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Autore: Ely79    18/10/2010    2 recensioni
Quante volte abbiamo sognato un lavoro diverso da quello che ci tiene occupati ogni giorno? Un lavoro che ci faccia sentire felici, gratificati, pieni di passione verso quel che facciamo? Ed ecco che ad Amelia, frustrata progettista, si palesa l'occasione di una vita. Ma cosa c'è dietro questa porta spalancata su una grande opportunità?
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tavola XIX - Terzo avanzamento lavori
Scosse il capo.
«Non la voglio. Grazie comunque» e riconsegnò la busta a Jarvis.
L’uomo la guardò con un misto di trionfo e pigra indisponenza. Per una volta concordava: non meritava quel denaro.
«Suvvia, Amelia. Sono gli accordi» intervenne Corrado lì accanto, preso dal rifare il nodo al cravattino.
«Nel contratto è stabilito che i lavori debbano essere eseguiti a regola d’arte. Ho commesso degli errori e…»
«Ha fatto un disastro!» proruppe il maggiordomo, indignato.
«Definizione eccessiva, anche se non nego d’aver sbagliato qualcosa» ammise lei, circospetta.
Ultimamente le sue scenate iniziavano con un pretesto qualunque per poi sviare su altro e rinforzarsi. Aveva l’impressione che stesse cercando in tutti i modi di farle perdere le staffe. Di certo non si trattava di un metodo per farla reagire ai suoi problemi.
«Sbagliato?! Voi osate…»
«Jarvis? Basta, per favore» lo richiamò il padrone.
L’invettiva cessò immediatamente, sotto la minaccia di un’eloquente oscillazione del bastone da passeggio. Lungi da lui insistere e trovarsi in ginocchio di fronte a quella donna, senza poter fornire spiegazioni plausibili.
«Amelia, ho già versato quanto pattuito sul tuo conto, quindi hai ben poco da rifiutare. Ne abbiamo già parlato e sai come la penso»
«Sì, lo so, Corrado» annuì, grata e sconfitta da quella generosità.
«Bene, siamo a posto allora. Ora vai, credo ci sia qualcuno ad aspettarti. Non ti sei fatta bella per un vecchio cieco e il suo amabile segretario» scherzò, stringendole l’avambraccio col suo solito fare paterno. «Andate alla festa e divertitevi. Trattenetevi finché lo desiderate. Jarvis vi aspetterà, la sua insonnia di recente è peggiorata»
Amelia girò ancora una volta lo sguardo sul servitore. Ottenerne l’assenso per la Festa di Primavera era costato parecchia fatica, cordiale tenacia e, se avesse potuto scorgere il livido che questi portava al polso, qualche incantesimo costrittivo del Duca.
«Vada, si sbrighi» ringhiò.
«Perché non viene anche lei?»
La proposta era un autentico azzardo e Ang non avrebbe gradito l’incomodo.
«Vada» replicò seccato.

***

Errori, li chiamava. Giusto, erano errori, ma il tono che Amelia usava li faceva assomigliare ad immani catastrofi quando non lo erano affatto. Nell’impeto di assecondare le sue richieste e di non dar noie a Jarvis, qualcosa le era sfuggito. Era giovane, al suo primo lavoro ed aveva già avuto brutte notizie a sufficienza. Non gli pareva proprio il caso di farne una tragedia, specie guardando all’impegno che stava profondendo nella ricerca di una soluzione che, era sicuro, sarebbe giunta presto.
«Stai tranquilla, mia cara. Per me sarà un vanto poter dire un giorno che ho contribuito a renderti la migliore Archimaga di questo secolo, permettendoti di farti le ossa su queste anonime mura!» le aveva ripetuto ogni volta che l’aveva scoperta china sui testi di Archimagia, alcuni dei quali acquistati e fatti recapitare in gran fretta a Villa dei Gelsi.
Prima di raggiungere la festa, Amelia era scoppiata a piangere di gratitudine e l’aveva abbracciato. Le spalle curvate dagli anni ne avevano risentito un poco, ma era riuscito a contraccambiare mentre lei prometteva tra i singhiozzi di non commettere altre disattenzioni.
Errori. Nonostante il parere intransigente di Jarvis, Corrado era convinto che tutti avessero il diritto di sbagliare in buona fede. Il desiderio di far bene portava con sé quel minuscolo onere, era un rischio intrinseco. L’aveva provato sulla sua stessa pelle, lo sapeva meglio di chiunque altro. Sbagliare per diletto o con intenzione, come invece sott’intendeva il maggiordomo, era pura perfidia. E Amelia non era certo il tipo da fare quel genere di cose. Non aveva sbagliato di sua volontà. Non aveva scelto quell’Incantesimo Consolidante nell’intento di prolungare i lavori a suo vantaggio. Il rifiuto della paga ne era la prova.
Ad un tratto, il Duca si riscosse, colpito da un’illuminazione. Le lenti nere scivolarono un poco sul naso. Le falangi nodose e macchiate tremavano in cerca di sostegno. Una scheggia di consapevolezza l’aveva attraversato, simile a quelle che lo svegliavano nel cuore della notte quando gli studi rivelavano la loro infruttuosità.
Errori.
Un errore.
Un unico errore.
E l’intenzione di compierlo.
Si alzò, obbligando le vecchie ossa ed i muscoli a lottare affannosamente nel tentativo di tendersi. Fu costretto ad appoggiarsi di peso al bastone, che temette si sarebbe spezzato sotto lo sforzo improvviso. La testa gli girava e le forze venivano meno. Inspirò quel tanto che i polmoni consentivano, annaspando nell’aria che odorava ancora di fumo.
«Dannato vizio» mormorò tra sé, ripensando al divieto imposto saggiamente dalla donna. «Se solo t’avessi incontrata ottant’anni fa, Amelia! Sarei ancora un arzillo giovanotto»
Mise da parte le battute di spirito e raggiunse la scrivania. Aprì tutti i cassetti, estraendo da ciascuno quanto gli occorreva, da minuscole ampolle a vecchi taccuini, dalle stilografiche a scatoline che contenevano rimasugli d’ingredienti. Richiamò a sé alcune statuette e candele sparse nella stanza. Sparpagliò ogni cosa sul tavolo secondo un ordine preciso, controllando e memorizzando le posizioni. Nel mezzo, gli appunti di suo padre ben aperti e fermati con due stecche di legno fossile. Con un semplice incantesimo chiuse la porta e tirò i pesanti tendaggi. Non vide guizzare le tremule fiammelle che lui stesso aveva invocato. Aveva ciò che gli occorreva: buio, silenzio, concentrazione, ingredienti, memorie.
Ora era lui, a non potersi permettere il lusso di sbagliare.

***

Era notte inoltrata lungo le rive boscose del Torrino. Le ultime luci della Festa di Primavera andavano spegnendosi in lontananza, minuscole braci schiacciate dal cielo notturno. Le acque scorrevano placide, facendo ondeggiare appena i canneti che seguivano il sospiro incostante delle fronde.
Riparati dall’abbraccio ricadente di un salice, Ang e Amelia avevano deciso di ritardare la conclusione della serata. Avevano cavalcato fin lì, permettendo poi all’Incubo di andarsene a caccia. In quei giorni era parso piuttosto inquieto.
Nascosti dai rami sottili e fitti, si erano lasciati andare come due ragazzini alla prima cotta. Frasi melense erano state accompagnate da baci casti e sorsate di vino da una bottiglia trafugata da Diecichili e passata sottobanco al Mezz’elfo. Tanto calava il nettare, tanto saliva l’ebbrezza, facendo sì che dimenticassero ogni tenerezza, travolti dalla passione che, proprio come Malcanto, era stata trattenuta oltre misura.
«Questi sono i baci degli angeli» mormorò Amelia, le palpebre abbassate a trattenere quella sensazione di piacevole stordimento che le dava la bocca di Angheledrior.
I suoi baci la facevano sentire leggera, priva di peso, come se fluttuasse in una luce tiepida e vellutata. Intorno solo sussurri e carezze appena accennate, un popolo di refoli lievissimi l’avviluppava dolcemente, cullandola.
«Ne hai mai baciato uno?» le domandò in un soffio.
Lei socchiuse gli occhi, faticando a mettere a fuoco i contorni del suo volto. Quella volta il vino non c’entrava, anche se ne aveva bevuto un po’ troppo.
«Lo stavo baciando adesso» sorrise.
Ang si riaccostò all’Archimaga per riprendere da dove avevano interrotto.
Mentre la teneva imprigionata contro il salice, iniziò a seguire la fila di bottoncini che chiudeva l’abito. Scoprì che il primo era già scivolato fuori dell’asola, complice. Indugiare sarebbe stato da sciocchi e proseguì, passando al successivo che non oppose resistenza. Così anche il terzo, il quarto, fino all’ultimo.
Si appoggiò con un braccio al tronco, mentre con l’altra mano giocherellava con la maglietta, facendola salire un poco alla volta. Sentì Amelia trattenere il respiro, quando le sfiorò l’ombelico. Stava impazzendo, voleva toccarla senza impacci. Già altre volte aveva potuto accarezzarla a quel modo, ma godere interamente di quel corpo era un’altra cosa.
All’improvviso lo stalliere balzò indietro tenendosi la mano. La donna lo fissò, frastornata dalla brusca interruzione.
«Non metterti mai più quella roba!»
Confusa, non riuscì a rispondere.
«Non metterla più! Mi irrita. Sul serio» spiegò mostrandole l’indice.
Sul polpastrello era comparsa una piccola vescica. Aveva sempre detto di non sopportare i tessuti sintetici, che il loro odore e consistenza lo infastidivano. Non aveva mai accennato alla possibilità che fossero in qualche modo tossici.
«Comprala di cotone, di seta, di lana, di marabù, di pelo di coniglio,… di cuoio piuttosto! Ma non metterti addosso mai più quella porcheria!» brontolò additandola.
Amelia seguì la direzione che indicava, realizzando solo in quel momento che l’oggetto in questione fosse l’intimo che indossava.
«Devo toglierla?» chiese con una strana espressione sul viso.
«Sì!»
«Ora?» proseguì innocente, lasciando cadere il vestito dalle spalle.
Stava per risponderle, ma le parole erano improvvisamente venute a mancare. Squadrava turbato i piedi nudi circondati dalla stoffa.
«Ora?» ripeté, armeggiando con la maglia.
La guardò spogliarsi contro la corteccia grigia, il dito ancora stretto fra le labbra. Mai, neppure nelle sue fantasie più piccanti, aveva immaginato uno strip-tease lungo il Torrino. Di sicuro non poteva permetterle di starsene lì in piedi senza farle compagnia come si conveniva.
I vestiti obbedirono rapidi all’invocazione, agitandosi con tanta foga che incespicò nei calzini e la polo faticò a sfilarsi dalla testa. Quando riuscì a liberarsi, Amelia era ad un passo. Le diede il tempo di scoprire con gli occhi quello che avrebbe conosciuto con gli altri sensi. Dopo di che la spinse di nuovo contro il tronco, facendole sentire che quello non era l’unica cosa dura sulla sua pelle.
L’Archimaga sapeva che Ang non era affatto magro e filiforme com’erano gli elfi. Era più robusto, solido, umano. Era bello abbracciarlo e farsi abbracciare: i muscoli temprati dal lavoro nelle scuderie e nel giardino, dove di rado impiegava la magia, le trasmettevano un forte senso di sicurezza. Ed ora lo aveva davanti com’era venuto al mondo, in quella commistione di tratti che lo rendevano unico. Percorse con il dorso della mano il tatuaggio, aspettandosi di sentirlo frusciare insieme all’albero.
«Stanotte ti mangio tutta, fragolina» bisbigliò, azzerando la breve distanza che li separava.
Amelia non rispose, lasciandolo libero di dimostrarle per l’ennesima volta che non mentiva. La sollevò di peso, così che potesse cingergli i fianchi con le gambe. Da quella posizione, l’elfo poté assaporarne le  spalle, la gola ed i seni come splendide primizie, maturate per lui solo. La coprì di baci e morsi delicati, accompagnato da sospiri estatici mente scivolavano a terra, sostenuti dai rami guizzanti del salice. Lei neppure si rese conto di quello spostamento, abbandonata nel paradiso delle sue labbra.
L’elfo si ritrovò seduto con le gambe strette fra le sue. Lo sguardo trepidante dell’Archimaga tradiva il bisogno di porre fine a quel gioco, ma il suo tocco chiedeva di poter familiarizzare appieno con l’oggetto del suo desiderio. Rimase immobile, assaporando le carezze che gli scaldavano la pelle, risalendo dai polpacci fin dove la sua eccitazione non chiedeva altro che un po’ di doverosa attenzione. Attenzione che ricevette da quegli stessi palmi che si erano lasciati solleticare dalla peluria bionda delle gambe. Angheledrior ne approfittò per trascinarla più vicino e riprese a baciarla, assecondando con la bocca ed il bacino il ritmo di quel dolce supplizio.
Lasciò che lo spingesse sulla schiena, ricambiando quanto ricevuto fin dal primo giorno alla villa. Ciascun gesto venne ricompensato in maniera più che generosa.
«Mi farai morire, se continui» sussurrò quando la sentì sistemarsi meglio, fingendo di sfiorare inavvertitamente il suo sesso con la propria intimità.
Lei sorrise, continuando a danzare a quel modo, abbassandosi e stuzzicando il desiderio di entrambi.
«Angheledrior» chiamò, nell’istante in cui sentì l’elfo premere dolcemente fra le gambe.
«Piano, fragolina» ansimò, accompagnandola con le mani strette sui suoi fianchi.
Ang l’aiutò ad andargli incontro, entrando lentamente. Per ogni spinta che l’accompagnava nel corpo di Amelia, percepiva i loro contorni fondersi in un essere che li conteneva entrambi. Aveva l’impressione di spandersi in quel nuovo confine come l’acqua che irrigava un campo riarso e di sentirsi rincorrere da un’identica ondata di ribollente marea.
Odimaé.
Non si trattava più di una semplice metafora, che voleva l’amore carnale come rappresentazione dell’unione sentimentale. Stavano tramutandosi in una cosa sola.
Odimaé.
L’aura di Amelia, gialla e bordata d’un rosso sgargiante, confluiva senza distinzione in quella di Ang, verde e striata di bianco. Ognuno era dentro l’altro, l’uno era l’altro senza distinzione eppure riconoscibili.
Odimaé.
Una luce calda e liquida li avvolgeva, unendoli, se possibile, più di quanto braccia e cuore potessero fare.
Odimaé.
In quello spazio senza dimensioni, Amelia riconobbe la presenza del suo amato elfo. Dentro, fuori, tutt’intorno. Si sentiva una nube trafitta dai raggi del sole, ombra e luce insieme, in totale completezza. Nuda nel corpo quanto nell’anima, si era offerta, ricevendo un identico dono. Era così che aveva sempre immaginato l’amore: un eterno e vicendevole scambio, l’intimo riconoscersi di un tutt’uno, partecipare dell’altro. Si lasciò andare in quelle morbide onde, desiderando di restare per sempre dissolta nel suo compagno e Ang in lei, colmi dei sentimenti che li univano.
Riaprirono gli occhi, tremando in preda agli spasmi dell’amplesso, circondati dall’erba e dalla luna. Lo stalliere sospirò, gli occhi scintillanti come quelli di un animale selvatico. Sembrava esausto, svuotato.
«Sei una piccola ingorda, lo sai, fragolina?» la canzonò, prendendole il volto tra le mani.
Cercò le sue labbra per metterlo a tacere. Mai aveva provato un tale, appagante sfinimento. Voleva solo godere del languore di quegli attimi, assaporando l’odore della notte, il tenue sciacquio del canale ed il calore di Angheledrior, che ancora la riempiva. Nient’altro.

***

Errori, li chiamava. Semplici, banali errori. Poco importava che chi ne avesse risentito maggiormente fosse lui. Si poteva soprassedere ai suoi malori, alle sue proteste, ai suoi dinieghi, per poi ascoltare flebili scuse quando era costretto a sorreggersi ad un mobile o si accasciava negli angoli simile ad uno cencio. Aveva sibilato tutto il proprio rancore appena l’Archimaga aveva superato al galoppo il cancello, ottenendo solo un misericordioso:
«Jarvis, ritengo avresti dovuto accettare l’invito di Amelia. Hai bisogno di fare più vita sociale»
Che razza di risposta era quella? E che dire della scusa dell’insonnia? Lui non dormiva per ben altri motivi, non certo per un banale disturbo del sonno. O almeno, tentava di convincersi che fosse così. Rifiutava di ammettere la realtà: soffriva di un problema vero, tangibile e soprattutto, curabile. Era ridicolo. Semplicemente ridicolo.
Spiò oltre il cancello aperto. La campagna dormiva quieta ed immobile, bagnata d’argento.
Innervosito, prese a camminare intorno alla dimora, tampinato da Galileo. Il primo quarto di luna dondolava lento nel velluto del cielo.
Andare alla festa, che idea assurda.
Diede un’occhiata al gatto che trotterellava nell’erba, lasciandosi dietro una scia scura e ondulata. Una sensazione strana lo pervase. Una sorta di ricordo, lontano e nebuloso, d’aver vissuto un’analoga esperienza: lui che inseguiva una figura nella notte. Una bella notte. Strinse i pugni guantati e, nonostante provasse una sorta di vuoto, gli angoli della bocca s’incurvarono verso l’alto.
Galileo scattò avanti, raggiungendo un cespuglio. Dopo l’ispezione olfattiva, decise fosse bene ricordare a tutti i suoi simili chi fosse il padrone. Per qualche recondito motivo, l’idea piacque anche al maestro di corte che si avvicinò alla pianta. Il felino non parve risentirsi del gesto, tutt’altro: le pupille tonde si strinsero in approvazione.
Aveva appena sbottonato i pantaloni, quando una voce roca emerse nell’oscurità.
«Niente sveltina, oggi?»
Jarvis trasalì di sorpresa. Veniva da uno sgangherato capanno, poco più in là. Una sagoma tozza e nerboruta sporgeva dalle assi storte.
«Impicciati degli affari tuoi, nano» sibilò.
«E tu và a pisciare da un’altra parte. Quel posto è mio»

***

Ang stava disteso sul fianco, con indosso solo i jeans. Ripercorreva ad occhi chiusi ogni gemito ed ogni brivido di quel meraviglioso amplesso e quasi non ci credeva. Odimaé. Non esisteva parola nei linguaggi umani per tradurre ciò che quel termine elfico racchiudeva. L’unione più intima, profonda e totale tra due amanti. Un legame che travalicava il semplice piacere fisico, raggiungendo i vari strati dell’essere, fino all’anima. Aveva incontrato l’eikonal di Amelia, il cuore del suo essere. Vessato e mortificato per troppo tempo, vibrava ogni volta che le loro labbra incontravano, e certo non immaginava quanta travolgente forza fosse racchiusa nel piccolo contenitore che era la sua fragolina. Era stato splendido ciò che avevano provato. Indescrivibile, di una dolcezza e potenza senza confronto, anche se spossante. L’orgasmo che gli uomini tanto bramavano era ben misera cosa se paragonato all’Odimaé. Non c’era tanta assoluta completezza in un comune rapporto sessuale.
Amelia era lì accanto, ancora nuda e bocconi nell’erba, in cerca dei vestiti sparpagliati qua e là.
«Che è successo?» chiese, accarezzandole un fianco.
Si volse, interrogativa.
«Lo so, avrei dovuto chiedertelo prima e adesso passo da approfittatore» disse, strappandole un cenno d’assenso piuttosto ironico. «Parlo sul serio. Che succede? Il tuo angioletto dorme?» insisté, scrutando la sua spalla destra.
Amelia gli aveva raccontato che, da piccola, Suor Caterina le raccontava che tutti portavano su ciascuna spalla un angelo ed un diavolo. I due si contendevano giornalmente le azioni della persona che veniva loro affidata.
Si fermò, rigirando gli occhiali e sorrise.
«Ce l’ho davanti il mio angelo»
«E… il diavoletto?» la punzecchiò.
«Anche quello» replicò divertita, arricciando il naso.
Ang represse a fatica una battuta. Voleva conoscere il motivo di quel cambiamento d’idee. In quel mese non aveva mai dato adito a ripensamenti sul suo modo di essere o ragionare. Allungò il braccio e la prese in grembo, accarezzandola per scaldarla. Maggio non era il mese adatto per starsene svestiti di notte e in piena campagna.
«Sei sicura che sia stato giusto? Per te, intendo. Non vorrei che domattina ti pentissi d’aver infranto i tuoi principi. Jarvis non ti farà uscire per un pezzo e dubito di riuscire a convincere Don Pierino a montare su Malcanto per venire a confessarti» rise, immaginando le urla del grassoccio parroco con le gambe ciondoloni sulla groppa dell’Incubo.
«È stata la cosa giusta» confermò, cercando le stelle occhieggiare tra le foglie. «Ho sempre cercato di pianificare quel che volevo mi accadesse. Volevo un bel lavoro, ne facevo uno orrendo. Volevo l’amore della vita, sono stata mollata di continuo. Volevo tanti amici, li potrei contare sulle dita di una mano. Volevo che la mia famiglia mi considerasse di più e l’ho persa. Ma tutto quello che di buono mi è capitato non ha seguito le mie pretese. Me lo sono trovato davanti senza alcun preavviso, quando nemmeno lo cercavo. Credo che il Signore abbia stabilito che devo imparare a vivere giorno per giorno, lasciando che sia la vita a darmi quello di cui ho bisogno. A questo punto, non tenterò più di pianificare mia la felicità. Verrà lei da me e me la terrò ben stretta. Non voglio svegliarmi un giorno e, guardando indietro, scoprire di aver perduto anche questa occasione di poter essere felice. Non voglio perdere anche te»
Lo stalliere era perplesso. Il ragionamento filava, specie alla luce di quel che le era accaduto. Lo apprezzava. Di più: lo condivideva in pieno. Restava però un’incognita, ovvero come avrebbe fatto a portare avanti quella decisione. Amelia aveva tutta una serie di valori e principi a cui si atteneva, dubitava fosse in grado di accantonare il suo codice morale da un giorno all’altro come niente fosse.
«Stai dicendo che dimenticherai tutto quello che ti hanno messo in testa all’oratorio e dalle suore?»
«No, questo non posso farlo» ammise, esattamente come immaginava. «Dico solo che non cercherò di torcere il collo al destino. Lo lascerò libero di agire nei miei confronti. Così forse deciderà di essere un po’ più generoso e la smetterà di tartassarmi. I miei principi rimarranno comunque a far da guida, per ogni eventualità» ammiccò.
Anche se le credeva, continuava a nutrire perplessità. Temeva che, passata quella fase di apparente convincimento, le abitudini avrebbero preso il sopravvento e con esse, le delusioni. Doveva fare qualcosa. Detestava vederla piangere.
«Io non ti basto, per ogni eventualità?» domandò corrucciato, incrociando le braccia come un bimbo capriccioso.
Era talmente buffo che Amelia si alzò, le mani sui fianchi, pronta a simulare una bella ramanzina. La bocca si mosse appena, senza emettere suoni. S’irrigidì, sbarrando gli occhi e trattenendo il respiro.
«Amelia?» chiamò.
Quella non aveva l’aria di una presa in giro. Nella poca luce notturna riuscì a scorgere un pallore esangue allargarsi rapido sulla donna.
«Amelia!» gridò balzando in piedi.
L’afferrò per le spalle, trovando una statua di ghiaccio. Dietro di lei, evanescente quanto la guazza mattutina, c’era l’Incubo col muso affondato nella sua schiena, intento a nutrirsi dei suoi sogni.


Pant! Pant! Pant! Eccomi, eccomi! Un po' di corsa causa lavoro, ma eccomi! Un capitolo un po' piccantino per cominciare la settimana.
Ben arrivata a natalie1977. Come sempre rinnvo l'invito a lasciare un commento a questa storia.
Per Gaea: lo so, l'ultimo capitolo è stato un po' sconcertante, con le piccole rivoluzioni personali di Jarvis e Ang. Come vedi quest'aria di rinnovamento è condivisa anche da Amelia. E Isa... okay, lo ammetto, sono stata un po' cattiva, ma mi farò perdonare.
Per Emrys: sadico tu? Non direi, anzi, di sicuro ti batto! ^^
   
 
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