Anime & Manga > Il mistero della pietra azzurra
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Autore: Puglio    18/10/2010    4 recensioni
Il capitolo finale del mio seguito di "Nadia: il mistero della pietra azzurra". Nadia è partita alla volta di Atlantide. Jean, in un ultimo disperato tentativo di ritrovarla, decide di rivolgersi all'unica persona che conosce abbastanza la cultura di Atlantide per aiutarlo... ma non è un'impresa facile. Ora è solo, e non può fare affidamento che sulle sue forze. Intanto, Winston scopre che la sua missione si fa sempre più complicata...
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Avonlea, Nuova Scozia, 2 Settembre 1895

 

 

 

 

Il pomeriggio aveva gradualmente lasciato il posto alla sera e l'ultima luce del sole si stendeva obliqua sugli alberi dalle chiome macchiate di ruggine e tra gli steli dell'erba selvatica piegata dal vento. Seduto sui gradini di legno di quella piccola casetta spersa nel verde, Jean osservava semplicemente ciò che gli capitava davanti agli occhi: la densa cortina di siepi, lungo il limitare del campo; il lento svolazzare di qualche gabbiano, che osava spingersi più lontano degli altri dalla scogliera. E intanto, ascoltava il suono del vento, che passava veloce tra gli aghi sottili dei pini e tra le foglie ormai stanche delle querce, riunite in un piccolo boschetto dietro casa.

Era appena settembre, ma già l'aria cominciava a farsi più fresca. D'altra parte se lo aspettava. Charlottetown non era che a poche centinaia di chilometri da Boston. Quello era un clima a cui era già abituato.

«Se resti lì, ti buscherai un raffreddore».

Jean si voltò appena. Sorrise. Aspettò che lei si avvicinasse, ma quando tornò a voltarsi era già sparita, rientrata dentro casa.

Forse avrebbe dovuto andarsene, pensò, rigirandosi il cappello tra le mani. In effetti, sarebbe stato meglio. Aveva capito subito che lei non gradiva la sua presenza, anche se non gli era del tutto chiaro il perché.

Restò a fissare il vialetto di ghiaia bianca, costeggiato da pallidi ciuffi di Nontiscordardime. Qualche fiore resisteva ancora eroicamente, proprio come lui resisteva su quei gradini, solo e in un luogo dove non era desiderato.

Un carro passò rotolando le sue grosse ruote sulla terra battuta della strada, che costeggiava la siepe. L'uomo che lo guidava lanciò un'occhiata forse troppo lunga e curiosa in direzione di Jean. Lui abbassò gli occhi, quasi si vergognasse.

Non c'era nulla da fare. Era meglio andarsene.

«Elektra?»

Jean bussò alla porta, scostandola leggermente. In casa persisteva un delicato aroma di tè alla menta. La tavola era già apparecchiata per due e sul fornello, in una pentola lustra, bolliva il brodo per la cena.

Lui fece qualche passo dentro casa. Non poteva andarsene così, anche se forse lei non se ne sarebbe preoccupata più di tanto, visto che l'aveva seguita fino a casa contro la sua volontà.

Ma sì. Al diavolo.

Fece per andarsene, quando udì il suono gracchiante di un grammofono. Qualcuno stava ascoltando il concerto per violino in la minore di Bach. Jean si sfilò il cappello e con passo incerto si avvicinò alla porta del salotto.

Elektra stava in piedi, appoggiata con le mani al mobile su cui si trovava un grosso grammofono. Dava le spalle alla porta e non si voltò neppure quando questa si aprì, cigolando. Jean notò un suo debole movimento del capo, ma poi lei tornò ad abbassarlo quieta, indifferente. Quando il disco finì, lei sollevò la pesante puntina dal piatto e lasciò che la molla si scaricasse del tutto, prima di togliere il disco.

«È davvero una bella registrazione» fece Jean.

«Non è la registrazione ad essere bella, ma la composizione» lo corresse Elektra, senza mai voltarsi a guardarlo. Lui annuì, senza scoraggiarsi. Almeno era riuscito a farla parlare.

«Hai ragione. È incredibile come Bach riesca a costruire un intero brano partendo da una semplice cellula melodica. Ha creato una struttura che da un piccolo particolare cresce fino ad espandersi quasi all'infinito, e l'ha fatto basandosi interamente sulla proporzione aurea. Davvero stupefacente».

Elektra si voltò a guardarlo. Nei suoi occhi balenò una luce di sincera curiosità.

«Non sapevo ti intendessi di musica» disse. Lui sorrise.

«Non me ne intendo, infatti. Ma quando ero a Berlino, ho avuto modo di assistere a diversi concerti. Così ho imparato alcuni trucchi su come ascoltarla. In fondo, è davvero molto simile alla matematica».

Lei sorrise, abbassando gli occhi.

«Sei sempre stato un ragazzo in gamba» mormorò, inarcando un sopracciglio. Poi raddrizzò le spalle, sospirando.

«Ho chiamato il signor Blumenthal... gestisce un emporio, giù a Charlottetown. Ha detto che passerà a caricarti appena avrà finito il suo giro di consegne».

«Va bene».

Lei tacque, tormentandosi le mani per un attimo. Continuava a dargli le spalle, e ora si era spostata alla finestra.

«Non posso farti restare, lo capisci?»

«Penso di sì».

Lei scostò la tenda. Jean si rigirò per l'ennesima volta il cappello tra le mani.

«Hai davvero un bambino bellissimo» fece, non sapendo che dire. Comunque era vero. Lo pensava sul serio.

«Grazie» fece lei. «Assomiglia molto a suo padre, vero?»

«Non direi» fece lui. Lei si voltò, fissandolo sorpresa.

«Assomiglia molto di più a te. Direi che è la tua copia».

Elektra lo fissò stranita per qualche istante, quindi il suo volto si addolcì, e i suoi occhi si inumidirono leggermente.

«Perché non sai come guardarlo» disse. Jean ammiccò debolmente.

«Forse è così» convenne.

«Perché sei qui?» gli chiese lei improvvisamente, dura. Sorpreso da un cambiamento tanto repentino, lui non seppe cosa rispondere. Per qualche istante restò come paralizzato, a cercare una parola qualsiasi a cui aggrapparsi.

«Te l'ho detto» farfugliò «io...»

«No, non intendevo quello» lo interruppe lei. «Perché io».

Lui restò a fissarla a bocca aperta. Quindi chinò il capo.

«Sei la prima che mi è venuta in mente» confesso. Lei sbuffò.

«E dovrei sentirmi lusingata?»

«No, non intendevo questo».

Elektra si allontanò dalla finestra, percorrendo la stanza fino alla libreria. Gettò un'occhiata a un libro, lo raccolse dallo scaffale e lo aprì, richiudendolo subito dopo.

«Hai idea della fatica che ho fatto a lasciarmi tutto alle spalle?» esclamò, all'improvviso. «Dopo la morte di Elusys e lo scioglimento del nostro equipaggio, l'unica cosa che avevo in mente era cercare di rifarmi una vita lontano dal suo ricordo e dalla memoria di quei giorni terribili. E tu vieni qui, come se niente fosse, a distruggere tutto quello che ho così faticosamente creato! Ma chi ti credi di essere?»

Jean la fissò in silenzio, senza ribattere.

«Io ero innamorata di lui, e lui ha scelto di sacrificarsi per Nadia, per sua figlia. Non ha pensato che aveva me, e che avevo suo figlio, dentro di me, che stava per nascere. Ma io l'ho accettato, perché sapevo che era la sua missione... distruggere Gargoyle ad ogni costo e garantire a Nadia, all'unica sopravvissuta della sua famiglia, la vita che a causa sua non aveva mai avuto. Ma adesso... adesso io ero finalmente libera, prima di incontrare te!»

«Mi dispiace».

«Ti dispiace, certo».

Nessuno disse nulla per diverso tempo. Dalla cucina arrivava il confuso gorgogliare della pentola sul fuoco. Un orologio a pendola suonò le sette e mezza. Dopo pochi istanti, il suono degli zoccoli di un cavallo e lo sfrigolio della ghiaia pestata lungo il vialetto, annunciarono l'arrivo di un carro.

«Credo sia per me» fece Jean, con un sorriso mesto. Elektra non alzò neppure gli occhi. «Comunque, grazie lo stesso».

Lui fece per uscire, ma lei lo trattenne, richiamandolo.

«Non ci sono possibilità di recuperarla» fece. «Anche se volessi, non potresti mai raggiungerla. Lei ha utilizzato una Merkaba, per partire... sai cos'è?»

Lui nicchiò. «No, non ne ho idea».

Elektra sospirò. «Ogni corpo possiede una particolare energia latente, qualcosa che lo anima dall'interno e che lo circonda... è come una specie di aura».

«Capisco» fece lui.

«Gli esseri viventi, al contrario delle cose, possiedono un'aura decisamente più sviluppata: noi, infatti, al contrario di un oggetto, non possediamo solo un corpo fisico, ma anche uno mentale e uno emotivo, spirituale. La Merkaba è l'unione di queste tre caratteristiche. Puoi immaginare un tetraedro, del quale ad ogni punta corrisponde un aspetto del nostro essere: fisico, mentale, spirituale».

Jean annuì, socchiudendo gli occhi.

«La Merkaba rappresenta l'origine della vita. È la struttura energetica fondamentale che ha dato la forma all'uomo e all'universo vivente. Quando gli Atlantidei crearono l'uomo, lo fecero manipolando l'energia della Merkaba, un'energia contenuta nelle Pietre Sacre del nostro popolo. Tuttavia, dominare la Merkaba non è cosa da tutti. Solo coloro che possiedono un'energia capace di entrare in risonanza con quella contenuta nelle Pietre, possono realmente dominare la Merkaba. Nadia può farlo perché è l'ultima regina di Atlantide: la sua stirpe discende direttamente dagli dei del nostro popolo. Nel suo sangue, scorre la stessa energia contenuta nella Pietre».

«Ma cosa può fare la Merkaba, di preciso?»

«Cosa?» fece Elektra, aprendo le braccia. «Qualsiasi cosa. Per esempio, può aprire una porta dimensionale, capace di collegare tra loro punti lontanissimi dell'universo. Può arrivare a cancellare la forma fisica di un corpo e di tutto ciò che lo circonda, trasformandolo in pura energia capace di viaggiare a velocità superiori di miliardi di volte a quella della luce. Ecco, per esempio, cosa può fare».

Jean impallidì. Si trattava di un'energia davvero spaventosa.

«Quindi, non c'è nulla che tu possa fare. Un semplice essere umano non può manipolare la propria energia fondamentale, e non c'è modo per te di ottenere una Merkaba. Anche se tu avessi una Pietra, cosa che non hai, non sapresti mai come utilizzarla. E se dovessi comunque riuscire a liberare in qualche modo l'energia che essa racchiude, non potresti mai dominarla e finiresti col venire annientato».

«Ho capito».

Elektra tacque. Lo fissò, accesa in volto. Aveva parlato velocemente, con il fiato corto. Forse era stata troppo brusca e dura e ora provava un leggero senso di colpa.

«Mi dispiace» mormorò. «Lei non c'è più. Tutto ciò che puoi fare, è cercare di abituarti a ciò che resta, e vivere per quello».

Jean sorrise, senza alzare gli occhi. Si infilò il cappello e la guardò.

«Ti chiedo scusa se ti ho importunato» fece. «Grazie ancora per il tuo aiuto».

Elektra lo fissò mentre scompariva dietro lo stipite della porta. Ascoltò i suoi passi risuonare sul pavimento di legno del corridoio, e udì la porta d'ingresso aprirsi e richiudersi con un cigolio. Il vento che si intrufolò risalì il corridoio, riversandosi nella stanza e raggelandola, per un brevissimo istante. Quando la porta si chiuse, sembrò che la stanza, o forse l'intera casa, non fosse mai stata così calda. E silenziosa.

Fuori, la temperatura era scesa ancora. Jean si sollevò il bavero della giacca, chiudendoselo contro al collo. Il signor Blumenthal, seduto a cassetta, attendeva pazientemente, avvolto nel suo pastrano. Quando vide il ragazzo scendere i gradini, gli rivolse un'occhiata obliqua.

«È lei che deve andare in città?» chiese, brusco. Jean annuì.

«Jean!»

Si voltò, senza troppa energia. Elektra era sulla porta. Lo guardava con un'espressione vagamente confusa, i biondi capelli raccolti in una semplice conocchia. Il vento le agitava quei pochi boccoli che le erano scivolati ribelli sulle tempie. Lui la vide rabbrividire, e serrarsi il maglioncino di lana rosa sul petto.

«Hai un posto dove andare?»

Lui scrollò le spalle.

«Troverò qualcosa».

Lei si morse il labbro. Quindi, «Se hai fame, c'è della minestra».

Jean sorrise. «Non voglio disturbarti oltre» fece. Lei ricambiò il suo sorriso, scostandosi un ricciolo dal volto.

«Voglio solo che ti fermi a mangiare qualcosa. Sono stata troppo brusca, e voglio farmi perdonare. Puoi sempre partire domani».

Lui la fissò a lungo, quindi si volse a guardare il signor Blumenthal, che aspettava sul carro. L'uomo si scosse leggermente, tossendo.

«Allora, che fa?» chiese.

Jean si calcò il cappello in testa, e sorrise.

La porta della piccola casa di legno si chiuse, mentre il signor Blumenthal, chino su se stesso, schioccava le redini, avviandosi da solo sulla via del ritorno.



  
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