Fictional Dream © 2006 (6 dicembre 2006)
Il manga X-1999 appartiene alle Clamp, agli editori giapponesi e ai
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Nessuna violazione dei succitati
copyright si ritiene intesa.
L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright dell’autrice (Callie Stephanides -
http://fictionaldream.iobloggo.com). Non ne è ammessa altrove la citazione
totale né parziale, a meno che non sia stata autorizzata tramite
permesso scritto.
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Delle mille degenerazioni dell’amore, non è mai l’odio la più
dolorosa.
Sostituisci a un tutto un altro tutto; a un assoluto un altro
assoluto: fedele alla legge dei vasi comunicanti, il cuore non tollera vuoti e
vi provvede.
Delle mille degenerazioni dell’amore, è l’indifferenza quella
che uccide, perché sancisce quell’horror vacui da cui la natura fugge. Perché il
vuoto fa paura. Perché un essere umano non può tollerare d’esser tenuto in conto
di un oggetto.
Mai. Neppure quando odia.
Delle mille degenerazioni dell’amore, il rimpianto è quella
che procura più dolore, perché resta sospeso a colmare quel vuoto, lo interpreta
secondo una formula fittizia di memoria reinventata. Scrive con nuovi colori le
pagine del passato e le condanna a un progressivo disfacimento.
L’amore, anche quando non è amore, non sbiadisce.
È un’infezione che ti cattura e ti divora.
Subaru Sumeragi lo sapeva bene, perché nemmeno all’Inferno
c’erano occhi tristi come i suoi.
Eppure è l’amore il motore primo, l’unico cielo eterno e
immobile di una scena di silenzi e dimenticanze. È l’amore che pervade la
storia, che è la storia stessa. Te lo raccontano in ogni favola, senza dirti
quanto essa sia feroce.
Prendi una fiaba, leggila con gli occhi di un adulto,
interpretala oltre il simbolo e capirai che non esiste nulla di più crudele: la
sirenetta muore dissolta, bruciata dal sole tra atroci dolori. Scarpette rosse
perde i suoi piedi. Le matrigne patiscono infernali torture, nel compiacimento
di un vago lieto fine.
Anche a Subaru Sumeragi era stato offerto un ruolo da
protagonista in una fiaba dai colori tenui come petali di ciliegio, e non aveva
compreso che quello sarebbe stato il primo passo verso il più tetro degli
incubi.
A ricordare quei giorni assolati, là, dalle parti di
Kabukicho, clinica veterinaria Sakurazuka, riusciva piuttosto spontaneo
richiamare sequenze dai toni squillanti, violenti e quasi prevaricatori, come
l’entusiasmo trascinante di Hokuto, la sua risata sguaiata e franca, la sua
bellezza prepotente, sedici anni gloriosi e irripetibili.
Pomeriggi inondati dal sole e poi i tramonti assassini di
Tokyo: la città che Seishiro amava, perché correva ridendo incontro alla propria
devastazione.
Era un tipo strano, Seishiro: Subaru l’aveva pensato fin dal
primo incontro, obbedendo forse a quel suo istinto sciamanico e acuto, vibrante
sotto la pelle chiara, troppo candida e delicata, forse, per essere quella di un
ragazzo.
Subaru Sumeragi aveva perduto il diritto di scegliersi un
futuro il giorno stesso in cui aveva veduto la luce. Non solo, però: c’era anche
Hokuto e quel semplice dettaglio aveva già menato un colpetto alla ruota del
caso.
Amava Tokyo, Subaru? Forse sì, ma perché ne coglieva il viso
disfatto e tragico, oltre quella maschera da kokeshi di luci e glamour
prepotente e quasi grottesco. E poi Seishiro era Tokyo, e Seishiro era l’altro
volto del suo destino.
Yin e Yang: così la simbologia li avrebbe descritti. Male
contro bene, ombra contro luce: eppure Sakurazuka era un uomo gentile, che nulla
divideva con la propria schiatta, un clan feroce in cui ci si ammazzava in linea
diretta pur di diventare il primo.
Un assassino mistico.
Un cane sciolto per le ambizioni smisurate della nuova
Babilonia dell’Est.
Era gentile, Seishiro: tanto da giocare con i suoi rossori,
da accarezzare i suoi sentimenti più intimi, da rassicurare le sue timidezze e
riconoscergli un valore che andava oltre un titolo o un abito. Per chi non aveva
mai posseduto un amico, se non quella gemella-riflesso incisa nelle sue stesse
linee, ma in contrasti violenti, Seishiro era il pieno che colmava gli
interstizi del suo silenzio.
Aveva sedici anni, Subaru, quand’era arrivato a Tokyo per
compiere il proprio destino: essere un Sumeragi.
Sino in fondo.
Aveva sedici anni e portava con sé una sola raccomandazione:
non scoprire le mani. Non rendersi visibile.
A chi? A cosa? Era un sogno o un ricordo: un maestoso
ciliegio e un adolescente dalla bellezza tanto perfetta da risultare sinistra.
Un adolescente che ha appena ucciso, e Subaru lo sa. Sente
nell’aria l’odore del sangue, ma il profumo dolciastro e avvolgente non suscita
la minima ripulsa. Subaru è troppo giovane per fiutare la scia pericolosa e
seducente del plasma. Troppo innocente per riconoscere il nodo del filo rosso
che lo strangolerà. Troppo stupido, forse – come si dirà dieci anni più tardi,
quando l’ultimo rintocco segnerà lo svolgersi entropico dell’agonia – per
riconoscere Sakurazuka.
E Seishiro – perché quel volto esisteva fin d’allora –
accarezza il suo viso, il suo cuore, la sua carne. Suggella a fior di labbra una
promessa e una maledizione: Subaru non la coglie, come non coglie il pentacolo
che brucia sul dorso delle mani immacolate.
È il capro sacrificale di un’ara crudele.
Deve solo aspettare il tempo dell’ecatombe.
Ai Sakurazukamori piace divertirsi (al capostipite,
soprattutto), perché il capostipite – che ha appena ucciso sua madre, rendendola
orgogliosa di quel figlio freddo come una lama – deve essere sempre il più
violento e crudele di tutti; gelido come la neve che copre la terra sotto cui
marciscono le carni che irrorano dei loro succhi i petali del ciliegio.
‘Sai perché questi fiori hanno un colore così tenue e così
bello, Subaru?’
Quella voce strisciante l’avrebbe accompagnato per tutta la
vita.
Perché i ciliegi si nutrono dei morti.
Come quella risposta: così violenta e vera da dare a un
bambino, eppure così autentica.
Anche a un decennio di distanza da quei tramonti vivi che
guardava accanto a Hokuto e Seishiro, Subaru avrebbe detto che sì: Sakurazuka
raccontava la verità.
La bellezza si nutre sempre dei morti, oppure li cerca oltre
la cornice di uno specchio, nel nastro di una segreteria che mormora l’eterna
preghiera del ricordo; in un tumulo funerario, ma a cercare Hokuto al cimitero,
Subaru Sumeragi non era mai stato.
Aveva sedici anni quando il cuore aveva cominciato a
dolergli. Sino ad allora si era specchiato in una verità autentica e sgradevole:
se c’era qualcuno degno di vestire i panni di capofamiglia tra i due gemelli
Sumeragi, quella era forse Hokuto, il vero uomo tra i due. Occhi neri e
brillanti. Quei capelli che portava corti per un vezzo modaiolo e perché c’era
una sensualità riposta nella sua nuca perfetta da geiku di Kyoto. La
lingua lunga. L’indole prevaricatoria.
Era stata Hokuto a inventarsi la favola che l’aveva infine
uccisa: socchiudendo gli occhi, fissando il tramonto.
Un Sumeragi e un Sakurazuka. L’amore tormentato di un
romanzo, non credete?
Subaru non si era mai innamorato. Della propria bellezza
ignorava tutto, perché era stato cresciuto come un miracolo e come un fiore. Era
uno sciamano dalla verginità intoccata, algido come il simulacro della
tradizione che rappresentava: evocava gli spiriti con l’immacolata purezza
dell’anima che avrebbero voluto e potuto divorare, senza sapere che un baco
corrosivo di una maledizione l’aveva già intaccata.
Avrebbe dovuto aspettare una notte qualunque del
millenovecentonovantanove perché la sua Babilonia fosse anche la tomba di ogni
illusione, ma nemmeno uno sciamano può leggere nel proprio destino.
Che giorni erano quelli, di batticuore e incertezza e the e
dolci e la voce sensuale e calda di Seishiro? Che anno era stato, quello, dodici
mesi di confusione e quel dolore stretto nel petto, di incomprensione e paura?
Seishiro l’aveva conquistato con la lentezza strisciante del
serpente – ve n’erano davvero, appostati ai piedi dei ciliegi? Esecutori
benedetti da quei fiori rapaci e crudeli? – parlandogli una lingua che non
riusciva a capire. Aveva un gusto decadente, Sakurazuka, celato oltre la
maschera di un pagliaccio faceto; un modo tutto suo di accarezzare la
devastazione sulla lingua, quasi a commuoversi dell’inesorabile disfacimento di
ogni bellezza. Per questo amava Tokyo: per il sabba con cui ogni notte allestiva
il suo ballo della Morte Rossa, senza sfilarsi mai la maschera; senza perdere il
suo buonumore degno di un untore tenebroso e implacabile.
A vederlo avresti detto che fosse solo un uomo attraente e
pietoso. Si coglieva dall’amore con cui curava ogni bestiola. Era stato quello
il primo dettaglio che aveva punto il cuore di Subaru: l’amore.
Un Sumeragi poteva concederselo?
Hokuto non era mai stata in grado di rispondergli, né si
poneva il problema: scimmiottava le idol, rideva molto, mangiava troppo. Viveva:
quasi sapesse già d’essere effimera come una farfalla. Scherzava con Seishiro,
con la familiarità delle belle ragazze consapevoli; prima che riuscisse del
tutto a realizzarlo, Subaru aveva avvertito i morsi dell’invidia e della
gelosia. Soprattutto invidia, però, perché non riusciva a venire a patti con il
cuore.
Davanti a uno specchio, Subaru fissa le linee delicate di un
corpo androgino. Diventerà un uomo bellissimo, ma non riesce a cogliere
l’impronta di quel suo futuro oltre una pupa acerba. Un giorno somiglierà
persino a Seishiro e avrà qualcosa di feroce e gelido nei suoi occhi di un nero
pallido e umorale, a tratti quasi violetti; un giorno capirà un’altra delle
leggi spietate che regolano l’amore.
Il veleno che s’insinua sotto la pelle e ti forgia a immagine
e somiglianza di un’illusione.
Davanti a quello specchio, però, Subaru cerca se stesso e
forse anche Hokuto. Sono troppo grandi, ormai, per fare il bagno insieme. È una
donna, lei: le sue linee si sono ammorbidite, arrotondate e s’indovina la curva
di un seno precoce, sfrontato e sodo. Troppo piccolo, lamenta, ma Subaru può
solo immaginarlo.
Davanti a uno specchio silenzioso e crudele, Subaru pensa
piuttosto al suo petto ossuto e glabro, su cui i capezzoli scuri si stagliano
come fiori di sangue; ai suoi fianchi stretti, alle natiche alte, appena più
morbide dell’ileo sporgente. Alla collina proibita del pube, che da sempre
custodisce il segno della diversità che l’ha opposto alla propria gemella. Una
diversità pericolosa, perché è a lui che Seishiro ha parlato d’amore.
Non a Hokuto.
Subaru Sumeragi non si era mai letto come l’oggetto di un
desiderio sentimentale o sessuale, come non si era mai inteso quale creatura
desiderante; all’improvviso, tuttavia, nell’ordine apatico di quella sua
silenziosa esistenza era esplosa l’entropia di Sakurazuka. Era un uomo adulto,
affascinante. A Subaru doleva il cuore nelle mille circostanze in cui coglieva
quell’inequivocabile scintilla maliziosa accendere lo sguardo delle troppe donne
che leggevano in Seishiro una preda, ma il pungolo era ancora più implacabile e
lancinante se pensava a se stesso.
A come Sakurazuka riusciva ad attrarlo entro la tela di una
seduzione silenziosa: un modo particolare di passargli il braccio attorno alle
spalle, asciugargli le guance, riflettersi in un suo sorriso, curare una sua
ferita.
Sono qui per difenderti. Sono qui per proteggerti. Sono qui
per te.
Eppure Seishiro sapeva celiare, flirtare con la grazia
consapevole degli adulti, fingere una smorfia carina. Lusingava Hokuto persino
mentre accarezzava i capelli del gemello sbagliato; nel confondere il timbro di
ogni sua emozione, era anche il pericoloso surrogato di ogni stella polare.
Subaru ricordava certe sere dalle parti di Shibuya, incantate
nel loro essere prive degli imperativi professionali ed etici di uno sciamano,
dunque normali: svincoli illuminati e quelle luci a brillare negli occhi
di Hokuto e di Sakurazuka (non nei suoi, perché teneva la testa bassa, come il
vigliacco che sapeva essere all’occorrenza).
Seishiro gli stringeva le spalle o gli prendeva la mano per
non perderlo, e la sua mano diventava caldissima e umida a quel contatto.
Siete una magnifica coppia. Quale sarebbe il problema?
È un Sakurazuka.
Rinnega il tuo nome, allora. Lo diceva anche Giulietta.
Poteva rinnegare un nome, non il proprio sesso. Erano due
uomini. Peggio: erano un uomo e un ragazzino confuso; un ragazzino che non aveva
mai baciato una ragazza, ma sognava di baciare lui, sfiorarne le labbra,
sentirsi accolto senza compromessi, malgrado il riflesso sbagliato nello
specchio della verità e dei sogni impossibili.
Dell’amore sentiva tutta l’incertezza e il dolore, Subaru, ma
poteva davvero chiamarlo amore?
Era un affetto sghembo, un vaso ostruito, perché oltre il
sorriso sornione di Seishiro poteva esserci una tenera indulgenza. Non un
possessivo.
Poi era accaduto.
Quello.
La condanna scoccata ed eseguita sul referente sbagliato; una
condanna buona a preparare il tessuto di un’altra condanna, senza che il
protagonista della favola possa anche solo intuire che l’anno è trascorso ed è
giunto il momento del sacrificio.
Subaru ricordava la vergogna e il pianto sommesso di chi
avrebbe voluto scontare sulla propria pelle il fio di un peccato mai commesso.
Subaru non sapeva che il pericolo sotteso a ogni desiderio è
quello d’essere esauditi, soprattutto se la ruota del destino sta per incontrare
il vallo cruciale.
Gli aveva sorriso, Seishiro, e poi era stato di nuovo come
quel giorno all’ombra di un ciliegio.
Labbra sulla sua carne, il pentacolo a bruciare più del
fuoco.
Più di quelle parole.
Essere un Sakurazuka vuol dire non provare niente. Ti sei mai
chiesto cosa senta nel curare uno stupido cucciolo? Noia e pena. E nient’altro.
Per me la carne ha senso solo quando abbevera i miei fiori.
Sakurazukamori: l’assassino benedetto dal ciliegio.
Hai perso, Sumeragi. Non sei che un pezzo di carne come tutti
gli altri.
Per questo sognava che lo uccidesse: perché fosse almeno
degno della sua esecuzione. Non un oggetto.
Subaru aveva seguito il fumo di una sigaretta ormai consumata
svanire nel vento, con la pigra indolenza dei cacciatori.
Era diventato un uomo, in un mondo in cui essere uomini era
mentire come tutti. Come Seishiro.
Non era immacolato da secoli, se poi era purezza la stupidità
di ignorare il volto violento di una storia già scritta e corrotta.
La storia che gli aveva rubato Hokuto.
La storia di una Tokyo-Babilonia, che officiava la sua fine
con il sorriso e poneva una maschera rassicurante sul volto dei suoi cecchini
più spietati.
La sua Ninive e la sua Babilonia.
Il suo testamento e il suo monito.
A Kamui, dunque, aveva mentito; a Kamui che portava un
fardello ancora peggiore del Subaru d’allora non era riuscito a raccontare la
verità. Gli aveva donato l’ennesima favola, senza svelargli l’ossimoro della
crudeltà riposta in ogni racconto.
Era comodo parlare d’odio, di vendetta, del rancore di un
affetto-sorella sfiorita a sedici anni (sotto un ciliegio), ma la verità, come
il rosa tenue di quegli alberi voraci e maledetti, era più complessa ancora: era
l’orrore di una metafora di bellezza e un rimpianto insanabile. Era il bisogno
di sentire ancora quella voce e sperare che gli avesse mentito.
Ammazzami.
Mangiami, Seishiro.
Hai da accendere?
Fiammella. Sigaretta.
Orbi simmetrici nel silenzio di un nuovo punto zero, Yin e
Yang di un equilibrio impossibile, Seishiro e Subaru si erano cercati oltre una
memoria radicata nel cuore e lì marcita all’ombra di una nuvola rosa.
Dei colori di quei giorni non restava più nulla, se non la
tricromia della disperazione: il nero della notte, il candore della pelle
baciata dalla luna, il rosso denso di un’esecuzione mai voluta, perché l’amore
si fa, ma non si uccide.
Perché il ricordo avvelena, ma non svanisce: non può
annientarlo nemmeno l’assassino di un ciliegio.
Un Sakurazuka, tuttavia, conosce molti modi per uccidere, per
torturare, per ferire.
Anche tacere per sempre può essere uno di questi.
Seishiro aveva sorriso sardonico mentre moriva tra le braccia
di Subaru, trascinando con sé l’eterno segreto del proprio cuore e l’unica
morale di una favola crudele: non puoi sfuggire al destino. Non puoi
rinnegare il tuo nome.
Eppure, mentre Sumeragi nasceva come il nuovo Sakurazuka e
piangeva le lacrime cui non aveva lasciato abbeverare nemmeno Hokuto, aveva
maledetto se stesso e il bambino di quel giorno lontano per non essere fuggito.
Per non aver ascoltato la voce del ciliegio.
Per non aver capito che Seishiro conosceva solo il bacio di
Giuda e gliel’aveva posato sul cuore.
Soprattutto, però, malediva l’altra morale che
quell’allegoria della disperazione suggeriva: anche ad avere scelta, forse
avrebbe porto la guancia (o le labbra), ma nessun segreto, per quanto
orribile fosse, avrebbe potuto impedirgli di amare i ciliegi, il loro frutto
avvelenato e quel loro figlio devastante.
E indimenticabile.