Uno
Due
anni dopo
-Così quella fu l’ultima
volta che lo vide?-
Gli occhi di Alberto erano
di nuovo umidi. Come tutte le volte che doveva ripercorrere quell’evento della
sua vita, interrotta quel giorno di due anni prima. Annuì. Dopo il solito racconto, condensato per
adattarsi al breve tempo concesso dalle sedute terapeutiche, Alberto si sentiva
sempre così, svuotato di qualunque energia, incapace di pensare che il suo
Nathan non ci fosse più, semplicemente volatilizzato nel nulla, consacrato dai
telegiornali come un altro caso di persona scomparsa senza lasciare alcuna
traccia…
Annuì. La donna seduta
accanto a lui teneva le gambe incrociate ed un taccuino nella mano sinistra, e
lo osservava attentamente. Non ci si poteva sbagliare sul suo lavoro.
-Capisco come lei si
senta. Posso farle una domanda?-
-Dica, dica pure.-
-Cosa esattamente non la
lascia tranquillo, di questa storia?-
Alberto ci pensò su,
nonostante sapesse bene la risposta. Non c’era ombra di dubbio sulla sua
risposta: Mi manca Nathan, e non posso credere che sia soltanto scappato,
perché andava tutto bene. Qualcuno l’ha rapito, è ancora vivo da qualche parte,
ma io non so cosa fare. La polizia ha in mano tutto, ma non sono riusciti a
muovere un passo. Perché? Perché, diosanto, perché???
-…Nathan. Mi manca Nathan.-
Rispose Alberto. La
dottoressa annuì e scribacchiò qualcosa sul suo taccuino. Anche se lui non
aveva espresso i suoi pensieri, lei sicuramente aveva intuito tutto. Non tanto
perché fosse una psicologa, ma quanto perché l’intera storia era stata sbattuta
sulle prime pagine di tutta Italia, solo perché Alberto aveva parlato con la
persona sbagliata. Per giorni erano entrati nella loro vita, in quella vita che
si erano costruiti in cinque anni di relazione… eviscerando molti aspetti,
facendo ipotesi, lucrando sul suo dolore.
-So anche che le manca la
sua privacy, i suoi ricordi… perché tutto ciò che aveva, le è stato sottratto
dall’informazione. È un paradosso piuttosto curioso. L’informazione che anziché
informare ci toglie informazioni preziose… come i ricordi.-
-Già… è anche per quello
che mi sento così, dottoressa… -
Alberto sospirò. Doveva
ritenersi fortunato di essere riuscito a conservare il suo posto di lavoro
all’Università, nonostante il suo stato mentale.
Durante il periodo di
assedio mediatico, Alberto aveva cominciato a sentirsi smarrito. Si alzava la
mattina con in mente soltanto Nathan, aspettandolo… per talmente tanto tempo
che saltava giorni interi di lavoro, stando seduto al tavolo della cucina nel
silenzio generale del loro appartamento. Ogni tanto spiccicava qualche parola
incomprensibile, o si girava a qualunque rumore provenisse dall’androne delle
scale, sperando che fosse Nathan che tornava a casa dalla spesa oppure dalla
scuola di ballo… ma immancabilmente la porta che si apriva e poi si richiudeva,
non era mai la sua. Una volta si era addirittura sorpreso a piantonare la porta
come un cane da guardia, pronto ad aprirla in caso di bisogno. Così, tendendo
l’orecchio alla porta, aveva sentito un suono di scarpe che salivano
lentamente… si fermavano, risalivano… si fermavano ancora. Fino a che non
smisero del tutto. Allora lui aprì di scatto la porta, chiamando “Nathan!!” …
ma ciò che ottenne fu soltanto una figuraccia. Ricordò come Dario, il figlio ventiduenne
dei Mainardi lo guardò sollevando un sopracciglio, per poi frettolosamente
estrarre le chiavi ed entrare in casa, senza nemmeno dire un “Ciao”. Aveva
richiuso la porta, scosso la testa e represso l’istinto di piangere. Poco dopo,
era andato su internet a cercare l’indirizzo di un bravo psicologo.
-E’ del tutto normale
cedere allo sconforto e comportarsi come lei ha fatto, Alberto… Ma sappia che a
tutto c’è un rimedio. Le anticiperò subito che non sarà un rimedio indolore, e
che ci vorrà del tempo prima che lei riacquisti il controllo della sua vita, ma
noi faremo del nostro meglio affinché tutto torni alla normalità. Non è così?-
-Nathan… Io… io non riesco
più a vivere, senza di lui.-
Disse di nuovo Alberto,
come un disco rotto. Contrasse le gambe insieme, attorcigliandole… mani si
chiusero a pugno, ed ebbe un brivido di freddo. La dottoressa non si scompose, non
fino a che un lieve cicalino non si mise a suonare.
-Purtroppo il nostro tempo
a disposizione è scaduto, Alberto. Le do appuntamento alla prossima settimana,
e le consiglio di rilassarsi.-
Detto ciò, la dottoressa
si alzò, e Alberto la imitò. Lo accompagnò alla porta, e lo salutò con un
fievole “Arrivederci”. Dopodiché la porta si chiuse alle sue spalle, e lui si
sentì di nuovo smarrito.
*****
La notte, che prima era
stata tanto dolce da desiderare che non finisse più, adesso era soltanto un
luogo di solitudine tra la fine di un giorno e l’inizio di un altro. Nel buio
della sua stanza, rotto soltanto dalla diafana luce di qualche lampione giù in
strada, Alberto poteva comunque distinguere forme conosciute: la sua scrivania
con quel disordine che faceva tanto ammattire Nathan, con sopra il suo computer
portatile fornito dall’Università con il quale preparava gli stipendi dei
dipendenti della sua area… la stessa scrivania che era stata teatro di un dolce
intermezzo, un anno prima, che aveva visto protagonisti lui e Nathan, seduto
sulla scrivania, che lo stuzzicava amorevolmente con i piedi. Dapprincipio
Alberto era rimasto un po’ infastidito, anche perché il lavoro di mettere
insieme gli stipendi di cinquanta dipendenti non era cosa da poco, ma poi si
era lasciato convincere a prendersi una pausa, e per l’ardore del momento, era
stata consumata proprio su quella scrivania.
Sospirò, continuando il
giro della camera con gli occhi… c’erano ancora i quadri di vecchie locandine
cinematografiche risalenti all’età d’oro del cinema. Nathan era sempre stato
appassionato di cineasti come Fellini, Rossellini, Monicelli. Registi e film
che ad Alberto non dicevano proprio nulla, ma stranamente quando era con Nathan
riusciva ad apprezzarli in un modo particolare. Un modo speciale per dire “ti
amo” anche senza necessariamente apprezzare ciò che piace all’altro.
“Cosa non darei per
rivedere uno di quei film con te, amore mio…”
Una locandina portava il
titolo AMARCORD, la cui colonna
sonora aveva suonato dagli speaker del suo portatile per molti giorni, e sulle
quali note Alberto aveva danzato insieme ad un Nathan vestito da principe
persiano, un costume che doveva ancora restituire alla sartoria teatrale,
ricordo di uno spettacolo che aveva fatto tempo prima. Forse era stata
addirittura quella colonna sonora a farli incontrare. Sì, ricordava come Nathan
si era avvicinato a lui in quell’internet café, mentre lui stava guardando per
errore un filmato sull’allora giovanissimo Youtube. Amarcord, appunto.
-Ti piacciono i film di
Fellini?-
Gli aveva chiesto quel
ragazzo biondo con gli occhi chiari. Lì per lì Alberto non era riuscito a
rispondere, ammutolito da tanta bellezza. Nella sua mente la frase “non lo so,
non conosco questo Fellini, sono entrato in questo filmato per sbaglio” era lì
pronta ad uscire, ma chissà perché, come spesso accadeva, al posto di una frase
ne usciva sempre un’altra dalla bocca di Alberto.
-Sì, abbastanza. Più che
altro mi piace la colonna sonora. È molto bella.-
-Oh, davvero? Che
coincidenza, ho appena acquistato la colonna sonora…-
E da lì era incominciata
una bellissima relazione, durata cinque anni. Per tutto quel tempo era stato bene,
finalmente bene, dopo tante delusioni. Cosa gli importava di andarsene in giro
qua e là per locali a fare il galletto con gli altri ragazzi? Gliene sarebbe
bastato uno, e finalmente era arrivato. Con Nathan aveva gettato le basi per
una vita, dedicata totalmente a lui. Lo stesso aveva fatto Nathan, e cosa gli
importava se non potevano sposarsi. Ognuno aveva l’altro, e questo bastava.
Solo che non si sarebbe
mai aspettato che tanta felicità sarebbe svanita da un momento all’altro, come
il giorno che subentra alla notte. Da un momento all’altro Nathan era sparito,
volatilizzato nel nulla. Il suo cellulare ancora lì nel cassetto da tanto
tempo, addirittura completo di portafogli con la tessera bancomat ed i suoi
documenti… Come se ci fosse ancora. Ma
lui non c’era.
Le quattro e venti del
mattino.
Non riuscendo più a
dormire, Alberto si era messo a sedere sul letto, aveva aperto il cassetto
dalla parte opposta al suo (dove dormiva Nathan) ed aveva preso tutti gli
effetti personali che ancora rimanevano lì. Una banconota da venti euro era nel
portafogli, a testimoniare che il buon Nathan aveva in mente di comprarsi quel
bel paio di pantaloni attillati che aveva visto in centro, oppure un cappello
nuovo, ma che non era mai riuscito a farlo per ovvi motivi… la sua patente di
guida, documento abbastanza inutile dal momento che l’aveva conseguita, non
aveva mai preso in mano un volante, se non si contavano le volte in cui era
stato costretto a spostare
Poi c’era la sua carta
d’identità, che mostrava quanto fosse stato carino anche a quindici anni, un
vero e proprio angioletto da coccolare. “Ma come faccio ad innamorarmi di un
altro che non sei tu, amore mio…?” Pensò Nathan, mentre una lacrima gli rigava
il volto.
All’improvviso, Alberto si
riscosse da quello stato di torpore. Un rumore attirò la sua attenzione.
Proveniva dall’androne
delle scale.
Passi.
Passi che salivano le
scale, leggeri, lenti… quasi esitanti.
“Se anche stavolta è il
figlio dei Mainardi”, pensò Alberto, “è la volta buona che gliele suono.”
E si alzò frettolosamente,
andando a mettersi accanto alla porta. Purtroppo questa non aveva lo spioncino,
quindi non poteva valutare chi fosse il misterioso visitatore. Intanto, i passi
erano cessati. Era del tutto improbabile che il visitatore fosse entrato in un
appartamento: non aveva sentito alcun sbattere di porte. Per cui, se la
matematica non era un’opinione, doveva essere ancora lì.
Accanto alla porta c’era
un pesante orcio portaombrelli. Scelse quello con il manico metallico, un altro
reperto appartenente a Nathan. Se si trattava di un topo d’appartamento,
sicuramente non sarebbe ritornato a rompere le scatole. Aprì la porta, armato
con l’ombrello, ed uscì cautamente. Il pianerottolo era abbastanza freddo sotto
i suoi piedi, ma lui non ci badò. Si guardò intorno, ma sulle scale non c’era
proprio nessuno. Buttò un occhio alla porta dei Mainardi, poi a quella della
signora Galanti, l’anziana vedova che viveva nell’appartamento di fronte,
leggermente preoccupato per lei… Scese le scale fino al pianerottolo inferiore,
sporgendosi dalla ringhiera per capire chi aveva prodotto il suono di quei
passi. Ma apparentemente non c’era nessuno. Fece per rientrare in casa, quando
un lampo improvviso lo accecò, e si precipitò a scendere le scale fino al
pianterreno, dove i passi stavano correndo e il portone si era appena chiuso.
Questo si riaprì di nuovo
con uno scatto, ma Alberto non fece in tempo ad acchiappare il misterioso
visitatore. Era già uscito in strada, e non poteva certo uscire così, in
pigiama e a piedi nudi. Rientrò in casa sconfitto, posò l’ombrello e meditò se
fosse stato il caso di fare una denuncia o meno, il giorno dopo.
“Sì, e contro chi la
faresti, la denuncia? Contro uno che ti ha sparato un flash di una macchina
fotografica negli occhi? Lascia perdere, Alby… Hai già troppi pensieri per la
testa. Fatti un bel sonno e non pensarci più, che domani devi andare al lavoro…
e lì non sono certo così simpatici da spararti un flash negli occhi…” pensò, e
si rimise sotto le coperte, tentando di guadagnare quelle pochissime ore di
sonno che gli restavano.