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Autore: Sarras    07/11/2010    1 recensioni
Un tiranno muore, il suo impero si sfalda... Ma cosa succede dopo? Questa storia fantasy parte dalla fine di una tipica guerra contro il male e mostra quel che i vittoriosi eroi devono affrontare per mantenere la pace che credevano di aver conquistato. Tra intrighi, politica, delitti efferati e atmosfere talvolta inquietanti, la loro forza sarà messa a dura prova, poiché adesso saranno loro a raccogliere le sorti dell'impero.
Genere: Dark, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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SCENA 2: TRA FANATICI E BRIGANTI

Stej scendeva le scale della torre, la lunga marcia per uscire da Migdal, e la sua mente pigra di pensieri si turbò nel constatare quanto quel luogo gli ricordasse una prigione. Ne aveva viste molte nell’arco della sua vita e di solito riusciva a sfuggirvi prima che il cappio si stringesse sul suo collo. L’inquietante paragone non cessava di perseguitarlo, dal momento che Hizon camminava dietro a lui come una guardia carceraria.
L’unico elemento che stonava era la presenza di Eiko accanto al guerriero con le fruste. Da che Stej lo conosceva, il poeta non aveva mai smesso per un attimo di parlare, e se non era impegnato a fare il ruffiano dietro a qualche signore, allora occupava il suo tempo piagnucolando i suoi fastidi. Un eunuco agghindato, ecco cos’era. Sempre profumato come un’odalisca e nervoso come una vergine alla sua prima notte di nozze. Con una simile compagnia non c’era da meravigliarsi che a Stej prudessero le mani. Aveva bisogno di vita vera, soprattutto di allontanarsi dalla sensazione di prigionia che gli dava quella torre.
“Non capisco”, cantilenò ancora Eiko, offeso e querulo. “Perché non mi ha voluto con sé? Io sono il suo storico, il cantore delle sue gesta. Se riteneva di non abbisognare della mia diplomazia, almeno doveva permettermi di presenziare e prendere nota di una conversazione sì importante. Non si fida di me? Forse non mi apprezza abbastanza! È stato orribile, come un obbligo al silenzio. La verità non può essere taciuta! Bisogna rielaborarla subito, altrimenti qualcuno la racconterà nel modo sbagliato!... E loro parlano lassù, trattano di epici argomenti sicuramente, ed io qui sotto in sconcerto, estromesso, esiliato dall’ambito che più mi è consono. Un pesce tolto dal suo florido fiume, che boccheggia nel silenzio dove il mio canto nessuno può udire”.
Sì, sarebbe stato davvero bello non udirlo più. Ancora meglio sarebbe stato il guardarlo soffocare, incapace di emettere un fiato mentre il viso diventava livido e gli occhi vitrei, proprio come un pesce agonizzante. A Stej tornò il buonumore per un breve istante, finché cioè il poeta non riprese a parlare, per ripetere soltanto che non capiva, che non era giusto.
“Il nostro dovere è l’obbedienza, mastro Eiko. Noi due non siamo altro che strumenti del nostro nuovo sovrano e pertanto la nostra volontà è nulla in confronto alla sua. Voi non dovete capire altro, né sminuire la sua saggezza”, affermò Hizon e Stej proruppe in una risata violenta, ridicolizzando le idee di quel verme.
Il bandito li derise perché li disprezzava e come sempre non lo nascondeva. Si poteva mettere di tutto in un’espressione, in un gesto, in un suono, ma la risata di Stej era semplice, era solo ciò che lo ispirava in quel momento. Non riusciva a fare più di ciò di cui sentiva lo stimolo. Gli avevano detto che era un difetto e neppure di questo si preoccupava.
Nessuno dei due alle sue spalle avrebbe risposto allo scherno, al battere sulla pietra al ritmo del divertimento. Eiko era troppo altezzoso per abbassarsi alla sua volgarità ed Hizon troppo disciplinato, o così credeva il bandito. Eppure una frusta schioccò ad una spanna da Stej, risuonando nella discesa spiraleggiante.
“Ci è stato affidato un compito straordinario”, continuò il serico con serenità da fanatico. “Portare un messaggio agli Atri figli di cagna. Rivelare loro a chi ora devono obbedire, proclamare a gran voce che sono un popolo corrotto da epurare. Che sta per essere rieducato secondo la giustizia degli uomini. E che forse anche loro un giorno potranno dirsi umani”.
Arrotolava la frusta mentre parlava e scendeva, ed essa gli strisciava come un serpente tra le dita, fino a raggiungere il gradino dove Stej si era fermato minaccioso e paonazzo. Hizon lo guardava negli occhi, gelo bruciante contro fuoco ustionante, e così aggiunse:
“Voi parlerete Eiko. Ed io farò sì che gli animali vi ascoltino e applaudano”.
Il bandito alzò il pugno. Il fremere delle sue narici già indicava cosa stava per accadere, ma Hizon fu più veloce. Storse il braccio all’energumeno e lo fece piroettare su se stesso, cosicché cadesse lungo le scale. Stej si rialzò intontito, dopo aver sbattuto contro una nicchia vuota e con un calcio il suo avversario lo ricacciò di nuovo dentro di essa.
“Sono stanco di barbari e di esseri impuri”, disse Hizon al suo grugno sanguinante. “Dayan ti avrà anche concesso la sua benevolenza, ma io non tollero che si rida di me o che mi si insozzi con sguardi indegni di sfida”.
Fu proprio ciò che Stej fece, mentre si dimenava per liberarsi dal piede che spingeva sul suo sterno tenendolo prigioniero nell’alcova.
“Basta, per carità! Non ne abbiamo abbastanza di violenza tutti quanti?”, li fermò Eiko prima che il conflitto proseguisse, voltando subito la testa dall’altra parte, per il timore e il disgusto. “Cosa direbbe Dayan se vi vedesse? O peggio, se comparisse Yamana… Hizon, noi due abbiamo un incarico da portare a termine. E Stej… prendi questa mina d’argento e bevi alla tua salute. Sempre che trovi una taverna decente in questo luogo incivile”.
Così l’oratore appianò le divergenze, richiamando l’uno all’ordine e l’altro al divertimento, sempre con lo sguardo distolto, come di fronte ad una scena imbarazzante. Nessuno dei due rifiutò il valore delle sue parole. Stej dal canto suo appena fu liberato e riprese l’equilibrio strappò la moneta dalla mano del poeta.
“Ancora per tre volte, miserabile”, lo avvertì Hizon, che pareva il più insoddisfatto nella contesa. Era deluso dalla facilità con cui il bandito si riprendeva e non voleva crederlo invincibile come raccontavano le storie. “Ti condonerò per altre tre volte soltanto la tua condotta. Poi ti insegnerò qual è il tuo posto”.
Stej lo guardò grattandosi l’orecchio. E sputando ai suoi piedi ridusse di già il numero. Il guerriero serico gli sorrise freddamente, sapendo che il bandito avrebbe bruciato subito tutte le possibilità concesse, senonchè Eiko li fermò di nuovo, esortandoli a comportarsi più assennatamente. Dopodiché se ne lavò le mani superandoli tra lamenti e borbottii.
Stej fece saltare la mina d’argento nella sua mano. Non gli importava di altro, nemmeno degli ammonimenti di Hizon al suo compare riguardo alla fragilità manifestata. Secondo il guerriero errante, il poeta si era dimostrato debole: aveva pagato un tributo per la propria quiete, ed ora Stej ne avrebbe approfittato ogni giorno un po’ di più.
Non aveva affatto torto in effetti, si disse il bandito seguendo coloro che prima camminavano dietro di lui.
Arrivarono così all’uscita di Migdal, oltre il grande portale divelto. La città era persa in una cappa di afa causata dal temporale. Le case di calcare bianco si dispiegavano per un miglio da ogni lato della torre e terminavano accanto alla cinta di mura devastata dall’assedio. I tre eroi camminarono in silenzio nel paesaggio desolato, dominato dal calore intollerabile e da un’attività inquietante e a malapena percettibile, svolta senza produrre altro rumore al di fuori degli inevitabili suoni del lavoro manuale.
Forse gli abitanti avevano paura di loro, pensò Stej, ma non credeva molto a questa possibilità. In guerra gli Atri si erano comportati da sadici, erano stati crudeli e implacabili, ma codardi proprio mai.
Eiko infine arrestò il suo passo da pavone in una piazza dall’elaborata architettura, con decorazioni geometriche incastonate nell’onnipresente bianco sporco. Una tale bellezza conviveva con un odore persistente di spazzatura e lerciume. Il posto però era perfetto, a parere dell’oratore, e dunque egli prese posto nel centro del complesso frattale che adornava il lastricato. Egli badò di orientarsi con le spalle rivolte a Migdal, così che il suo pubblico potesse cogliere con un colpo d’occhio la sua figura e il centro di potere da cui essa proveniva. Hizon si posizionò davanti a lui, ma il tossicchiare d’avvertimento del poeta lo indusse a mettersi più indietro di un passo rispetto al suo fianco destro. Stej invece appoggiò la schiena su una delle case perimetrali e alzò gli occhi ad un cielo coperto di nubi, carico di una luminosità fastidiosa, abbagliante ma malata.
L’atmosfera era immota, quanto l’afa che li circondava. Provenivano sommessi rumori dagli interni, insieme al costante ronzio delle mosche. A momenti le urla e le risate dei soldati, fermi nei quartieri periferici, risuonavano persino più forti dei fruscii vicini, dei cocci mossi, della paglia schiacciata.
“Udite, udite!”, gridò Eiko con la sua voce migliore, quella che teneva nascosta chissà dove per le grandi occasioni. “Udite voi tutti, popolo Atro, schiavo del Nemico. Il tiranno è morto, l’Imperatore che vi ha portato sangue e sofferenza. Voi ora siete liberi dal suo comando, non avete più nulla da temere dalla sua follia. Avete anzi una scelta straordinaria davanti a voi. Potete decidere di servire il nuovo sovrano, un uomo che ha a cuore il vostro futuro. Un uomo che vi monderà dai peccati che avete commesso in anni di stragi e di ritorsioni sulle altre genti…”.
Sì, e un uomo che per quanto insopportabile e più rigido di una lancia aveva chiesto loro di rassicurare gli abitanti, di approntare una lista di necessità e fare il calcolo di scorte e approvvigionamenti. Ora, al di là dell’assurdità dell’incarico, quello che lo strixo stava urlando a squarciagola, ricamando sulle parole di Dayan, era a dir poco criminale. E Stej di crimini se ne intendeva, ma di crimini ‘onesti’: saccheggi, rapine ed estorsioni, sterminio e razzia. La politica no. La politica mai. Al bandito bastava prendere il maltolto e scappare. Al contrario, stuprare le menti per farsi dare ciò che si poteva rubare con la giusta fatica… ah, era roba sporca. Sporchissima.
“Re Dayan adesso regna su Migdal”, continuava intanto a berciare Eiko. “È il vostro re, un signore magnanimo! La virtù incarnata. Re Dayan: il primo di una dinastia che, con il favore degli dei gemelli, porterà pace e prosperità. Acclamatelo, allora! Innalzate il suo nome al cielo! Accettate il nuovo inizio che vi propone, la rinascita dal baratro dell’oscurità, su verso il chiaro mondo della giustizia e… e…”.
L’oratore si interruppe. Aveva capito anche lui che qualcosa non andava. La popolazione sopravvissuta nella capitale, i civili che non avevano preso le armi contro gli invasori, non si era radunata nella piazza per udire le parole di Eiko. Non c’era anima viva a parte loro. E anche dopo che il discorso riprese, non vi fu nessuno che comparve, nemmeno per protestare o lanciare sassi, cosa che il poeta era stato propenso a temere fino ad un attimo prima.
Si aspettavano un popolo agguerrito, represso da una sconfitta inaccettabile. Diavolo, Stej sperava proprio che li linciassero sul posto, quei due dannati! Aveva accettato di scortare Eiko solo per assistere ad un po’ di sana violenza e, dove possibile, distribuirla da par suo a chi capitava. Invece…
“Ahm, Hizon? Secondo voi cosa accade?”, domandò Eiko confuso.
“Hanno paura…”, commentò il guerriero errante. Dopodiché alzò a sua volta la voce, senza però alterare il suo tono piatto e controllato.
“Avete paura, vero, vermi? Terrore della frusta che si abbatterà sulla vostra genia maledetta…”.
Sì forse era così, concesse Stej all’uomo che quieto e impassibile riusciva a dichiarare un odio iperattivo e sordido.
“E fate bene ad averne. Troppo sangue avete versato, troppo dolore per essere perdonati. Pagherete il prezzo della sofferenza, lo inciderò sulla vostra pelle. Uscite dunque e comportatevi da uomini. Oppure verrò a prendervi io e vi trascinerò uno per uno qui come gli animali che siete…”.
Il bandito sbuffò. Sicuro come la morte, non sarebbe uscito nessuno con una premessa del genere. Con i suoi paroloni, Eiko spiegò al compare lo stesso concetto, ma Hizon non lo ascoltò. Riteneva una beffa personale quell’atteggiamento, un insulto il modo in cui lo ignoravano. Con passi tranquilli perciò, entrò dentro una delle case, nell’ombra piena di pulviscolo e fetore, la stessa casa su cui si appoggiava Stej. Il bandito lo osservò indifferente, raccogliendo da terra un filo di paglia e masticandolo spensierato.
Rumori di lotta scoppiarono all’interno. Una testa cozzò contro la parete e poi volò con tutto il resto del corpo nella polvere della piazza. Era solo un vecchio Atro sdentato. Seguirono altri due anziani barbuti, calciati fuori dalla figura eretta e posata di Hizon.
I tre si rialzarono e rimasero lì fermi. Eiko chiaramente non gradiva i metodi brutali del compagno, ma aveva troppa paura di lui per lamentarsi apertamente e pertanto si dedicò al piccolo uditorio.
“Capite la mia lingua?”, chiese gentilmente, ma con l’odiosa condiscendenza che la gente come lui riservava ai ritardati. Infatti subito dopo storse il naso disgustato dalle loro condizioni.
Nessuno degli anziani rispose, nessuno alzò nemmeno gli occhi da terra. Allora il poeta tentò con la parlata locale. Non ricevette maggiori risultati, anzi, la cinghiata di Hizon tanto vicina al suo volto chinato lo fece sobbalzare.
“Vi è stata rivolta una domanda, cani. Rispondete…”, li esortò altrettanto suadente il guerriero serico, facendo corrispondere una frustata ad ogni silenzio.
“Pietà!”, urlò il poeta al posto loro. “Dayan non vorrebbe che agissimo in questo modo. Noi siamo gli eroi, Hizon. Non dimenticatelo”.
Stej aveva digrignato i denti dal canto suo, emettendo un suono minaccioso. Karg, la violenza gli piaceva e anche molto, ma quello era un esercizio di crudeltà gratuita su poveracci che nemmeno si difendevano. Con espressione serena, il sadico alzò un sopracciglio rivolto all’oratore, come se non comprendesse la causa della sua repulsione.
“Loro sono i nostri nemici, Mastro Eiko. Non dimenticatelo”, ripeté il guerriero errante, e aveva la voce rotta da un entusiasmo malcelato che torse le budella del bandito.
“Ma quali nemici e nemici! Questi sono villici incolti. Io mi ricordo bene gli Atri razziatori, le squadre di legionari con le loro battute salaci e l’esagerata vivacità. Se fossero stati costoro i nostri nemici, li avremmo vinti cinquant’anni fa. Guardate i loro occhi, per gli dei!”.
Hizon alzò gli occhi di un vecchio e li trovò spenti, vuoti. Lì dietro non c’erano pensieri. Senza voltarsi, il serico chiamò Stej.
“Allontana le mani da quell’ascia e vieni qui”.
Il bandito tenne stretto il manico dell’ascia e avanzò verso i tre che dopo le domande del fanatico strisciavano scomposti sulla pietra, con ampie ferite sulla pelle. Non avevano urlato, non piangevano la loro disgrazia, tremavano soltanto e talvolta si udiva da loro… nemmeno un gemito, bensì l’ombra di un mugolio. Non era normale… Erano però occhi che aveva già visto, anche se non ricordava dove.
“Bravo, hai preso tre vecchi caproni senza cervello”, giudicò impunemente. “Ne è pieno il mondo. Ma tu alla loro età non ci arriverai mica, schifoso figlio di platta”.
Hizon sorrise e alzò due dita, per indicargli la seconda possibilità sprecata.
“Al diavolo! Che vi aspettavate? Che uscissero tutti a saltare di gioia? Quando si vince una battaglia, ci si prende quello che si vuole e poi si riparte”.
Nemmeno lui era così stupido da credere il contrario. Quando razziava un villaggio, la gente scappava o moriva. Dopo bisognava aspettare che si riprendessero dal colpo e nella maggior parte dei casi non accadeva. Le persone morivano di fame e smettevano di lavorare. Era già tanto che fosse rimasto qualcuno.
Dei passi attirarono i loro sguardi verso una via. Un uomo camminava solitario, con una fascina di stoppa tra le mani. Eiko ed Hizon lo raggiunsero di corsa e Stej li seguì dappresso, tanto per vedere cosa intendessero fare.
Il lavoratore non si fermò all’ordine del guerriero errante, almeno finché questi non gli sbarrò la strada. Nemmeno costui sembrava particolarmente sveglio, e ignorava assolutamente Eiko pur fissandolo, come se non riuscisse a focalizzarlo bene. C’era in effetti qualcosa di familiare nei suoi occhi, era come se Stej avesse già visto prima anche questi. Non riusciva ad inquadrarli su volti noti, forse quindi era il genere di sguardo che riconosceva. Ad ogni modo non gli piaceva.
L’oratore non meno innervosito smise di tentare lingue strane o misconosciute, cercando di arrivare ad una soluzione logica, prima che Hizon decidesse di torturare anche quell’uomo.
“È una congiura. Si fingono pazzi per evitare di obbedire”, stabilì infatti Hizon ed Eiko si coprì gli occhi con una mano, quasi disperato.
“E cosa intendete fare, allora? Metterete i loro figli davanti agli aratri nella speranza di insperati barlumi di sanità?”.
Il poeta esitò dinnanzi ad un ingresso e poi si inoltrò in un’altra abitazione. Sembrava, anzi era chiaro, avesse visto giorni migliori. Gli attuali abitanti avevano lasciato nell’incuria l’arte salica delle loro case, senza capirla. Avevano ricoperto di paglia i sontuosi pavimenti e negli angoli si erano svuotati il ventre. Non c’era mobilia e le vettovaglie erano ridotte a ceramica grezza.
Tutto qui… Tutto ciò che il popolo Atro, dominatore incontrastato per mezzo secolo, possedeva era il nulla. Una donna era lì per dimostraglielo. Seduta sullo sporco, un bambino tra fasci e cenci lì accanto, resti di un cibo che non era stato cucinato, bensì catturato.
Anche ad Eiko non mancava l’avidità di chiedersi dove fosse tutto l’oro e l’argento ottenuti dall’Impero nel corso di anni. Mentre ci pensava, scrutò la donna seduta, intenta a fumare nell’ombra, e la salutò con un sorriso tanto falso quanto sciocco. Ella non rispose, non reagì minimamente alla sua presenza. Era stordita forse, o persa in chissà quale sogno. Oppure era in lutto per i famigliari uccisi, addolorata al punto da aver smesso di vivere?
Il poeta uscì consapevole di non conoscere abbastanza i suoi nemici. Era però prematuro insistere con i discorsi se la gente era ridotta a scarni manichini. Pure qualcuno in città lavorava, riparava con mezzi di fortuna le case distrutte dalle catapulte. Scuotendo la testa pensieroso, ancora accecato dal passaggio tra la tetra oscurità dell’interno chiuso e il chiarore esterno, Eiko si rivolse a Stej.
“Fai un giro in città, per piacere. Portami qualcuno che sia più sveglio di altri. Qui ci vuole un mediatore, un interprete del non visibile…”.
Ma alzati gli occhi in quella strana luminosità non trovò più il bandito nei dintorni. Se n’era andato e così Hizon. C’erano solo due bambini che muti e silenziosi passavano, come fantasmi, diretti con precisione aliena ad una loro personale direzione.
Stej invece era già quasi alla periferia della città, correndo con un’idea in mente. Alcuni soldati abbattuti dal caldo lo osservavano pigramente, sudando alla semplice vista dei suoi movimenti entusiastici in quell’afosa mattina.
“Non c’è niente lì dentro…”, lo avvertirono gli armati in ozio, appena lo videro varcare la soglia e lo chiamarono ‘signore’ riconoscendolo per uno degli eroi al seguito di Dayan.
Sì, chiaramente qualcuno aveva già cercato. I più furbi si erano dati al saccheggio in mezzo al conflitto e avevano portato via qualunque cosa avessero trovato di prezioso. Maledetti razziatori del karg! Li odiava perché erano arrivati prima di lui.
Stej uscì insultandoli e passò oltre, si gettò anima e corpo in uno sciacallaggio dell’ultimo minuto. Aveva scoperto infatti che nessuno degli abitanti lo avrebbe fermato, nessuno si sarebbe nemmeno lamentato. Questo significava per gli sciocchi che gli Atri non avessero niente da rubare, ma non per lui. I contadini al suo arrivo piangevano e imploravano, aggredivano e lottavano soprattutto se non avevano guadagni. La disperazione toglieva loro non solo la dignità ma anche il timore di osare troppo. Stej era ormai convinto che gli Atri avessero un rifugio sicuro per le loro ricchezze e godeva di quell’intuizione segreta.
Dovevano aver nascosto gli averi nel punto più povero e improbabile della città, era ovvio! E lui che aveva cercato per tre giorni dentro Migdal. Che stupido del karg! Ma adesso qualcosa avrebbe trovato, qualunque cosa, a costo di rovesciare tutto! Gli era intollerabile la possibilità di abbandonare il luogo a mani vuote.
Così si tuffò letteralmente dentro una soglia e perlustrò ogni crepa o anfratto della baracca. L’Atro seduto fuori non si interessò alla confusione dentro la sua proprietà. Costruiva una cesta di vimini e non pensava ad altro. Il bandito di ritorno all’esterno lo alzò in piedi e lo perquisì, poi lo spinse di nuovo al suo posto. Per tutto il tempo, l’uomo rimase concentrato sul suo lavoro e il suo corpulento rapinatore lo incontrò ancora altre tre o quattro volte, facendo il giro del quartiere prima di passare ad altri.
Stej evitò d’istinto e non senza una buona ragione il grande palazzo della biblioteca, dove permaneva ancora il fumo acre del grande incendio, una cappa asfissiante e dolorosa per gli occhi. Non si era trattato di un caso. Era stata Aria a dare l’ordine esplicito. La regina della Magia aveva fatto accendere i fuochi dai soldati e aveva bruciato decadi di conoscenza, cancellando la memoria dell’Impero, comprese copie uniche di opere antichissime che nessuno avrebbe mai ricordato. Il re dei Cavalli e quello della Seta avevano applaudito alla sua lungimiranza, laddove Orph si era roso il fegato gridando ai quattro venti che Aria era la regina non già della Magia ma delle professioniste che lavoravano al porto. Stej aveva applaudito allora alla sincerità dell’eremita e dato una ripassata ad alcuni guerrieri magi che ne chiedevano conto. Perciò non era il caso di farsi vedere troppo nei dintorni.
L’uomo si diresse piuttosto verso i confini liberi dai soldati, esplorando interni fatiscenti di artistiche facciate ben oltre l’ora di pranzo.
Niente. E meno trovava, e più la sua furia e impazienza crescevano. Gli Atri incontrati erano tutti uguali, tutti spenti, tutti vuoti. Nessuno lo indirizzava con uno sguardo spaurito o un occhiata nervosa verso le proprie ricchezze. L’ultima casa divenne allora quella che l’avrebbe pagata per tutte.
Irruppe nella pesante penombra. Due uomini e due donne erano seduti e mangiavano nella quiete più assurda. Stej rovistò tra tela di sacco, paglia e cocci. Gettò a terra una brocca d’acqua, tastò i muri e lisciò il pavimento al punto quasi da scavare nella pietra.
Adirato con il mondo inveì contro gli dei e contro gli Atri, fino a che la fame non lo pungolò a volgersi verso i quattro commensali. Nessuno di loro lo guardava, non avevano espressioni spaventate, nemmeno davano l’impressione di godersi il cibo. Anzi, i gesti sembravano meccanici, portavano le mani alla bocca come se… Come se qualcuno avesse detto loro di nutrirsi.
Stej ne aveva abbastanza. Si avvicinò agli Atri e si ingozzò liberamente del loro cibo. Bevve a garganella la loro acqua e frantumò le loro ciotole.
“E adesso?”, li istigò.
Si mosse irruento verso il capofamiglia. Gli ruttò in faccia.
“Avanti, vecchio!”, lo intimidì. “Urlami contro! Mandami all’Inferno!”.
L’uomo lo guardò come gli altri, senza vederlo veramente, come se non fosse importante. Ma Stej era importante, lo era eccome! Prese il loro giovane figlio. Lo alzò per le vesti, lo scrollò rudemente.
“Cacciami via! Attaccami, pulce!”, ringhiò. “Non me ne vado finché non mi darai soddisfazione! Dov’è il tuo oro, uomo? Dove?”, urlò nelle sue orecchie e quello semplicemente strabuzzò gli occhi e rimase immobile nella sua presa.
Stej preparò un manrovescio soffiando e sbuffando. Ma non ne aveva voglia, non con quel caldo e contro uno sbarbatello. Emise un verso di fastidio e lo spinse a sedere. Ronzò intorno alla vecchia. Le tolse una collana di alcun pregio né valore, giudicata con tutta l’esperienza di chi reputava la ricchezza un sinonimo di brillantezza.
Mentre fuori una banda di soldati passava, allegri e disorientati per il vino, Stej lasciò andare il braccio della donna che ricadde mollemente al fianco. Era inutile. Meglio inseguire quei porci e divertirsi a depredare loro. In effetti ne provò l’impulso e si rialzò, deciso quantomeno a far rissa. Poi però si accorse della ragazza. Anche lei aveva una pietra al collo, rossa e opaca, e non era la sola cosa bella.
Stej seguì altri istinti nell’alzarla e controllare i denti al sole. Guardò i suoi famigliari e sorrise maligno prima di abbracciarla, di strapparle la scollatura del vestito, di infilare la mano nei capelli e strattonarle indietro la nuca.
Pochi attimi dopo interruppe la sua smania. Alzò gli occhi dall’addome alla testa della fanciulla, e vide il suo sguardo. Poi girò il volto e osservò lo stesso identico sguardo nei tre ancora seduti intorno al pranzo.
D’improvviso Stej scappò via, inciampò sull’uscio e gattonò sotto il sole. Mancò poco che non desse di stomaco lì sul posto, scosso com’era dai brividi.
Perché ora ricordava dove avesse già visto occhi simili.
Erano gli occhi fermi e fissi dei morti…

  
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