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Autore: Macchia argentata    17/10/2010    15 recensioni
Fanfiction breve, di soli tre capitoli autoconclusivi, ambientati in diversi spazi temporali all'interno della vita di Oscar e Andrè. Leggibili singolarmente ma legati tra di loro da un unico filo conduttore: cosa spinge Oscar, nel corso degli anni, a cercare conforto sempre nello stesso luogo, la stanza di Andrè?
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: André Grandier, Oscar François de Jarjayes
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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La luce della tua stanza Che cosa vuol dire "addomesticare?"
"È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire creare dei legami...
"Creare dei legami?"
"Certo", disse la volpe. "Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l'uno dell'altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo".
('Il Piccolo Principe' , Antoine de Saint-Exupéry)



Agosto 1768

Il lieve riflesso del tramonto illuminava debolmente i mobili e gli oggetti di quella stanza spoglia, mentre lentamente scemava intorno a me, ritirando i propri raggi ambrati oltre le finestre dagli scuri socchiusi.
Sentivo il freddo del pavimento sotto alla mia mano chiusa a pugno, dietro le gambe scomposte davanti a me. Mi era scivolata giù una calza, dopo che i pantaloni si erano lacerati sul ginocchio, nella caduta rovinosa che avevo fatto sullo scalone principale.
Ma non erano le contusioni e i vestiti laceri a tormentarmi.
Non erano quelli a ferire il mio orgoglio, facendo ribollire la rabbia e la frustrazione che avrei voluto gridare al mondo intero.
Portai la mano destra alla guancia in fiamme, dove la mano di mio padre aveva colpito.
Uno schiaffo, crudo. Uno schiaffo in pubblico, dinnanzi a tutta la servitù.
Uno schiaffo che bruciava ancora dalla forza della cieca incomprensione di chi l’aveva tirato.
Ordini, solo ordini, sempre ordini.
E io, il figlio che non riusciva a soddisfare mai nessuna paterna ambizione.
Primo, fra tutti i disonori, quello di nascere del sesso sbagliato.
Il cosiddetto sesso debole.
Cercai di ricacciare indietro le lacrime che da qualche minuto avevano minacciato di rigarmi le guance, mentre provavo a concentrarmi sul triangolo di luce ambrata che si era creato davanti ai miei piedi abbandonati sul liso legno di quella piccola camera da letto, osservando i minuscoli ed ipnotici granelli di polvere dorata che vi danzavano all’interno.
Piangere sarebbe stata la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso.
Piangere sarebbe stato quel che avrebbe fatto una donna.
E io non ero una donna! Non avrei pianto come una donna! Mai!
La rabbia e la frustrazione salirono in me al punto che la mia mano posata a terra scattò violentemente, sferrando un pugno in aria, per poi ricadere con altrettanta violenza sul duro legno del pavimento. Sentii le nocche scricchiolare, mentre il dolore si diffondeva lentamente, diramandosi come fuoco liquido verso la punta delle dita. Il mio viso assunse all'istante una sfumatura di profondo disgusto mescolato all’impotenza, per il dolore che io stessa ero riuscita a procurarmi volontariamente, senza che la mia rabbia ne traesse, tuttavia, il minimo giovamento; così imprecai a bassa voce, maledicendo me stessa e la mia ridicola condizione.
“Stupida donnetta senza fegato…”
Un vero uomo, probabilmente, avrebbe potuto calare più volte il pugno possente su quel legno duro, senza farsi sanguinare le nocche come invece era successo alla mia esile mano.
Fu solo in quel momento, quando, sollevando lo sguardo vidi una sagoma familiare nel vano della porta, che mi resi conto di non essere più sola nella stanza.
Oltre il triangolo dorato che rischiarava il pavimento, la figura di Andrè si avvicinò, fermandosi al limite esatto tra luce e ombra, cosicché il suo viso rimase in parte illuminato, in parte oscurato.
Tuttavia, riuscivo comunque a scorgere l’espressione grave e preoccupata che accompagnava i suoi lineamenti morbidi, ancora più legati al mondo dell’infanzia che non a quello dell’adolescenza.
“Ti ho cercata tutto il pomeriggio, Oscar…” la sua voce, in quel silenzio rarefatto, fuoriuscì quasi come un sussurro, come se, dopo avermi scoperta rannicchiata nella sua stanza, non volesse svelare il segreto di cui era appena venuto a conoscenza, bisbigliando per non farsi sentire.
Andrè, sempre fermo oltre la luce che ci separava, attese una risposta che, da parte mia, non arrivò. Non mi aveva posto nessuna domanda, in fin dei conti.
“Cosa stai facendo?” domandò a quel punto, sempre tenendo i suoi sinceri occhi verdi puntati su di me.
Levai verso di lui uno sguardo di sfida, sentendo dentro che tutta la frustrazione che avevo in corpo avrebbe potuto divampare da un momento a quell’altro, riversandosi sull’ignaro Andrè, il capo espiatorio perfetto, o se non altro, l’unico che avessi a disposizione in quel momento.
Ma un istante prima che dessi aria ai polmoni, qualcosa mi bloccò.
Sarà stato il suo sguardo, semplice e diretto. Uno sguardo che non giudicava, che non pretendeva, che non accusava.
O il suo modo di fare, che inspiegabilmente, riusciva sempre a rendermi serena. Mi aveva cercato tutto il pomeriggio, era preoccupato, sapeva quello che era successo perché era nel salone insieme al resto della servitù quando mio padre aveva impietosamente alzato la propria mano su di me. Ma non avrebbe fatto parola dell’accaduto, se non avessi introdotto io per prima il discorso.
Andrè era come un’ombra silenziosa che vegliava su di me. Sapeva sempre cosa mi passasse per la testa. Sapeva ascoltare, e accettare i miei malumori e le mie giornate nere standomi vicino con la sua naturale discrezione.
E dopotutto, quella era la sua stanza.
Non mi ero forse nascosta lì dentro per sfuggire al mondo intero tranne che a lui?
Sbattei un attimo le ciglia, e sentii la rabbia defluire improvvisamente.
“Mi…nascondo” confessai infine.
Andrè non disse una parola. Attraversò il triangolo di luce che ci separava e si lasciò scivolare seduto sul pavimento al mio fianco, appoggiando le spalle al letto.
Restammo in silenzio alcuni secondi, mentre pian piano le ombre della sera cominciavano a strisciare nella stanza.
La mano di Andrè, nell’oscurità, cercò la mia.
“Ti sei fatta male?” mormorò, osservando le mie nocche scorticate e insanguinate.
Scossi violentemente la testa.
Un vero uomo non avrebbe mai esternato le proprie emozioni. E mai, mai e poi mai avrebbe ammesso di essersi fatto male tirando un innocuo pugno al pavimento.
Poi sentii il confortante calore delle mani di Andrè sulle mie.
E la sua voce, quasi un bisbiglio.
“Se avessi un ginocchio sbucciato e una mano tutta gonfia come la tua, adesso credo che starei piangendo nascosto da qualche parte…”
Mi voltai di scatto verso di lui, pensando che si stesse prendendo gioco di me, ma nelle ombre della sera, fu solo un sorriso dolce e tranquillo quello che lessi nel suo sguardo.
Mi sentii a disagio, e improvvisamente il volto burbero di mio padre mi comparve davanti, rigido e severo; lo sguardo inflessibile di chi non può tollerare  la minima  commiserazione.
“Andrè sei davvero uno smidollato! Credi che io potrei prendermela per qualche taglietto come faresti tu?” lo accusai, strattonando la mano dalla sua e incrociando le braccia al petto, chiusa in me stessa.
In realtà, mi pentii quasi immediatamente di aver reciso quel contatto così caldo, umano, incoraggiante.
Ma essere uomini non significava proprio far conto solo e unicamente su se stessi? Camminare da soli, a testa alta, senza bisogno che nessuno ti sorreggesse  quando venivi meno a causa del corsetto troppo stretto, o che ti rianimasse con un sacchetto di sali?
Portare pantaloni e stivali, poter maneggiare spade e pistole, giocare a scacchi bevendo brandy. Interessarsi di affari, amministrare la proprietà, avere il potere di decidere in totale autonomia, uscire di casa senza avere uno stupido chaperon attaccato alle caviglie.
Essere libero, autosufficiente e…potente.
Non biasimavo mio padre per aver desiderato tutto questo per me. Io stessa ne vedevo gli innumerevoli vantaggi…
Ma il prezzo da pagare per questa vita indipendente, dunque, sarebbe stato quello di non potersi permettere attimi di debolezza alcuna? Di mostrarsi forti sempre e comunque?
Strinsi i denti. Si, si ce l’avrei fatta a sopportarlo.
 Dovevo.
Persa com’ero in quei ragionamenti, mi resi conto dopo alcuni secondi che Andrè aveva leggermente avvicinato il suo corpo al mio.
“Oscar, io lo so che tu sei forte…e anche tanto” mormorò “Ma quando ci si fa male, beh…ci si fa male. Che male c’è ad ammetterlo?”
Gli rivolsi uno sguardo carico di risentimento. Del resto, che ne poteva sapere lui? Doveva forse dimostrare qualcosa a qualcuno? Doveva forse, tutti i giorni della sua vita, combattere contro la natura che gli era stata data, per tramutarsi in qualcosa di diverso?
Andrè non sembrò far caso alla smorfia dipinta sul mio volto e continuò a parlare pacatamente.
“Sai, qualche settimana fa, ne ho combinata una delle mie. Volevo raccogliere le albicocche su quell’albero enorme, in fondo al frutteto…Ma sono caduto. Mi sono strappato una manica della camicia, e fatto un taglio proprio qua, sotto al mento…” sollevò leggermente il volto, per permettermi di vedere la piccola ferita ormai cicatrizzata e in via di guarigione che mi era già capitato di notare, senza che me ne facesse parola.
“Bene. Quando sono tornato verso casa, sentivo male dappertutto. Ma non volevo farmi vedere dalla nonna…perché ero sicuro che me ne avrebbe dette di tutti i colori…Mi vergognavo molto. Quella camicia l’avevo da poco tempo, e ora era tutta sporca e da rammendare, così avevo deciso di nascondermi. Non volevo farmi vedere nemmeno da te, perché pensavo che… avresti riso di me.” Lo disse piano, con una certa titubanza.
E io, inspiegabilmente, mentre ascoltavo quelle parole, mi sentii in colpa.
Avrei davvero riso di lui?
Deglutii, mentre mi immaginavo Andrè, tutto malconcio per essere caduto da quell’albero, con la camicia nuova tutta sporca e strappata, nascosto in qualche angolo buio della scuderia, con la paura che Nanny lo trovasse lo sgridasse…
E provai un improvviso, incontrollabile affetto per lui.
“Che tontolone che sei, Andrè…Non avrei riso di te! Forse…solo un pochino, perché sei sempre il solito. Ma poi sarei andata a cercarti una camicia pulita da indossare, per non farti scoprire da tua nonna…” mi sembrava così scontato pensare che non l’avrei mai allontanato deridendolo per quella debolezza che lo dissi semplicemente, senza pensarci troppo sopra. Poi mi resi conto che lo pensavo veramente, e che se io potevo farlo per Andrè, anche lui poteva farlo per me, anzi…Lo stava già facendo.
Era per quello che dopo lo scontro con mio padre mi ero rifugiata, senza pensarci, nella sua stanza? Perché sapevo che solo lì dentro avrei trovato appoggio e protezione?
Sentii un improvviso groppo in gola. E una lacrima scivolò silenziosamente lungo la mia guancia, così fulminea e inaspettata che non riuscii a fermarla…
Non ci provai nemmeno.
In pochi istanti il braccio di Andrè passò dietro alle mie spalle scosse dai singhiozzi, e mi ritrovai in lacrime sulla sua spalla.
Si, mi ero fatta male. Si, mi sentivo spesso impotente e spiazzata davanti alle richieste di mio padre, che sembrava volesse snaturarmi, rendendomi più confusa che mai. Compiacerlo era quasi un’ossessione, sebbene assecondare le sue richieste comportasse un lungo e duro lavoro sulla vera me stessa, accumulando negli angoli più bui della mia anima quei frammenti scomodi che avrebbero potuto far prevalere il mio lato femminile.
Non sapevo se volevo davvero essere un uomo…
Non sapevo se, a quel punto, sarei riuscita a essere una donna…
Ma ero sicura che non avrei voluto affrontare tutto da sola.
Semplicemente, non potevo.
E solo il conforto emanato dalla presenza di Andrè mi rendeva sicura, in quel momento, che di lui avrei avuto sempre bisogno.
Non avrei mai potuto fare a meno di qualcuno che mi comprendeva in maniera tanto disarmante e mi accettava esattamente per quella che ero. Andrè incominciava dove io stessa finivo, e quella linea di demarcazione era talmente sottile che molto spesso faticavo io stessa a scorgerla.
Quali ricordi appartenevano a me e quali ad Andrè?
Impossibile stabilirlo.
Stavo così bene con lui…Era il migliore amico e il fratello che non avevo mai avuto. Compagno di storie e di giochi, presenza irrinunciabile nella mia vita.
Solo quando i miei singhiozzi cessarono, le lacrime si asciugarono sulle mie guance e una pacata tranquillità invase il mio animo ferito, trovai la forza di mormorare, sopra alla spalla di Andrè: “Andrè, perché quando sei caduto dall’albero non sei venuto da me invece di andare a nasconderti? Davvero pensavi che ti avrei solo preso in giro e avrei riso di te senza darti una mano?”
Andrè sorrise, mentre cercava nella tasca della sua giacca un fazzoletto, ben pulito e stirato, da porgermi.
“No oscar, la verità è che ci ho provato…Stavo venendo da te, e, anche se avevo paura che avresti riso, ero sicuro che mi avresti aiutato…ma mia nonna mi ha visto mentre attraversavo il cortile…” la sua espressione lasciò intuire il resto, e scoppiai a ridere.
“Oh, povero Andrè! E poi, com’è andata a finire?”
“Mi ha dato una strigliata…Però poi mi ha portato nelle cucine, e mentre mi medicava il taglio sotto al mento, mi ha fatto portare latte e pane con il miele  dalla cameriera…”
“Ti è andata bene, tutto sommato…” sussurrai, sentendo a mia volta bisogno di qualcosa di dolce da mettere nello stomaco e sorrisi immaginando Andrè che, con i lacrimoni agli occhi, addentava il suo dolce mentre Nanny, tra un’occhiataccia e un rimprovero, gli rammendava la camicia.
“Secondo me, anche tu avresti bisogno di un bel bicchiere di latte e di un pezzo di dolce…”
Istintivamente mi ritrassi.
“No…No, Mio padre non vuole che entri nelle cucine. E si arrabbierebbe se sapesse che ci sono andata…ridotta così.” Dichiarai, mettendo in evidenza i calzoni strappati e i lividi sul ginocchio e sulla mano.
Ma soprattutto, mio padre non era un tipo molto incline ai generi di conforto dopo una punizione.
Ma Andrè mi fece l’occhiolino.
“Non preoccuparti, se mi aspetti qua…ci penso io!”
Per un breve istante i nostri sguardi si incrociarono.
Amico. Confidente. Fratello.
Legame vitale, necessario, irrinunciabile della mia vita.
“Si…” sussurrai “Si, ti aspetto.”





Nota dell'autore

Prima di tutto ci tengo a ringraziare tutte le persone che hanno commentato, letto e aggiunto ai loro preferiti il mio precedente lavoro, 'Notte di lucciole e stelle'. Sono stata davvero felicissima di leggere le vostre recensioni e sentire i vostri pareri a riguardo, visto che era il mio primo tentativo con i personaggi di Oscar e Andrè. Se sono qua, non è semplicemente per l'incredibile gusto di scrivere storie, ma soprattutto per migliorare, e, perchè no, ampliare la mia visione riguardo ai personaggi di cui tratto. Perciò, anche questa volta, sarei davvero felice di sentire le vostre opinioni/critiche su questa fanfiction, a cui verranno aggiunti altri due capitoli. Tutto quello che pensate, in posititvo e in negativo, non potrà che aiutarmi a destreggiarmi con più scioltezza nella scrittura, perciò  grazie in anticipo^^
  
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