-la ragazza è morta, e
papà è al suo funerale.-
Joey non osava guardare
il fratello, che invece lo scrutava ardentemente. Non ce la faceva a incrociare
quegli occhi dardeggianti d’ odio, non riusciva a fissare quelle due grotte,
quei due labirinti colmi del vento dell’ ira che erano gli occhi di Jakob. Il
piccolo era funesto, perché tutti lo avevano tradito: sua madre, che era corsa
dal marito come il ferro attirato dalla calamita, il fratello, che si era
chinato a testa bassa per farsi perdonare dall’ uomo che aveva fatto loro tanto
male, Mike, che lui credeva un punto fisso nella sua vita, la Stella Polare, la
guida della sua esistenza, e poi lui, l’ imperdonabile, colui che gli aveva
mentito per tanti anni, che lo aveva cresciuto nella bambagia delle menzogne,
cullato nella fantasia di una famiglia serena.
Jakob tremò appena al
ricordo dei tanti bei pomeriggi passati insieme, delle corse, delle belle
parole in musica. Joey era sempre a testa bassa, pronto a ricevere le frustate
del fratello, arreso, moscio, come la pelle in un animale che non c’ è più, il
cui corpo è stato maciullato, e il cui cervello si è spento.
-hai di nuovo il coraggio
di chiamarlo papà, vedo. Dopo tutto quello che ci siamo detti, dopo tutte le
parole che gli hai rivolto, dopo la lettera. Hai di nuovo e ancora il coraggio
di compiangerlo, e dico ancora perché, a questo punto, mi chiedo se davvero tu,
per un certo periodo, l’ abbia perso. Ora mi domando: quando finirà tutto
questo, quando finalmente tutti coloro che lo attorniano si renderanno conto di
che persona è quella che noi dovremmo chiamare papà? Quando tutti finiranno di
compiangerlo, di capirlo, di cercare di scusarlo per tutte le sue malefatte?
Quando lo lasceranno perdere? Joey, se nemmeno tu, che sei sempre stato il più
forte tra noi, ci sei riuscito, credo che non ci riuscirà nessuno. Io mi
vergogno, di tutti, di tutto, del mondo che mi circonda, del mondo che si
costringe a difendere gente squallida come lui, che cerca di cavarne il lato
positivo quando esso non c’ è, che si aggrappa alla vana speranza che possa
esserci un cuore in fondo a un uomo come lui, che si arrampica sugli specchi
tentando di dire che non è colpa sua, ma che lui è sempre, solo, coinvolto da
circostanze sfavorevoli. Perché lui è sempre la vittima? Perché lui non ha mai
colpe, come tutti gli altri esseri umani? Perché tutti si ostinano a fargli da
scudo? Ha sofferto più di chiunque altro al mondo? O è solo lui che ha l’
albagia di ergersi a massima vittima?-
Joey doveva resistere, e
lottava stoicamente nel tentativo di trattenersi dal prorompere in una
rivelazione che non doveva fare. Quelle parole non dovevano uscirgli dalla
bocca, non dovevano risuonare nel salotto di quella casa che sapeva troppo di
suo padre. In automatico, serrò la bocca.
-Joey, perché non rispondi?-
…
Era finita. Sua sorella
era finita, e la sua avventura anche. Clarissa si sentiva come se fosse passata
un’ era da quando era partita da casa sua. Era cambiato troppo da quel momento:
la sua vita di studentessa spensierata si era trasformata in un’ enorme romanzo
dal ritmo narrativo velocissimo, di cui lei era la protagonista assoluta. Ora
voleva uscire dal quel romanzo, voleva liberarsi da quella gabbia e tornare la studentessa che era stata.
Toccava riscrivere il romanzo dal punto in cui aveva lasciato casa sua.
Ed eccola lì, la sua
camera, tappezzata di poster dei Green Day. Avrebbe cominciato da lì a
riscrivere il suo romanzo: percorse il perimetro della camera tre volte,
strusciando il fianco sinistro sulla carta patinata, lentamente, cercando di
avvertire ogni piccola imperfezione della carta sulla pelle; poi, con un gesto
violento, strappò dal muro il primo poster, prese i due pezzi e li distrusse, finchè non furono solo un piccolo mucchio di foglietti di
carta informi, rozzi, volubili, indifesi come lei. Ne fece un mucchio, per
terra, li uniformò, volle la perfezione da quei coriandoli; poi caricò il piede
destro e li scalciò violentemente, con tutta la forza che possedeva, finchè non li vide svolazzare per la stanza, inermi sotto
la sua furia, mentre cercavano di mettersi in fuga per l’ aere. Non le fecero
pena, nemmeno le cose più piccole e docili, nemmeno la leggerezza della carta
sottile rendevano Clarissa meno furente. Quei pezzi di carta resi
irriconducibili a quello che era stato un poster colorato e festante
rappresentavano lui, la riconducevano a lui, lo facevano entrare a far parte
della sua vita, e questo bastava per non farle avere alcuna pietà di loro. Li
scalciò più e più volte, e appena ne vedeva uno adagiarsi vergognosamente sul
pavimento lo scalciava di nuovo con forza, perdendo l’ equilibrio, cadendo più
volte, ma rialzandosi per scalciare un nuovo frammento di lui.
Clarissa si diresse al
porta cd, luogo di culto per lei e le sue amiche, tempo fa: prese i cd e li
distrusse a uno a uno, fino ad arrivare all’ ultimo, quello che l’ aveva
segnata di più, il suo cd, quello che la rappresentava di più, quello che
raccontava la storia della sua vita, quello che aveva fatto emergere, per la
prima volta, il Jesus of Suburbia che era in lei. Come al rallentatore, lo
prese in mano: il cuore sanguinava ancora stretto nella mano, la scritta
campeggiava ancora festante, bianca e accusatoria, le canzoni ancora urlavano,
dentro il booklet, parlavano della rabbia e dell’ amore, delle gioie, della
povertà, dell’ amore represso di un giovane come lei, di un uomo che l’ aveva
fatta crescere, e l’ aveva fatta morire.
Ma quello era lei, quella
era la sua vita. Se allora questa è la
mia vita, e la devo riscrivere, che senso ha tenerlo? Si chiese. Aprì la
custodia e ne trasse il disco, lo piegò finchè non fu
sul punto di spezzarsi, lo piegò ancora ma, quando avvertì che stava per
succedere, ritrasse le mani, e lo fece caracollare sul pavimento. Non ce la
faceva, non ce l’ avrebbe mai fatta. Riprese il cd e, come spinta da una forza
maggiore, accese lo stereo e fece partire la storia.
Lui era il Gesù delle
Periferie, disadattato e bisognoso di stimoli, amante della vita, ma pronto a
gettarla via perché troppo dolorosa per lui. Lui era il simbolo di una
generazione, era l’ uomo che aveva tratto dai suoi ricordi quell’ opera
straordinaria, le cui note correvano per la stanza di Clarissa per trascinarla
via da tutto, dai pensieri, dai ricordi, da ciò che sarebbe stato. Lui era l’
uomo che aveva salvato tanta gente, che l’ aveva guidata, come se avesse
conosciuto ognuno dei suoi fan; lui era il timone della nuova nave punk. Lui
aveva avvicinato Clarissa alla musica, l’ aveva catapultata nella realtà, le
aveva fatto capire che nulla era rose e fiori, come le avevano insegnato. Lui
l’ aveva segnata, l’ aveva fatta credere, finalmente, in qualcuno, le aveva
fatto avere un punto fisso, una Stella Polare, finchè
quel legame non era diventato morboso, fino a trasformarsi in amore. Il primo.
Non c’ è nulla di
sbagliato in me. No, nulla era sbagliato in lei, nulla era fuori posto. Il nulla era fuori posto, perché era
tutto fuori posto. Clarissa si sentiva così, una nuvola nera nel cielo,
qualcosa di insulso, sbagliato. Era lei a essere sbagliata, non Billie. E
questo lo aveva capito fin dal momento in cui aveva iniziato a pronunciare le
parole di quell’ insulso e scorretto discorso, sulla collina, davanti alle
ceneri della sorella: Billie non era sbagliato, era lei, e basta. Perché aveva
fatto così? Perché si era lasciata sopraffare dalle emozioni, senza badare a
quel poco di ragione che ancora aleggiava nel suo cervello?
Ora si sentiva vuota,
senza senso, animalesca, mentre il Gesù delle Periferie lasciava la sua casa.
Ma lei non se andava.
…
Lucy Peterson
aveva da poco lasciato la collina irradiata dal sole dove erano state sparse le
ceneri di quella ragazza di cui ricordava solo il nome.
A lei non importava mica di quella stupida
ragazzina che si era schiantata giù da un burrone per colpa di un amore
impossibile: a lei serviva LUI. Le serviva uno scoop, ed eccolo trovato.
Armstrong sedeva in
macchina con una ragazza, una bella rossa, e le parlava fitto fitto, in atteggiamento alquanto ambiguo. Che le stesse
parlando normalmente era un fatto secondario: a Lucy serviva qualcosa, qualunque
cosa, pur di fornire materiale al giornale. Sarebbe stata licenziata,
altrimenti.
***La direttrice di “Vips in love” troneggiava al di là della sua scrivania,
torva e accigliata. Lucy, di fronte a lei, teneva il taccuino e la macchina
fotografica in grembo e, con la testa china sulle ginocchia, attendeva. Sarebbe
stata l’ ennesima sfuriata per mancanza di materiale, lo sapeva, ma stavolta Ginevra
Crowless era più temibile che mai: le braccia rigide,
le dita congiunte, le gambe accavallate e incollate nervosamente, i capelli
liscissimi e resi chiari da sapienti colpi di sole la rendevano ancora più
severa e intransigente di quanto non fosse già.
-allora, signorina Peterson, ancora mi viene a dire che non trova nulla per
costruirmi un buon servizio?- chiese la direttrice, accigliata a minacciosa,
sporgendosi leggermente verso Lucy.
-no, mi dispiace,
direttore. Nulla di nuovo.- rispose lei, sempre più impacciata.
-bene, vedo che con lei
non facciamo progressi. Allora vediamo di darle qualcosa di più facile, viste
le sue totali incapacità di
iniziativa e alla sua carente capacità di
intuizione e di pettegolezzo. Conoscerà sicuramente la storia di Billie Joe
Armstrong e dei mille scoop che fornisce ai giornali di tutto il mondo in
questo periodo.-
La direttrice alzò lo
sguardo al soffitto, trasognata. Quel nome le aveva fatto brillare gli occhi,
come un miraggio, come una droga. Era il profumo dello scoop?
-sì.- rispose docilmente Lucy, senza staccare gli occhi
dal consunto taccuino che portava sulle ginocchia.
-bene, visto che ne
combina una ogni tre ore, voglio che lei lo pedini e che mi trovi qualcosa da
pubblicare, un comportamento strano, un tentativo di abbordaggio, un caffè che
gli va di traverso, tutto, assolutamente tutto. Chiaro? Occhio, Peterson, se si lascia commuovere davanti ad azioni
imbarazzanti e non mi porta qui entro tre giorni del materiale fresco, può sgombrare il campo. Tanti
ragazzi più dotati di lei fanno la fila lì fuori per essere al suo posto.-
La direttrice abbandonò
la schiena all’ alto schienale della poltrona in pelle che occupava, in quell’
ufficio infernale, in quell’ enorme ghigliottina che era il suo mondo. Era come
se torturare i dipendenti fosse il suo hobby preferito, come se minacciare
licenziamenti in tronco fosse il suo pane quotidiano. Era una strega, un
aguzzino, ma solo grazie a lei e ai suoi sforzi la rivista andava avanti,
vendendo milioni e milioni di copie. Lucy ebbe appena il coraggio di alzare la
testa per guardarla in faccia, e scorgere la freddezza nelle sue espressioni:
come un muro di ghiaccio la separava da lei.
-cosa ci fa ancora qui? Vada.
Subito.-
Senza dire una parola,
Lucy si affrettò ad uscire da quell’ iceberg.***
…
Di nuovo a casa, e con
qualcosa tra le mani. Le foto rilucevano al bagliore del bel lume che Gerard teneva
acceso, in salotto. Anche i suoi occhi brillavano, alla luce del piacere della
vittoria. Finalmente avrebbe avuto i soldi per finanziare i suoi nuovi progetti,
e si sarebbe vendicato alla grande. Quelle foto scandalose erano state il
regalo più bello che avessero potuto fargli. Toccava solo usarle bene, e si
sarebbero rivelate una miniera d’ oro puro.
Osservò i soggetti: lui,
scandalosamente eccitato, che si faceva toccare da lei, divertita. E pervertita.
Ma che importanza aveva, lei? Il suo volto sarebbe stato abilmente nascosto. Quello
che importava era lui, lui che gli avrebbe aperto, indirettamente, la strada
per il successo, di nuovo.
…
-lasciami stare, Shannon, non ti ci mettere anche tu. È già abbastanza
difficile così.-
Jared si divincolò dal
fratello e corse verso il bagno ma Shannon, sempre
dotato di prontissimi riflessi, gli si parò davanti, cogliendolo alla
sprovvista.
-Jared, si può sapere che diavolo ti succede? Non parli
da quando siamo tornati da San Francisco! Ti sembra un comportamento normale da
assumere con me, con tuo fratello?-
Shannon sottolineò le ultime due parole, allargando le
braccia come per dimostrare al fratello di essere lui, davvero.
-Shannon, ti prego.. non è il momento adatto.-
-per te non è mai il
momento adatto. Ti prego, dimmi cos’ hai.-
-nulla. Sono solo
stanco.-
Spinse da parte il
fratello e si chiuse a chiave in bagno, con la speranza di non uscirne più.
Tutte le sue certezze
erano andate in fumo; tutto ciò che credeva sicuro, stabile, si era dissolto in
una nube di bugie, che gli ridevano alle spalle.
Quella che credeva essere
una ricattatrice si era rivelata la figlia illegittima di Billie, che si era
semplicemente vendicata del padre, usandolo. Quindi era stato davvero usato
come un oggetto. Un nervo della gota sinistra si contrasse, inorridito,
piegando le labbra di Jared in un sorriso sarcastico. Se anche lui era stato
trattato come un oggetto, avrebbe iniziato a comportarsi come Billie?
Già, Billie. L’ uomo che
amava, e che avrebbe sempre, irrimediabilmente, amato, si era rivelato la
persona più sporca e più debole insieme. Gli aveva fatto solo schifo quando
aveva saputo che aveva mollato una ragazza incinta solo per non rovinarsi la
faccia, ma non aveva resistito al crollo emotivo nel vederlo gemente, dopo aver
subito la seconda violenza.
Che fare, allora?
Lo so, questa volta ho fatto qualcosa di
davvero lungo, in confronto al capitolo precedente, ma personaggi nuovi
scalpitavano per entrare in scena e, come non accontentarli? (BJ: e perché non
accontentare me, che voglio uscire? IO: tu rimani qui, perché non ti sei mai
comportato bene e meriti una punizione, BASTARDO CAVALCATORE DI LAMA! BJ: sbaglio o anche la tua amica Drunky Bunny ti ha spedita a cavalcarne uno?? IO: bravo, e
ti inseguirò per le praterie finchè non ti sbranerò
vivo! Subito dopo la fine della ff, però! BJ: ç_ç)
Bene, ringrazio, al solito, tutti coloro
che leggono e tutti coloro che recensiscono, sperando di ricevere piacevoli
sorprese anche per questo capitolo!!
Un Bacio “El
Presidente”* BeGD
*cit. Billie in piena fase “io sono Dio”. Maledetto
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