le labbra e il corpo. Poi, il sorriso di Taro fu abbagliante nella sua bellezza e riconobbe, nel brillio dei suoi occhi, il sentimento della felicità. Le mani del fratello corsero dalle spalle fino al viso, tenendolo vicino al suo per poterlo osservare meglio.
“Non finirà come avevamo creduto, Yoko.”
E mai più dolci le parvero quelle parole e la consapevolezza che prendeva corpo, diveniva materia liquida come le lacrime che gravavano sugli occhi, forte come il dolore che fuggiva via e lento come il cuore che si ricomponeva, pezzo per pezzo, nel suo petto e ogni frammento ritornava al suo posto con quel sospirante ed incredulo: “E’ vivo.”
L’avrebbe avuto ancora accanto a sé.
- E’ vivo. -
Avrebbe avuto ancora il suo sorriso a scortare i suoi giorni.
- E’ vivo. -
Avrebbe avuto ancora le sue braccia a circondare il suo mondo.
- E’ vivo. -
Taro aggrottò le sopracciglia con affetto, nell’osservare quell’alternarsi di emozioni sul viso della sorella e l’abbracciò adagio, sussurrandole all’orecchio.
“Puoi piangere, se vuoi. Le lacrime di gioia non hanno mai fatto del male a nessuno.”
Lei ricambiò la stretta con una forza che lo fece sorridere. E mentre di lontano il Fuji continuava ad eruttare, Yoko pianse, ma d’amaro, ora, non v’era più nemmeno il ricordo.

Del tragitto per arrivare a Shimizu, Yoshiko non ricordava nulla se non che fosse troppo lungo. Lo sguardo fisso fuori dal finestrino e le mani a rimestare, tra nervosismo ed impazienza, la povera sciarpa.
Per l’ultima volta ancora, ma senza fare più male, davanti ai suoi occhi erano scivolati, assieme al panorama, i ricordi di ciò che si era succeduto quell’infausto giorno. Tutti gli eventi s’erano incastrati con una sequenza perfetta: dalla mattina in cui Yuzo l’aveva buttata giù dal letto, fino a quando non erano arrivati i soccorsi e l’elicottero li aveva prelevati per portarli al sicuro, lontano da quel luogo. Aveva rivissuto ogni momento per non dimenticare mai e per sentire con forza il senso di gioia inondarle il petto al pensiero che Yuzo fosse vivo; che il fango, così come l’aveva portato via, glielo aveva restituito.
Davanti a lei, Taro e Azumi avevano continuato a parlare ma lei non li aveva nemmeno sentiti. Nei suoi occhi aveva brillato solo il desiderio di rivederlo e nelle orecchie era riecheggiato solo il suono della sua voce che tornava a parlarle. Null’altro.
Quando la vettura si era fermata davanti all’ospedale, ogni pensiero si era interrotto lasciando che i rumori esterni tornassero a rifluire al suo udito, assieme al cuore che batteva impazzito.
Ora che tutto il gruppo stava entrando velocemente nell’edificio, capeggiato da Taro al telefono con Sanae che gli diceva dove andare, sentiva che ogni suo passo era dominato da una continua vertigine. Le scale che portavano al secondo piano, Yoko non le vide nemmeno e col cuore in gola, varcò la pesante porta assieme agli altri, scorgendo le figure note di Tsubasa, Genzo e Nastja. Sanae si fece loro incontro, abbracciando Azumi prima e poi Taro.
“Siete arrivati! Avete fatto presto.” disse con un largo sorriso sereno. Anche lei era stata terribilmente in ansia per le sorti del Prof, aveva già dovuto dire addio ad una cugina per colpa di un lahar, sapere che anche a Yuzo era toccata lo stesso destino le aveva spezzato il cuore, costringendola a piantonarsi a Shimizu in attesa che venisse ritrovato.
Nemmeno lei avrebbe mai sperato in un simile miracolo.
Quando vide Yoshiko, il sorriso le si fece ancora più ampio e luminoso, ma anche rassicurante. Yoko pensò che sapesse quello che c’era tra lei e Yuzo perché si premurò di dirle: “Non preoccuparti, presto starà bene.” dandole un affettuoso bacio sulla guancia. Poi la signora Ozora era stata monopolizzata da Ishizaki e gli altri e lei non era stata in grado di chiederle nulla.
Yoshiko continuava a spostare lo sguardo da Sanae a Taro e gli altri che seguitavano a parlare delle ferite, del ritrovamento, ma nessuno che le dicesse dove fosse, come potesse raggiungerlo. In quella cacofonia di voci e persone, scorse la squadra di Yuzo un po’ più distante, seduti nelle poltroncine di tessuto arancio, che richiamavano i colori dell’ospedale. Con un sorriso sgusciò via, praticamente non vista dagli altri troppo presi a discutere. Era felice di sapere che stessero tutti bene, Ricardo era addirittura divenuto una specie di eroe per ciò che era accaduto allo Stadio.
Fu proprio l’ispanico il primo a notarla, mentre veniva fuori dal gruppetto di calciatori, e, appena la vide, prese a sbracciarsi.
“Ragazzi, che gioia rivedervi!”
Rick sollevò furbescamente le sopracciglia. “Sei venuta a trovare il miracolato?!” ridacchiò.
Lei arrossì appena, spostando i capelli dietro l’orecchio. “Sì, ma non mi hanno ancora detto dov’è…”
Rita le strizzò l’occhio con complicità. “Il corridoio oltre quella porta.” le indicò col mento. “Ultima stanza sulla destra. È tutto tuo.”
Rick, accanto a lei, continuò. “Lo sai dove l’hanno trovato?” chiese, lasciando che l’interrogativo rimanesse sospeso per qualche altro attimo negli occhi nocciola di Yoshiko. Non aveva ancora avuto la lucidità necessaria per ascoltare la storia per filo e per segno e anche fino ad un attimo prima era stata come sorda alle parole di Sanae: tutta la sua attenzione era focalizzata solo a sapere in quale stanza fosse Yuzo e alla voglia di vederlo. “Dentro un Pick-up. E solo Dio sa come c’è finito.”
Yoko inarcò le sopracciglia con sorpresa, mentre Toshi continuava.
“Comunque sia avvenuto, è stata la sua salvezza: gli ha evitato il soffocamento a causa del fango e lo ha riparato dal freddo, impedendogli di congelare. L’ipotermia non era ancora moderata. Il mezzo era sommerso e accerchiato da altre vetture, tutte ammassate. Lo hanno protetto, come uno scudo.”
Yoshiko strinse i lembi della sciarpa con forza per sfogare la preoccupazione. “E… e come sta?”
“Un braccio rotto, qualche costola inclinata e contusioni varie.” elencò Rita con un sorriso. “Gli è andata di gran lusso.” ma Rick gonfiò il petto con ironia.
“Avrebbe dovuto prendere esempio dal sottoscritto, ammirate: eroe e senza neanche un graffio!” si gongolò, ma subito ricevette uno scappellotto da Rita.
Stevem’ scarz ‘a galletti, eh? Che affare aggio fatto.[1]
Ma stavolta, tra le risate divertite degli altri, Rick non si imbronciò, anzi, incrociò solennemente le braccia sostenendo con audacia lo sguardo della sismologa.
“Il migliore che ti potesse capitare, cariño.”
L’italiana scosse il capo senza aggiungere altro, ma levando nuovamente lo sguardo su di lei. “Non ascoltare certi deliri d’onnipotenza e raggiungi il tuo, di eroe. Sono sicura che ti sta aspettando.”
Negli sguardi degli altri membri della squadra, Yoshiko lesse lo stesso sostegno e complicità e lei annuì, facendo un breve inchino di ringraziamento prima di raggiungere in fretta la porta altre la quale il corridoio era costellato di camere. Mentre scompariva ai loro sguardi, non notata dal gruppo di calciatori e consorti immersi in discorsi riguardanti gli ultimi eventi, Hideki si passò la mano sul mento. La vistosa ingessatura alla gamba lo costringeva a tenerla dritta e a muoversi con la sedia a rotelle.
“Così, lei sarebbe la famosa ‘Occhi Belli’?”
Rick allargò le braccia, coprendo le spalliere delle sedie accanto alla sua, sulle labbra il sorriso sereno di chi ha la certezza che, incredibilmente, tutto è bene quel che finisce bene. “Proprio così.”
E anche Hideki sorrise con affetto, nel pensare che quella ragazza così giovane fosse la persona che aveva fatto tornare Yuzo ciò che era stato un tempo.
In tutta quella devastazione, qualcosa era riuscito a salvarsi; poteva esser un buon inizio da cui ripartire.

Scivolare oltre quella porta ebbe come l’effetto di farle lasciare alle spalle il resto del mondo.
Gli schiamazzi del chiacchiericcio vennero chiusi fuori il pesante uscio tagliafuoco, lasciando che si immergesse in un corridoio quieto e silenzioso. Dalle camere proveniva il sommesso brusio dei pazienti che parlavano con chi era andato a far loro visita, ma anche quel rumore si smorzava appena Yoshiko superava le porte aperte.
La giovane non si guardò attorno nemmeno per un attimo, ma puntò dritta il fondo. Rita aveva detto che Yuzo si trovava nell’ultima stanza sulla destra e lei continuò a camminare col cuore che sembrava volesse scapparle dal petto.
Nemmeno s’accorse che c’era un’altra persona, lì fuori, che restava ferma ad osservare il vetro che dava all’interno della camera con le mani in tasca. Yoshiko non vedeva nulla oltre al suo obiettivo, la meta, che diveniva lentamente, come se i suoi passi stessero susseguendosi a rallentatore, sempre più vicina. Adagio, e trattenendo il respiro per un attimo, fece capolino. Una tenda veneziana copriva il vetro, ma tra le maglie aperte lo vide.
Solo allora, nel preciso istante in cui i suoi occhi incrociarono finalmente la figura del Prof, il cuore rallentò quasi a fermarsi, diffondendo un caldo senso di tranquillità.
Yuzo dormiva. Gli occhi chiusi e il capo adagiato sui cuscini che gli tenevano sollevata la schiena. La fronte avvolta da una fasciatura ed un’altra era evidente sul collo. Il braccio destro era ingessato e lunghi tubi sottili attaccati a delle flebo si diramavano da quello sinistro. Le gambe erano nascoste sotto le coperte, mentre il petto s’alzava ed abbassava adagio nel quieto respirare.
Era vivo, si disse ancora Yoshiko, e tutto il resto, improvvisamente, non ebbe più importanza. L’imponenza dell’eruzione, la distruzione di Nankatsu, la fuga, la morte, la paura… niente contava più, solo che Yuzo era lì a pochi passi da lei, oltre quel vetro, ed era vivo. Presto avrebbe aperto gli occhi, le avrebbe sorriso, parlato. Tutto il resto era già ricordo.
Con le labbra che si distendevano senza che lei se ne rendesse conto e due lacrime silenziose che venivano giù, portò meccanicamente le mani al vetro, quasi avesse potuto toccare il giovane ed essergli più vicino.
Accanto a lei, l’uomo rimase tutto il tempo ad osservarla senza dire nulla, sulle prime, e poi sorridendo con una certa curiosità per quella strana ragazza che sembrava non avere occhi che per Yuzo. A quel pensiero, sembrò finalmente comprendere la sua identità, sorridendo con maggiore piacere e anche riconoscenza.
“Si era ripreso, prima, ora sta solo riposando un po’.” esordì in tono calmo.
Yoshiko non parve rendersi pienamente conto di non essere da sola, ancora immersa in una estatica contemplazione d’amore. Tuttavia rispose.
“Ah, sì?” a fatica staccò gli occhi dal Prof inquadrando l’uomo al suo fianco per qualche momento, prima di volgersi di nuovo. “Meglio così, dopo mi sente. Non penserà  mica di passarla liscia solo perché è in ospedale, vero? Sarò implacabile.” rise sottilmente e preparando già una sorta di ramanzina per dirgli quanto atroce fosse stata la sofferenza d’averlo creduto morto. Poi, d’improvviso, la bolla felice ed ovattata che le stava attorno esplose in un leggero ‘puff’ facendole realizzare che c’era una persona accanto a lei e non aveva la minima idea di chi fosse.
Di colpo raddrizzò la schiena, sgranando gli occhi, poi si volse mortificata allo sconosciuto signore di mezza età, profondendosi in una marea di inchini.
“Oh! Mi dispiace, la prego di perdonarmi, sono stata maleducata e non mi sono nemmeno presentata. Non volevo disturbarla, volevo solo accertarmi che Yuzo stesse bene. Sono desolata.” parlò praticamente a raffica, facendo ridere di gusto l’uomo.
“Ma no, ma no. Non c’è bisogno, stai tranquilla.” affermò, agitando una mano e quasi sentendosi più in imbarazzo di lei per la sua formalità.
Yoshiko lo guardò da sotto in su, cercando di sorridere e sentirsi a suo agio. Quell’uomo le sembrò avesse qualcosa di familiare, anche se non riuscì a capire chi vagamente le ricordasse.
“Tu devi essere Yoshiko, dico bene? Sanae mi ha parlato molto di te.”
“Sì, signore.” la ragazza si irrigidì ancora di più. Il fatto che la conoscesse, mentre lei ignorava chi fosse, le metteva un po’ di soggezione.
“Io sono Hiroshi Nakazawa, il padre di Aiko.”
In quel momento, Yoko ebbe l’immediato impulso di voler fuggire a gambe levate, trovandosi però inchiodata sul posto; la bocca leggermente aperta sull’espressione sorpresa ed il disagio che divenne di colpo schiacciante. In fondo, lei era la persona che aveva permesso a Yuzo di mettere da parte il ricordo della figlia per poter ricominciare e, per un attimo, si aspettò uno sguardo scrutatore. Invece il signor Hiroshi continuò a sorriderle in maniera affabile.
Lei si riscosse, stringendo forte la sciarpa.
“E’… è un piacere, signor Nakazawa, Yuzo mi ha raccontato di Aiko.”
L’uomo scosse il capo, sollevando lo sguardo al cielo, quasi con divertimento. “Non stento a crederlo. Dovrebbe imparare che non è carino parlare di un’altra donna quando si è in compagnia.”
Le strizzò l’occhio e Yoshiko si rilassò, rispondendo al suo sorriso. Poi, entrambi tornarono a fissare la figura oltre il vetro.
“Non è colpa sua, sono stata io a chiedergli di parlarmi di lei. Mi dispiace davvero per quello che le è successo.”
Hiroshi la guardò con comprensione. “Sai, all’inizio ho odiato il loro lavoro con tutto me stesso, poi ho capito che se anche mia figlia avesse potuto avere altre cento vite, avrebbe scelto la vulcanologia ancora e ancora. Così mi sono rassegnato, perché gli incidenti possono sempre capitare, anche se le loro conseguenze sono capaci di spezzarci il cuore.” sospirò “Ma Yuzo ne aveva fatta una questione personale, una colpa: Aiko era morta perché lui non l’aveva protetta abbastanza.”
“Lo so.” mormorò Yoshiko, le sopracciglia aggrottate nel ricordare il pomeriggio in cui lui si era confidato e quanto fosse stato difficile.
La mano di Hiroshi si poggiò sulla spalla, attirandosi il suo sguardo. Quello dell’uomo era lucido e commosso.
“Allora puoi capire quanto io ti sia grato per avergli ridato quella serenità che aveva perduto assieme a mia figlia. Yuzo è stato un figlio per me, gli sarò sempre molto affezionato, e proprio per questo io sono davvero felice che lui abbia incontrato te, Yoshiko, perché anche se forse non te ne renderai mai davvero conto: lo hai salvato. Grazie.”
Yoko arrossì a quelle parole che non si sarebbe mai aspettata di udire proprio dal padre della ex-moglie di Yuzo e seppero scaldarle il cuore per il sentimento d’affetto che le riuscirono a trasmettere. Con un po’ di imbarazzo sorrise ad Hiroshi, abbassando lo sguardo.
In quel momento il passo deciso e un’altra voce maschile arrivarono alle sue spalle.
“Dannazione, possibile che il caffè di questo ospedale faccia così schifo?! È imbevibile, per la miseria.”
La ragazza si volse, incrociando il profilo di un uomo ben più alto di lei. I capelli corti ormai quasi completamente grigi, la sigaretta spenta tra le labbra e le iridi scure, dall’espressione rassegnata. Capì all’istante chi fosse nemmeno lo conoscesse già. Si somigliavano moltissimo in determinati gesti o espressioni, ma soprattutto nel modo di tenere la sigaretta. Era inconfondibile e Yoshiko sbiancò e arrossì in una sequenza perfetta.
Hiroshi inarcò un sopracciglio, scuotendo il capo.
“Ti farà male tutto quel caffè.”
“Lo so, lo so. Ma è una scusa per appoggiarci una sigaretta. Sono tre ore che non fumo!” insistette il nuovo venuto, dando una rapida occhiata a Yoshiko, salvo poi tornare ad osservarla con una certa curiosità. Si rese conto che non era la moglie di uno degli amici calciatori di suo figlio. Adagio prese la cicca tra due dita, sorridendo alla giovane.
Fu l’ennesima conferma per Yoshiko, adesso sapeva anche da chi il vulcanologo aveva ereditato il sorriso, oltre al vizio del fumo.
“Noi non ci conosciamo.” esordì l’uomo e Yoko fece un inchino, mentre Hiroshi si occupava delle presentazioni.
“Keisuke, lei è la ragazza di cui mi ha parlato Sanae.”
Per un attimo, la sorella di Misaki maledì la linguaccia di Anego. Già che c’era avrebbe anche potuto mettere i manifesti, tanto ormai era chiaro che tutti sapessero di lei e del Prof.
“Yoshiko?” domandò l’uomo con entusiasmo.
“Piacere di conoscerla, signor Morisaki.” disse, alzando di nuovo lo sguardo sul padre di Yuzo che ora la osservava con una certa sorpresa. Yoko rimestò la sciarpa, esibendo un sorriso. “E’… è perché vi somigliate molto.”
Il sorriso di Keisuke si fece più ampio e gentile; negli occhi la luce serena di chi finalmente non ha più nulla di cui preoccuparsi. “Il piacere è mio. Ho sentito così tanto parlare di te, anche se speravo di conoscerti in un’occasione migliore.” rise, grattandosi il sopracciglio.
“Chi si accontenta gode, Keisuke.” scherzò Hiroshi, dandogli una pacca sulla spalla.
“Ah, ma io sono contentissimo! Però sarei ancora più contento se riuscissi a prendere questo caffè.” pungolò col gomito il braccio del padre di Aiko. “Senti, c’è un bar fuori dall’ospedale, ci facciamo un salto? Tanto mio figlio, adesso, è in buone mani.” concluse rivolgendo un sorriso complice a Yoshiko che ricambiò ed arrossì.
“D’accordo, d’accordo, andiamo.” sospirò Hiroshi, superando la sorella di Misaki e rivolgendole un’occhiata divertita. La ragazza li vide allontanarsi lentamente lungo il corridoio e sorrise felice perché erano davvero due persone meravigliose e lei si sentiva fortunata ad averle conosciute.
D’un tratto, il padre di Yuzo si volse.
“Ah, Yoshiko: se vuoi, puoi entrare nella camera.”
“Eh? Davvero?” lei sentì le guance andare a fuoco ed il cuore batterle più forte.
“Ma certo, mia cara. E qualora dovesse svegliarsi, potresti dirgli che siamo nei paraggi?”
Yoko si profuse in un inchino tra l’imbarazzatissimo ed il grato all’ennesima potenza. “Assolutamente.”
“Ti ringrazio.” insieme ad Hiroshi ripresero a camminare fino a scomparire oltre le pesanti porte.
Yoshiko rimase a fissarle ancora per qualche attimo, mentre si chiudevano, per poi tornare a volgere lentamente lo sguardo al vetro, mordendosi un labbro. Adesso erano solo loro due.
Adagio, quasi in punta di piedi, scivolò oltre la soglia, richiudendola alle sue spalle senza che facesse il minimo rumore. La luce esterna filtrava dalle tende chiare aperte solo da un lato, mentre l’asettico odore di medicinali ed ospedale era stemperato dai fiori che spuntavano da un vaso poggiato sul tavolino accanto alla finestra.
A mano a mano che si avvicinava, i graffi che Yuzo aveva sul viso, sul collo, sulle mani divenivano più nitidi, scuri del sangue rappreso e della medicazione. Poi il suo sguardo si addolcì, soffermandosi sulle palpebre chiuse e l’espressione di riposo.
Piano, Yoko si tolse il cappotto, prendendo posto nella sedia accanto al letto, gli occhi che non riuscivano a separarsi da lui e l’emozione guidava ogni gesto o respiro. Sollevò una mano, carezzandogli la pelle del viso e quel calore, ennesima riprova che fosse vivo, le inumidì gli occhi e glieli fece pungere, ma ricacciò indietro le lacrime perché non voleva che Yuzo la vedesse piagnucolare come al solito. La prima cosa che il giovane avrebbe visto di lei, sarebbe stato il sorriso, Yoshiko se lo impose con convinzione mentre faceva scivolare la mano su quella del Prof adagiata sul letto.
La carezzò, seguendo le linee delle dita con sguardo adorante, come se le vedesse per la prima volta. Poi la prese tra le sue, sentendosi rinascere a quel contatto.
“Ciao…” mormorò “…alla fine sei riuscito a trovare il modo per restartene a letto, eh? Che pigro che sei. Guarda che Rick ti ha superato ed è stato più eroe di te, ha protetto l’intero Stadio Ozora.” scherzò, senza interrompere le sue carezze e nel frattempo si domandava se riuscisse a sentire la sua voce. “Ho… ho conosciuto il padre di Aiko, qui fuori, sai? E… mi ha ringraziato per averti salvato, dice, ma io penso di non meritare una tale fiducia, in fondo, sei finito all’ospedale per colpa mia.” sospirò, il groppo sempre in gola e le iridi fisse sulla mano. “Tutti hanno continuato a ripetermi che non è così, ma io so benissimo di esserne responsabile.” Ci aveva pensato così tanto, in quei quattro giorni, ed ogni volta che il ricordo di ciò che era accaduto tornava a svolgersi nella sua mente, arrivava anche quella vocina che continuava a ripeterle: ‘Se tu l’avessi ascoltato. Se tu gli avessi dato retta.’. “Avevo creduto d’averti perso per sempre… è stato insopportabile. Ora so come ti sei sentito sul Ruiz, ma io sono stata fortunata e tu sei ancora con me.” deglutì con uno sforzo e poi si impose di sorridere, cambiando argomento. Se Yuzo poteva sentirla, non voleva certo caricarlo anche delle sue recriminazioni. Inclinò il capo di lato ed i capelli le scivolarono lungo il viso. “Ho conosciuto anche tuo padre! Vi somigliate tantissimo: ambedue caffenicotinomani di prima categoria, accidenti! E comunque è stato imbarazzante! Ma lo sai che quella linguacciuta di Sanae l’ha detto praticamente a tutti che noi-”
Interruppe la frase nell’attimo in cui sollevò lo sguardo e le sue iridi si specchiarono in quelle aperte e vigili di Yuzo. il sorriso gli distendeva piacevolmente le labbra, mentre l’ascoltava con attenzione chissà da quanto tempo. Le mani di Yoshiko interruppero le loro carezze come se la mente fosse incapace di fare altro oltre a fissarlo e riempirsi gli occhi della sua presenza, della consapevolezza che fosse sveglio e il suo sguardo fosse solo per lei.
Il resto scomparve di colpo. Tutto il dolore e la paura d’averlo perduto si sciolsero come un incantesimo spezzato, così come il nodo alla gola che divenne liquido e le riempì gli occhi, ma lei si era imposta di non piangere no? E allora doveva trattenere, trattenere fino allo stremo.
“Ciao, chiacchierona…” mormorò Yuzo, muovendo la mano che Yoshiko stava stringendo. Lei arricciò il naso con ironia, la voce tremante.
“Ah, ma senti il… il signorino. Prima te la prendi con comodo e poi mi… mi dici anche che sono una chiacchierona? Su, puoi fare di meglio.”
Yuzo continuò a sorriderle con amore, sfilò le dita da quelle di Yoko e le sollevò con una certa fatica, lentamente, per poterle toccare il viso, dalla pelle liscia.
“Mi sei mancata.”
A quel contatto e a quelle parole, la sorella di Misaki non fu più in grado di trattenere le lacrime che corsero via dagli occhi stretti.
“Anche tu… da morire…”
Yuzo l’attirò a sé, lasciando che poggiasse il viso nell’incavo del suo collo. Sentì la sua testa sussultare per i singhiozzi, mentre le carezzava i capelli. Ne inspirò il profumo come fosse l’unico ossigeno e godette della sua presenza sotto le dita. Aveva creduto che non avrebbe potuto stringerla mai più, ne era stato convinto, ma ora tutto era cambiato e l’incubo finito.
“Credevo… credevo…” singhiozzò Yoko tra le lacrime, le mani strette alla t-shirt “…che non mi avresti… sorriso… parlato… eri sparito nel fango… ed io… io non potevo fare niente…”
Shhh… sono qui.” tentò di rassicurarla “Mi dispiace, non volevo che tu assistessi ad una cosa simile, te lo giuro.”
La sentì scuotere il capo e separarsi da lui, senza smettere di guardarlo.
“Non sei tu a doverti scusare, sono io che non ti sono stata a sentire mettendoti in pericolo e-”
Le dita di Yuzo si poggiarono dolcemente sulle labbra. “Non è così. So cosa significa portarsi addosso il senso di colpa, non voglio che lo faccia anche tu. Io sto bene, non devi più pensare a quello che è successo. E poi io avrei fatto lo stesso se mi fossi trovato al tuo posto.”
Lei annuì adagio, lasciando un bacio leggero sulle sue dita. Poi, Yuzo inarcò un sopracciglio con ironia.
“Allora, cos’è ‘sta storia che Rick è più eroe di me? Sentiamo.”
Yoko rise, asciugandosi gli occhi. “Ha salvato tutta la gente chiusa nello Stadio di Nankatsu senza farsi nemmeno un graffio.”
Nah! Ma il vero eroe è quello che porta a casa le ferite di guerra!”
“Ah, beh, tu ne hai a bizzeffe: con quel bendaggio attorno alla fronte sei già pronto per fare Rambo.”
“Preferivo quando mi paragonavi ad Indiana Jones.”
“Suvvia, non ti scoraggiare, eroe in stand-by, potrai rifarti al tuo prossimo viaggio.” disse lei con solennità, ma Yuzo non rispose subito, restando ad osservare il suo sguardo luminoso. Era già da un po’ che ci stava pensando, da prima che la situazione precipitasse di colpo. A dire la verità, l’idea si era insinuata nella sua mente in maniera subdola, fingendosi solo un pensiero passeggero. Poi, a poco a poco, nell’intenso via vai delle mille cose da fare, si era fatta più concreta, reale, solida. Non avrebbe mai pensato che potesse dirlo sul serio, un giorno, ma era anche vero che non avrebbe mai pensato di innamorarsi ancora. Forse faceva tutto parte del pacchetto e, incredibilmente, capì che gli stava bene così e che non se lo sarebbe lasciato sfuggire per niente al mondo.
Con un sorriso, scosse il capo.
“No.” disse piano.
Yoshiko non capì. “No?” fece eco, la mano di Yuzo che cercava nuovamente la sua per intrecciarne le dita.
“No. Non ripartirò.”
La ragazza sgranò gli occhi. “Ma… è sempre stata la tua vita! I vulcani-”
“Ci sono anche qui, in Giappone. Non smetterò di occuparmene solo perché non andrò dall’altra parte del globo.” la interruppe Yuzo, in tono calmo. “Il fatto è che: quello scorrazzare per il mondo apparteneva a me e ad Aiko, insieme, e quando l’ho perduta ho continuato a viaggiare perché cercavo di lei, cercavo di far rivivere il suo ricordo in ogni vulcano che vedessi, in quel… continuo girovagare. Ma Aiko è morta e tutto quello che mi legava a lei è andato distrutto. La nostra casa, la nostra città, addirittura il Fuji. Di noi e di ciò che abbiamo vissuto conserverò sempre il ricordo, ma quel tempo è passato ed è ora di cominciarne un altro. Se è ancora disponibile, dovrebbe esserci una cattedra che mi aspetta all’Università di Tokyo. Non mi dispiace l'idea di condividere quello che ho imparato in questi anni perché anche gli altri possano amare i vulcani quanto li amo io.” sorrise ancora e Yoshiko non poteva credere che stesse dicendo sul serio, che le stesse dicendo che non sarebbe più andato via fino a che non concluse, sporgendosi verso di lei: “E poi… qui ho te. Non ho più niente da cercare.”
Lo fissò incredula, le mani strette in una presa calda e indissolubile. “Davvero?”
Mh-h.”
“Resti qui… con me?”
Ancora più vicino, i nasi che si sfioravano piano ed i respiri che divenivano il flusso di uno solo.
“Per tutto il tempo che vorrai.”
Le iridi lucide si nascosero dietro le palpebre per quell’ultimo sorriso che aleggiò sulle loro labbra, prima che si unissero in un bacio leggero e dolce, il primo della loro nuova vita che iniziava da lì, in quel preciso istante in cui tutto era davvero finito e tutto poteva finalmente ricominciare.

Sorprendimi
con baci che non conosco ogni notte.
Stupiscimi.
E se alle volte poi cado,
ti prego, sorreggimi, aiutami
a capire le cose del mondo
e parlami di più di te.
Io mi do a te, completamente.


Adesso andiamo nel vento
e riapriamo le ali.
C’è un volo molto speciale
non torna domani.
Respiro nel tuo respiro
e ti tengo le mani.
Qui non ci vede nessuno
siam troppo vicini
e troppo veri.


Sorprendimi e con carezze proibite,
dolcissime amami.
E se alle volte mi chiudo, ti prego,
capiscimi altro non c’è
che la voglia di crescere insieme.
Ascoltami, io mi do a te
e penso a te continuamente.

Adesso andiamo nel vento
e riapriamo le ali.
C’è un volo molto speciale
non torna domani.
Respiro nel tuo respiro
e ti tengo le mani.
Qui non ci vede nessuno
siam troppo vicini
e troppo veri.


Dai che torniamo nel vento
e riapriamo le ali.
C’è un volo molto speciale
non torna domani.
Respiro nel tuo respiro
e ti tengo le mani.
Qui non ci vede nessuno
siam troppo vicini
e troppo veri.


Sorprendimi
Sorprendimi
Sorprendimi


StadioSorprendimi
(cliccate sul link per ascoltare la canzone)

 


[1]“STEVEM… FATTO!”: “Stavamo scarsi a galletti, eh? Che affare che ho fatto.”


…E poi Bla, bla, bla…

Io mi domando spesso perché la gente non mi crede mai quando dico loro: “Fidatevi di me.” XD
“Huzi” non poteva finire male, sarebbe stato… troppo! I protagonisti hanno già sofferto abbastanza in questi ventieppassa capitoli per dar loro il colpo di grazia!
Eos, Kara: sto parlando con voi!!! XD Dovreste avere un po’ più di fiducia nella sottoscritta! *Mel gira la faccia offesa* (XD)
Kara, lo so che avresti preferito la morte di Yoshiko, lo so. Ma io le voglio bene e poi sono abituata a far morire Yuzo XD *MWAHAHAHAHAHAHA*

E così, questo è l’ultimo capitolo. La storia è finita, gli amici se ne vanno e resta solo l’epilogo che metterò su tra un paio di giorni, perché non mi va di farvi aspettare troppo per la conclusione.
Per quanto riguarda la sorte di Yuzo: sopravvivere ad un lahar così importante è difficile ma, ovviamente, non impossibile. Vedansi ad Armero, ne sopravvissero circa un migliaio. Addirittura una bambina di tredici anni è sopravvissuta per tre giorni intrappolata nel fango, con l’acqua che le arrivava alla gola, prima di morire, purtroppo. Yuzo è un po’ più grande di una bambina, non è bloccato, ma, anzi, resta chiuso e protetto in un luogo abbastanza riparato. Se i sedici del disastro aereo del 1972 sono sopravvissuti sulle Ande – dove fa un tantino più freddo che in Giappone – per la bellezza di DUE MESI, penso che quattro giorni sono fattibili senza tirarci le cuoia. XD E comunque, il fango è un isolante, quindi tende a proteggere dal freddo.
Se ve lo state domandando –  e se ci avete fatto caso XD – sì, Yuzo lo ritrovano dentro Dante **, distrutto, ormai da rottamare, ma è lui. ** Mi piaceva come idea, mi dava un senso di continuità, a modo suo.
T_T e ho messo anche l’ultima nota in dialetto di Rita, ma per i piagnucolamenti vari e saluti di commiato aspetto l’epilogo, giusto per godermi fino alla fine ogni attimo in cui resterò ancora con questa fic. :*

Angolino del “Grazie, lettori, grazie! XD”:

Hikarisan: *OHOHOHOH* *Mel ride col vocione e le mani puntellate ai fianchi* XD Come puoi vedere, alla fine, ** si sono salvati tutti... tranne Nankatsu XD eh beh. Niente Tsubasa e Consorte, anche se Tsu ha comunque salvato qualcuno, anche se sottoforma di stadio da calcio *rotola via*.
*_* perché dici che è brutto vivere lontano da i vulcani? *_* Sono così belli! E poi, la pericolosità/esplosività dipende da tantissimi fattori. Non tutti sono pericolosi, anzi, XD per me anche quelli che sono capaci di menare all'aria volumi e volumi di materiale sono pacifici, perché la cosa bella di un vulcano è che: sai da dove può venire il pericolo, differentemente da un terremoto (certo, si conosce l'ubicazione delle faglie, ma è ugualmente tutto un altro paio di maniche, purtroppo).
Ti ringrazio tantissimo per tutte le belle parole e i complimenti che rivolgi sempre a questa storia, e per averla seguita così assiduamente e con tanta partecipazione. :*** Ne sono stata felicissima (XD e la storia d'ammmmore è andata a finire beeeene!)!
XD immagino che la reazione della mamma di Taro t'abbia shockato, ammettilo! Ormai è stata sconfitta ed ha imparato che comportarsi come una cozza attaccata allo scoglio non serva affatto. *ridacchia* Però non ho osato immaginare la sua reazione alla notizia dell'eruzione del Fuji... secondo me è svenuta, ma non diciamolo in giro XDDDD!!!
Grazie mille per tutto e ci risentiamo per i saluti finali che saranno in coda all'Epilogo. :****

Eos: Eos. Dico solo... Eos! XDDD
Allora, sentiamo, chi è la cattivasadicamaleficachesidiverteadammazzareYuzo, mh? *fischietta* *MWAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAH*
Non so quanto ti aspettassi un lieto fine (so per certo che Kara non se lo aspettava proprio! PAUHAHAHAHAHAHA! KARAAAAA: *spernacchia*. Non sai quanto ho riso delle tue congetture e convinzioni che Yuzo fosse morto davvero XDDDDD), ma... eccolo qua! *blink* Lieto Finissimo un po' per tutti: per Yoko e Yuzo, per Rick e Rita (LOOOOOL! Se non la giravano a macchietta la dichiarazione non erano contenti!!!), per Kishu ed il resto della truppa.
:***** grazie, tessò, di tutti i complimenti che hai sempre rivolto a questa storia e per averla seguita, come detto ad Hikari, con assiduità ed affetto, grazie davvero. Strutturarla non è stato facilissimo per tutte le ricerche che ho dovuto fare, e molto probabilmente ci sono di sicuro degli errori qua e là, ma spero che, nel suo insieme, sia stato un buon lavoro. :****
Ci ritroviamo tra qualche giorno con l'Epilogo e i titoli di coda. :*****

   
 
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