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Autore: StephEnKing1985    24/10/2010    2 recensioni
Alberto aveva un ragazzo, Nathan. La loro relazione durava da cinque anni, fino a che un giorno Nathan non uscì di casa e non scomparve. A distanza di due anni, Alberto è ancora solo e non sa cosa fare della sua vita. Mentre cerca di rialzarsi, misteriosi omicidi sconvolgono la tranquilla città di Torino. Conoscendo le vittime, Alberto si sentirà in dovere di indagare. Aiutato da uno scrittore, Alberto seguirà la via dell'assassino, fino a scoprire un'agghiacciante verità che mai avrebbe potuto immaginare.
Genere: Dark, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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1

Uno

 

Due anni dopo

 

-Così quella fu l’ultima volta che lo vide?-

Gli occhi di Alberto erano di nuovo umidi. Come tutte le volte che doveva ripercorrere quell’evento della sua vita, interrotta quel giorno di due anni prima. Annuì.  Dopo il solito racconto, condensato per adattarsi al breve tempo concesso dalle sedute terapeutiche, Alberto si sentiva sempre così, svuotato di qualunque energia, incapace di pensare che il suo Nathan non ci fosse più, semplicemente volatilizzato nel nulla, consacrato dai telegiornali come un altro caso di persona scomparsa senza lasciare alcuna traccia…

Annuì. La donna seduta accanto a lui teneva le gambe incrociate ed un taccuino nella mano sinistra, e lo osservava attentamente. Non ci si poteva sbagliare sul suo lavoro.

-Capisco come lei si senta. Posso farle una domanda?-

-Dica, dica pure.-

-Cosa esattamente non la lascia tranquillo, di questa storia?-

Alberto ci pensò su, nonostante sapesse bene la risposta. Non c’era ombra di dubbio sulla sua risposta: Mi manca Nathan, e non posso credere che sia soltanto scappato, perché andava tutto bene. Qualcuno l’ha rapito, è ancora vivo da qualche parte, ma io non so cosa fare. La polizia ha in mano tutto, ma non sono riusciti a muovere un passo. Perché? Perché, diosanto, perché???

-…Nathan. Mi manca Nathan.-

Rispose Alberto. La dottoressa annuì e scribacchiò qualcosa sul suo taccuino. Anche se lui non aveva espresso i suoi pensieri, lei sicuramente aveva intuito tutto. Non tanto perché fosse una psicologa, ma quanto perché l’intera storia era stata sbattuta sulle prime pagine di tutta Italia, solo perché Alberto aveva parlato con la persona sbagliata. Per giorni erano entrati nella loro vita, in quella vita che si erano costruiti in cinque anni di relazione… eviscerando molti aspetti, facendo ipotesi, lucrando sul suo dolore.

-So anche che le manca la sua privacy, i suoi ricordi… perché tutto ciò che aveva, le è stato sottratto dall’informazione. È un paradosso piuttosto curioso. L’informazione che anziché informare ci toglie informazioni preziose… come i ricordi.-

-Già… è anche per quello che mi sento così, dottoressa… -

Alberto sospirò. Doveva ritenersi fortunato di essere riuscito a conservare il suo posto di lavoro all’Università, nonostante il suo stato mentale.

Durante il periodo di assedio mediatico, Alberto aveva cominciato a sentirsi smarrito. Si alzava la mattina con in mente soltanto Nathan, aspettandolo… per talmente tanto tempo che saltava giorni interi di lavoro, stando seduto al tavolo della cucina nel silenzio generale del loro appartamento. Ogni tanto spiccicava qualche parola incomprensibile, o si girava a qualunque rumore provenisse dall’androne delle scale, sperando che fosse Nathan che tornava a casa dalla spesa oppure dalla scuola di ballo… ma immancabilmente la porta che si apriva e poi si richiudeva, non era mai la sua. Una volta si era addirittura sorpreso a piantonare la porta come un cane da guardia, pronto ad aprirla in caso di bisogno. Così, tendendo l’orecchio alla porta, aveva sentito un suono di scarpe che salivano lentamente… si fermavano, risalivano… si fermavano ancora. Fino a che non smisero del tutto. Allora lui aprì di scatto la porta, chiamando “Nathan!!” … ma ciò che ottenne fu soltanto una figuraccia. Ricordò come Dario, il figlio ventiduenne dei Mainardi lo guardò sollevando un sopracciglio, per poi frettolosamente estrarre le chiavi ed entrare in casa, senza nemmeno dire un “Ciao”. Aveva richiuso la porta, scosso la testa e represso l’istinto di piangere. Poco dopo, era andato su internet a cercare l’indirizzo di un bravo psicologo.

-E’ del tutto normale cedere allo sconforto e comportarsi come lei ha fatto, Alberto… Ma sappia che a tutto c’è un rimedio. Le anticiperò subito che non sarà un rimedio indolore, e che ci vorrà del tempo prima che lei riacquisti il controllo della sua vita, ma noi faremo del nostro meglio affinché tutto torni alla normalità. Non è così?-

-Nathan… Io… io non riesco più a vivere, senza di lui.-

Disse di nuovo Alberto, come un disco rotto. Contrasse le gambe insieme, attorcigliandole… mani si chiusero a pugno, ed ebbe un brivido di freddo. La dottoressa non si scompose, non fino a che un lieve cicalino non si mise a suonare.

-Purtroppo il nostro tempo a disposizione è scaduto, Alberto. Le do appuntamento alla prossima settimana, e le consiglio di rilassarsi.-

Detto ciò, la dottoressa si alzò, e Alberto la imitò. Lo accompagnò alla porta, e lo salutò con un fievole “Arrivederci”. Dopodiché la porta si chiuse alle sue spalle, e lui si sentì di nuovo smarrito.

 

*****

 

La notte, che prima era stata tanto dolce da desiderare che non finisse più, adesso era soltanto un luogo di solitudine tra la fine di un giorno e l’inizio di un altro. Nel buio della sua stanza, rotto soltanto dalla diafana luce di qualche lampione giù in strada, Alberto poteva comunque distinguere forme conosciute: la sua scrivania con quel disordine che faceva tanto ammattire Nathan, con sopra il suo computer portatile fornito dall’Università con il quale preparava gli stipendi dei dipendenti della sua area… la stessa scrivania che era stata teatro di un dolce intermezzo, un anno prima, che aveva visto protagonisti lui e Nathan, seduto sulla scrivania, che lo stuzzicava amorevolmente con i piedi. Dapprincipio Alberto era rimasto un po’ infastidito, anche perché il lavoro di mettere insieme gli stipendi di cinquanta dipendenti non era cosa da poco, ma poi si era lasciato convincere a prendersi una pausa, e per l’ardore del momento, era stata consumata proprio su quella scrivania.

Sospirò, continuando il giro della camera con gli occhi… c’erano ancora i quadri di vecchie locandine cinematografiche risalenti all’età d’oro del cinema. Nathan era sempre stato appassionato di cineasti come Fellini, Rossellini, Monicelli. Registi e film che ad Alberto non dicevano proprio nulla, ma stranamente quando era con Nathan riusciva ad apprezzarli in un modo particolare. Un modo speciale per dire “ti amo” anche senza necessariamente apprezzare ciò che piace all’altro.

“Cosa non darei per rivedere uno di quei film con te, amore mio…”

Una locandina portava il titolo AMARCORD, la cui colonna sonora aveva suonato dagli speaker del suo portatile per molti giorni, e sulle quali note Alberto aveva danzato insieme ad un Nathan vestito da principe persiano, un costume che doveva ancora restituire alla sartoria teatrale, ricordo di uno spettacolo che aveva fatto tempo prima. Forse era stata addirittura quella colonna sonora a farli incontrare. Sì, ricordava come Nathan si era avvicinato a lui in quell’internet café, mentre lui stava guardando per errore un filmato sull’allora giovanissimo Youtube. Amarcord, appunto.

-Ti piacciono i film di Fellini?-

Gli aveva chiesto quel ragazzo biondo con gli occhi chiari. Lì per lì Alberto non era riuscito a rispondere, ammutolito da tanta bellezza. Nella sua mente la frase “non lo so, non conosco questo Fellini, sono entrato in questo filmato per sbaglio” era lì pronta ad uscire, ma chissà perché, come spesso accadeva, al posto di una frase ne usciva sempre un’altra dalla bocca di Alberto.

-Sì, abbastanza. Più che altro mi piace la colonna sonora. È molto bella.-

-Oh, davvero? Che coincidenza, ho appena acquistato la colonna sonora…-

E da lì era incominciata una bellissima relazione, durata cinque anni. Per tutto quel tempo era stato bene, finalmente bene, dopo tante delusioni. Cosa gli importava di andarsene in giro qua e là per locali a fare il galletto con gli altri ragazzi? Gliene sarebbe bastato uno, e finalmente era arrivato. Con Nathan aveva gettato le basi per una vita, dedicata totalmente a lui. Lo stesso aveva fatto Nathan, e cosa gli importava se non potevano sposarsi. Ognuno aveva l’altro, e questo bastava.

Solo che non si sarebbe mai aspettato che tanta felicità sarebbe svanita da un momento all’altro, come il giorno che subentra alla notte. Da un momento all’altro Nathan era sparito, volatilizzato nel nulla. Il suo cellulare ancora lì nel cassetto da tanto tempo, addirittura completo di portafogli con la tessera bancomat ed i suoi documenti…  Come se ci fosse ancora. Ma lui non c’era.

Le quattro e venti del mattino.

Non riuscendo più a dormire, Alberto si era messo a sedere sul letto, aveva aperto il cassetto dalla parte opposta al suo (dove dormiva Nathan) ed aveva preso tutti gli effetti personali che ancora rimanevano lì. Una banconota da venti euro era nel portafogli, a testimoniare che il buon Nathan aveva in mente di comprarsi quel bel paio di pantaloni attillati che aveva visto in centro, oppure un cappello nuovo, ma che non era mai riuscito a farlo per ovvi motivi… la sua patente di guida, documento abbastanza inutile dal momento che l’aveva conseguita, non aveva mai preso in mano un volante, se non si contavano le volte in cui era stato costretto a spostare la Skoda Fabia di Alberto perché i signori Mainardi non riuscivano ad uscire dal parcheggio. La foto era piccola, ma si poteva riconoscere il diciottenne che Nathan era stato. Un bel ragazzo, che addirittura in quella foto sorrideva come uno scolaretto… Alberto ebbe un moto di tenerezza, in quel mare di ricordi, pensando a com’era dolce quando si baciavano.

Poi c’era la sua carta d’identità, che mostrava quanto fosse stato carino anche a quindici anni, un vero e proprio angioletto da coccolare. “Ma come faccio ad innamorarmi di un altro che non sei tu, amore mio…?” Pensò Nathan, mentre una lacrima gli rigava il volto.

All’improvviso, Alberto si riscosse da quello stato di torpore. Un rumore attirò la sua attenzione.

Proveniva dall’androne delle scale.

Passi.

Passi che salivano le scale, leggeri, lenti… quasi esitanti.

“Se anche stavolta è il figlio dei Mainardi”, pensò Alberto, “è la volta buona che gliele suono.”

E si alzò frettolosamente, andando a mettersi accanto alla porta. Purtroppo questa non aveva lo spioncino, quindi non poteva valutare chi fosse il misterioso visitatore. Intanto, i passi erano cessati. Era del tutto improbabile che il visitatore fosse entrato in un appartamento: non aveva sentito alcun sbattere di porte. Per cui, se la matematica non era un’opinione, doveva essere ancora lì.

Accanto alla porta c’era un pesante orcio portaombrelli. Scelse quello con il manico metallico, un altro reperto appartenente a Nathan. Se si trattava di un topo d’appartamento, sicuramente non sarebbe ritornato a rompere le scatole. Aprì la porta, armato con l’ombrello, ed uscì cautamente. Il pianerottolo era abbastanza freddo sotto i suoi piedi, ma lui non ci badò. Si guardò intorno, ma sulle scale non c’era proprio nessuno. Buttò un occhio alla porta dei Mainardi, poi a quella della signora Galanti, l’anziana vedova che viveva nell’appartamento di fronte, leggermente preoccupato per lei… Scese le scale fino al pianerottolo inferiore, sporgendosi dalla ringhiera per capire chi aveva prodotto il suono di quei passi. Ma apparentemente non c’era nessuno. Fece per rientrare in casa, quando un lampo improvviso lo accecò, e si precipitò a scendere le scale fino al pianterreno, dove i passi stavano correndo e il portone si era appena chiuso.

Questo si riaprì di nuovo con uno scatto, ma Alberto non fece in tempo ad acchiappare il misterioso visitatore. Era già uscito in strada, e non poteva certo uscire così, in pigiama e a piedi nudi. Rientrò in casa sconfitto, posò l’ombrello e meditò se fosse stato il caso di fare una denuncia o meno, il giorno dopo.

“Sì, e contro chi la faresti, la denuncia? Contro uno che ti ha sparato un flash di una macchina fotografica negli occhi? Lascia perdere, Alby… Hai già troppi pensieri per la testa. Fatti un bel sonno e non pensarci più, che domani devi andare al lavoro… e lì non sono certo così simpatici da spararti un flash negli occhi…” pensò, e si rimise sotto le coperte, tentando di guadagnare quelle pochissime ore di sonno che gli restavano.

 

 

   
 
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