SCENA
2: TRA FANATICI E BRIGANTI
Stej
scendeva le scale della torre, la lunga marcia per uscire da
Migdal, e la sua mente pigra di pensieri si turbò nel constatare quanto
quel luogo gli ricordasse una prigione. Ne aveva viste molte nell’arco
della sua vita e di solito riusciva a sfuggirvi prima che il cappio si
stringesse sul suo collo. L’inquietante paragone non cessava di
perseguitarlo, dal momento che Hizon camminava dietro a lui come una
guardia carceraria.
L’unico elemento che stonava era la presenza di Eiko accanto al
guerriero con le fruste. Da che Stej lo conosceva, il poeta non aveva
mai smesso per un attimo di parlare, e se non era impegnato a fare il
ruffiano dietro a qualche signore, allora occupava il suo tempo
piagnucolando i suoi fastidi. Un eunuco agghindato, ecco cos’era.
Sempre profumato come un’odalisca e nervoso come una vergine alla sua
prima notte di nozze. Con una simile compagnia non c’era da
meravigliarsi che a Stej prudessero le mani. Aveva bisogno di vita
vera, soprattutto di allontanarsi dalla sensazione di prigionia che gli
dava quella torre.
“Non capisco”, cantilenò ancora Eiko, offeso e querulo. “Perché non mi
ha voluto con sé? Io sono il suo storico, il cantore delle sue gesta.
Se riteneva di non abbisognare della mia diplomazia, almeno doveva
permettermi di presenziare e prendere nota di una conversazione sì
importante. Non si fida di me? Forse non mi apprezza abbastanza! È
stato orribile, come un obbligo al silenzio. La verità non può essere
taciuta! Bisogna rielaborarla subito, altrimenti qualcuno la racconterà
nel modo sbagliato!... E loro parlano lassù, trattano di epici
argomenti sicuramente, ed io qui sotto in sconcerto, estromesso,
esiliato dall’ambito che più mi è consono. Un pesce tolto dal suo
florido fiume, che boccheggia nel silenzio dove il mio canto nessuno
può udire”.
Sì, sarebbe stato davvero bello non udirlo più. Ancora meglio sarebbe
stato il guardarlo soffocare, incapace di emettere un fiato mentre il
viso diventava livido e gli occhi vitrei, proprio come un pesce
agonizzante. A Stej tornò il buonumore per un breve istante, finché
cioè il poeta non riprese a parlare, per ripetere soltanto che non
capiva, che non era giusto.
“Il nostro dovere è l’obbedienza, mastro Eiko. Noi due non siamo altro
che strumenti del nostro nuovo sovrano e pertanto la nostra volontà è
nulla in confronto alla sua. Voi non dovete capire altro, né sminuire
la sua saggezza”, affermò Hizon e Stej proruppe in una risata violenta,
ridicolizzando le idee di quel verme.
Il bandito li derise perché li disprezzava e come sempre non lo
nascondeva. Si poteva mettere di tutto in un’espressione, in un gesto,
in un suono, ma la risata di Stej era semplice, era solo ciò che lo
ispirava in quel momento. Non riusciva a fare più di ciò di cui sentiva
lo stimolo. Gli avevano detto che era un difetto e neppure di questo si
preoccupava.
Nessuno dei due alle sue spalle avrebbe risposto allo scherno, al
battere sulla pietra al ritmo del divertimento. Eiko era troppo
altezzoso per abbassarsi alla sua volgarità ed Hizon troppo
disciplinato, o così credeva il bandito. Eppure una frusta schioccò ad
una spanna da Stej, risuonando nella discesa spiraleggiante.
“Ci è stato affidato un compito straordinario”, continuò il serico con
serenità da fanatico. “Portare un messaggio agli Atri figli di cagna.
Rivelare loro a chi ora devono obbedire, proclamare a gran voce che
sono un popolo corrotto da epurare. Che sta per essere rieducato
secondo la giustizia degli uomini. E che forse anche loro un giorno
potranno dirsi umani”.
Arrotolava la frusta mentre parlava e scendeva, ed essa gli strisciava
come un serpente tra le dita, fino a raggiungere il gradino dove Stej
si era fermato minaccioso e paonazzo. Hizon lo guardava negli occhi,
gelo bruciante contro fuoco ustionante, e così aggiunse:
“Voi parlerete Eiko. Ed io farò sì che gli animali vi ascoltino e
applaudano”.
Il bandito alzò il pugno. Il fremere delle sue narici già indicava cosa
stava per accadere, ma Hizon fu più veloce. Storse il braccio
all’energumeno e lo fece piroettare su se stesso, cosicché cadesse
lungo le scale. Stej si rialzò intontito, dopo aver sbattuto contro una
nicchia vuota e con un calcio il suo avversario lo ricacciò di nuovo
dentro di essa.
“Sono stanco di barbari e di esseri impuri”, disse Hizon al suo grugno
sanguinante. “Dayan ti avrà anche concesso la sua benevolenza, ma io
non tollero che si rida di me o che mi si insozzi con sguardi indegni
di sfida”.
Fu proprio ciò che Stej fece, mentre si dimenava per liberarsi dal
piede che spingeva sul suo sterno tenendolo prigioniero nell’alcova.
“Basta, per carità! Non ne abbiamo abbastanza di violenza tutti
quanti?”, li fermò Eiko prima che il conflitto proseguisse, voltando
subito la testa dall’altra parte, per il timore e il disgusto. “Cosa
direbbe Dayan se vi vedesse? O peggio, se comparisse Yamana… Hizon, noi
due abbiamo un incarico da portare a termine. E Stej… prendi questa
mina d’argento e bevi alla tua salute. Sempre che trovi una taverna
decente in questo luogo incivile”.
Così l’oratore appianò le divergenze, richiamando l’uno all’ordine e
l’altro al divertimento, sempre con lo sguardo distolto, come di fronte
ad una scena imbarazzante. Nessuno dei due rifiutò il valore delle sue
parole. Stej dal canto suo appena fu liberato e riprese l’equilibrio
strappò la moneta dalla mano del poeta.
“Ancora per tre volte, miserabile”, lo avvertì Hizon, che pareva il più
insoddisfatto nella contesa. Era deluso dalla facilità con cui il
bandito si riprendeva e non voleva crederlo invincibile come
raccontavano le storie. “Ti condonerò per altre tre volte soltanto la
tua condotta. Poi ti insegnerò qual è il tuo posto”.
Stej lo guardò grattandosi l’orecchio. E sputando ai suoi piedi ridusse
di già il numero. Il guerriero serico gli sorrise freddamente, sapendo
che il bandito avrebbe bruciato subito tutte le possibilità concesse,
senonchè Eiko li fermò di nuovo, esortandoli a comportarsi più
assennatamente. Dopodiché se ne lavò le mani superandoli tra lamenti e
borbottii.
Stej fece saltare la mina d’argento nella sua mano. Non gli importava
di altro, nemmeno degli ammonimenti di Hizon al suo compare riguardo
alla fragilità manifestata. Secondo il guerriero errante, il poeta si
era dimostrato debole: aveva pagato un tributo per la propria quiete,
ed ora Stej ne avrebbe approfittato ogni giorno un po’ di più.
Non aveva affatto torto in effetti, si disse il bandito seguendo coloro
che prima camminavano dietro di lui.
Arrivarono così all’uscita di Migdal, oltre il grande portale divelto.
La città era persa in una cappa di afa causata dal temporale. Le case
di calcare bianco si dispiegavano per un miglio da ogni lato della
torre e terminavano accanto alla cinta di mura devastata dall’assedio.
I tre eroi camminarono in silenzio nel paesaggio desolato, dominato dal
calore intollerabile e da un’attività inquietante e a malapena
percettibile, svolta senza produrre altro rumore al di fuori degli
inevitabili suoni del lavoro manuale.
Forse gli abitanti avevano paura di loro, pensò Stej, ma non credeva
molto a questa possibilità. In guerra gli Atri si erano comportati da
sadici, erano stati crudeli e implacabili, ma codardi proprio mai.
Eiko infine arrestò il suo passo da pavone in una piazza dall’elaborata
architettura, con decorazioni geometriche incastonate nell’onnipresente
bianco sporco. Una tale bellezza conviveva con un odore persistente di
spazzatura e lerciume. Il posto però era perfetto, a parere
dell’oratore, e dunque egli prese posto nel centro del complesso
frattale che adornava il lastricato. Egli badò di orientarsi con le
spalle rivolte a Migdal, così che il suo pubblico potesse cogliere con
un colpo d’occhio la sua figura e il centro di potere da cui essa
proveniva. Hizon si posizionò davanti a lui, ma il tossicchiare
d’avvertimento del poeta lo indusse a mettersi più indietro di un passo
rispetto al suo fianco destro. Stej invece appoggiò la schiena su una
delle case perimetrali e alzò gli occhi ad un cielo coperto di nubi,
carico di una luminosità fastidiosa, abbagliante ma malata.
L’atmosfera era immota, quanto l’afa che li circondava. Provenivano
sommessi rumori dagli interni, insieme al costante ronzio delle mosche.
A momenti le urla e le risate dei soldati, fermi nei quartieri
periferici, risuonavano persino più forti dei fruscii vicini, dei cocci
mossi, della paglia schiacciata.
“Udite, udite!”, gridò Eiko con la sua voce migliore, quella che teneva
nascosta chissà dove per le grandi occasioni. “Udite voi tutti, popolo
Atro, schiavo del Nemico. Il tiranno è morto, l’Imperatore che vi ha
portato sangue e sofferenza. Voi ora siete liberi dal suo comando, non
avete più nulla da temere dalla sua follia. Avete anzi una scelta
straordinaria davanti a voi. Potete decidere di servire il nuovo
sovrano, un uomo che ha a cuore il vostro futuro. Un uomo che vi
monderà dai peccati che avete commesso in anni di stragi e di
ritorsioni sulle altre genti…”.
Sì, e un uomo che per quanto insopportabile e più rigido di una lancia
aveva chiesto loro di rassicurare gli abitanti, di approntare una lista
di necessità e fare il calcolo di scorte e approvvigionamenti. Ora, al
di là dell’assurdità dell’incarico, quello che lo strixo stava
urlando
a squarciagola, ricamando sulle parole di Dayan, era a dir poco
criminale. E Stej di crimini se ne intendeva, ma di crimini ‘onesti’:
saccheggi, rapine ed estorsioni, sterminio e razzia. La politica no. La
politica mai. Al bandito bastava prendere il maltolto e scappare. Al
contrario, stuprare le menti per farsi dare ciò che si poteva rubare
con la giusta fatica… ah, era roba sporca. Sporchissima.
“Re Dayan adesso regna su Migdal”, continuava intanto a berciare Eiko.
“È il vostro re, un signore magnanimo! La virtù incarnata. Re Dayan: il
primo di una dinastia che, con il favore degli dei gemelli, porterà
pace e prosperità. Acclamatelo, allora! Innalzate il suo nome al cielo!
Accettate il nuovo inizio che vi propone, la rinascita dal baratro
dell’oscurità, su verso il chiaro mondo della giustizia e… e…”.
L’oratore si interruppe. Aveva capito anche lui che qualcosa non
andava. La popolazione sopravvissuta nella capitale, i civili che non
avevano preso le armi contro gli invasori, non si era radunata nella
piazza per udire le parole di Eiko. Non c’era anima viva a parte loro.
E anche dopo che il discorso riprese, non vi fu nessuno che comparve,
nemmeno per protestare o lanciare sassi, cosa che il poeta era stato
propenso a temere fino ad un attimo prima.
Si aspettavano un popolo agguerrito, represso da una sconfitta
inaccettabile. Diavolo, Stej sperava proprio che li linciassero sul
posto, quei due dannati! Aveva accettato di scortare Eiko solo per
assistere ad un po’ di sana violenza e, dove possibile, distribuirla da
par suo a chi capitava. Invece…
“Ahm, Hizon? Secondo voi cosa accade?”, domandò Eiko confuso.
“Hanno paura…”, commentò il guerriero errante. Dopodiché alzò a sua
volta la voce, senza però alterare il suo tono piatto e controllato.
“Avete paura, vero, vermi? Terrore della frusta che si abbatterà sulla
vostra genia maledetta…”.
Sì forse era così, concesse Stej all’uomo che quieto e impassibile
riusciva a dichiarare un odio iperattivo e sordido.
“E fate bene ad averne. Troppo sangue avete versato, troppo dolore per
essere perdonati. Pagherete il prezzo della sofferenza, lo inciderò
sulla vostra pelle. Uscite dunque e comportatevi da uomini. Oppure
verrò a prendervi io e vi trascinerò uno per uno qui come gli animali
che siete…”.
Il bandito sbuffò. Sicuro come la morte, non sarebbe uscito nessuno con
una premessa del genere. Con i suoi paroloni, Eiko spiegò al compare lo
stesso concetto, ma Hizon non lo ascoltò. Riteneva una beffa personale
quell’atteggiamento, un insulto il modo in cui lo ignoravano. Con passi
tranquilli perciò, entrò dentro una delle case, nell’ombra piena di
pulviscolo e fetore, la stessa casa su cui si appoggiava Stej. Il
bandito lo osservò indifferente, raccogliendo da terra un filo di
paglia e masticandolo spensierato.
Rumori di lotta scoppiarono all’interno. Una testa cozzò contro la
parete e poi volò con tutto il resto del corpo nella polvere della
piazza. Era solo un vecchio Atro sdentato. Seguirono altri due anziani
barbuti, calciati fuori dalla figura eretta e posata di Hizon.
I tre si rialzarono e rimasero lì fermi. Eiko chiaramente non gradiva i
metodi brutali del compagno, ma aveva troppa paura di lui per
lamentarsi apertamente e pertanto si dedicò al piccolo uditorio.
“Capite la mia lingua?”, chiese gentilmente, ma con l’odiosa
condiscendenza che la gente come lui riservava ai ritardati. Infatti
subito dopo storse il naso disgustato dalle loro condizioni.
Nessuno degli anziani rispose, nessuno alzò nemmeno gli occhi da terra.
Allora il poeta tentò con la parlata locale. Non ricevette maggiori
risultati, anzi, la cinghiata di Hizon tanto vicina al suo volto
chinato lo fece sobbalzare.
“Vi è stata rivolta una domanda, cani. Rispondete…”, li esortò
altrettanto suadente il guerriero serico, facendo corrispondere una
frustata ad ogni silenzio.
“Pietà!”, urlò il poeta al posto loro. “Dayan non vorrebbe che agissimo
in questo modo. Noi siamo gli eroi, Hizon. Non dimenticatelo”.
Stej aveva digrignato i denti dal canto suo, emettendo un suono
minaccioso. Karg, la violenza gli piaceva e anche molto, ma
quello era
un esercizio di crudeltà gratuita su poveracci che nemmeno si
difendevano. Con espressione serena, il sadico alzò un sopracciglio
rivolto all’oratore, come se non comprendesse la causa della sua
repulsione.
“Loro sono i nostri nemici, Mastro Eiko. Non dimenticatelo”, ripeté il
guerriero errante, e aveva la voce rotta da un entusiasmo malcelato che
torse le budella del bandito.
“Ma quali nemici e nemici! Questi sono villici incolti. Io mi ricordo
bene gli Atri razziatori, le squadre di legionari con le loro battute
salaci e l’esagerata vivacità. Se fossero stati costoro i nostri
nemici, li avremmo vinti cinquant’anni fa. Guardate i loro occhi, per
gli dei!”.
Hizon alzò gli occhi di un vecchio e li trovò spenti, vuoti. Lì dietro
non c’erano pensieri. Senza voltarsi, il serico chiamò Stej.
“Allontana le mani da quell’ascia e vieni qui”.
Il bandito tenne stretto il manico dell’ascia e avanzò verso i tre che
dopo le domande del fanatico strisciavano scomposti sulla pietra, con
ampie ferite sulla pelle. Non avevano urlato, non piangevano la loro
disgrazia, tremavano soltanto e talvolta si udiva da loro… nemmeno un
gemito, bensì l’ombra di un mugolio. Non era normale… Erano però occhi
che aveva già visto, anche se non ricordava dove.
“Bravo, hai preso tre vecchi caproni senza cervello”, giudicò
impunemente. “Ne è pieno il mondo. Ma tu alla loro età non ci arriverai
mica, schifoso figlio di platta”.
Hizon sorrise e alzò due dita, per indicargli la seconda possibilità
sprecata.
“Al diavolo! Che vi aspettavate? Che uscissero tutti a saltare di
gioia? Quando si vince una battaglia, ci si prende quello che si vuole
e poi si riparte”.
Nemmeno lui era così stupido da credere il contrario. Quando razziava
un villaggio, la gente scappava o moriva. Dopo bisognava aspettare che
si riprendessero dal colpo e nella maggior parte dei casi non accadeva.
Le persone morivano di fame e smettevano di lavorare. Era già tanto che
fosse rimasto qualcuno.
Dei passi attirarono i loro sguardi verso una via. Un uomo camminava
solitario, con una fascina di stoppa tra le mani. Eiko ed Hizon lo
raggiunsero di corsa e Stej li seguì dappresso, tanto per vedere cosa
intendessero fare.
Il lavoratore non si fermò all’ordine del guerriero errante, almeno
finché questi non gli sbarrò la strada. Nemmeno costui sembrava
particolarmente sveglio, e ignorava assolutamente Eiko pur fissandolo,
come se non riuscisse a focalizzarlo bene. C’era in effetti qualcosa di
familiare nei suoi occhi, era come se Stej avesse già visto prima anche
questi. Non riusciva ad inquadrarli su volti noti, forse quindi era il
genere di sguardo che riconosceva. Ad ogni modo non gli piaceva.
L’oratore non meno innervosito smise di tentare lingue strane o
misconosciute, cercando di arrivare ad una soluzione logica, prima che
Hizon decidesse di torturare anche quell’uomo.
“È una congiura. Si fingono pazzi per evitare di obbedire”, stabilì
infatti Hizon ed Eiko si coprì gli occhi con una mano, quasi disperato.
“E cosa intendete fare, allora? Metterete i loro figli davanti agli
aratri nella speranza di insperati barlumi di sanità?”.
Il poeta esitò dinnanzi ad un ingresso e poi si inoltrò in un’altra
abitazione. Sembrava, anzi era chiaro, avesse visto giorni migliori.
Gli attuali abitanti avevano lasciato nell’incuria l’arte salica delle
loro case, senza capirla. Avevano ricoperto di paglia i sontuosi
pavimenti e negli angoli si erano svuotati il ventre. Non c’era mobilia
e le vettovaglie erano ridotte a ceramica grezza.
Tutto qui… Tutto ciò che il popolo Atro, dominatore incontrastato per
mezzo secolo, possedeva era il nulla. Una donna era lì per
dimostraglielo. Seduta sullo sporco, un bambino tra fasci e cenci lì
accanto, resti di un cibo che non era stato cucinato, bensì catturato.
Anche ad Eiko non mancava l’avidità di chiedersi dove fosse tutto l’oro
e l’argento ottenuti dall’Impero nel corso di anni. Mentre ci pensava,
scrutò la donna seduta, intenta a fumare nell’ombra, e la salutò con un
sorriso tanto falso quanto sciocco. Ella non rispose, non reagì
minimamente alla sua presenza. Era stordita forse, o persa in chissà
quale sogno. Oppure era in lutto per i famigliari uccisi, addolorata al
punto da aver smesso di vivere?
Il poeta uscì consapevole di non conoscere abbastanza i suoi nemici.
Era però prematuro insistere con i discorsi se la gente era ridotta a
scarni manichini. Pure qualcuno in città lavorava, riparava con mezzi
di fortuna le case distrutte dalle catapulte. Scuotendo la testa
pensieroso, ancora accecato dal passaggio tra la tetra oscurità
dell’interno chiuso e il chiarore esterno, Eiko si rivolse a Stej.
“Fai un giro in città, per piacere. Portami qualcuno che sia più
sveglio di altri. Qui ci vuole un mediatore, un interprete del non
visibile…”.
Ma alzati gli occhi in quella strana luminosità non trovò più il
bandito nei dintorni. Se n’era andato e così Hizon. C’erano solo due
bambini che muti e silenziosi passavano, come fantasmi, diretti con
precisione aliena ad una loro personale direzione.
Stej invece era già quasi alla periferia della città, correndo con
un’idea in mente. Alcuni soldati abbattuti dal caldo lo osservavano
pigramente, sudando alla semplice vista dei suoi movimenti entusiastici
in quell’afosa mattina.
“Non c’è niente lì dentro…”, lo avvertirono gli armati in ozio, appena
lo videro varcare la soglia e lo chiamarono ‘signore’ riconoscendolo
per uno degli eroi al seguito di Dayan.
Sì, chiaramente qualcuno aveva già cercato. I più furbi si erano dati
al saccheggio in mezzo al conflitto e avevano portato via qualunque
cosa avessero trovato di prezioso. Maledetti razziatori del karg!
Li
odiava perché erano arrivati prima di lui.
Stej uscì insultandoli e passò oltre, si gettò anima e corpo in uno
sciacallaggio dell’ultimo minuto. Aveva scoperto infatti che nessuno
degli abitanti lo avrebbe fermato, nessuno si sarebbe nemmeno
lamentato. Questo significava per gli sciocchi che gli Atri non
avessero niente da rubare, ma non per lui. I contadini al suo arrivo
piangevano e imploravano, aggredivano e lottavano soprattutto se non
avevano guadagni. La disperazione toglieva loro non solo la dignità ma
anche il timore di osare troppo. Stej era ormai convinto che gli Atri
avessero un rifugio sicuro per le loro ricchezze e godeva di
quell’intuizione segreta.
Dovevano aver nascosto gli averi nel punto più povero e improbabile
della città, era ovvio! E lui che aveva cercato per tre giorni dentro
Migdal. Che stupido del karg! Ma adesso qualcosa avrebbe
trovato,
qualunque cosa, a costo di rovesciare tutto! Gli era intollerabile la
possibilità di abbandonare il luogo a mani vuote.
Così si tuffò letteralmente dentro una soglia e perlustrò ogni crepa o
anfratto della baracca. L’Atro seduto fuori non si interessò alla
confusione dentro la sua proprietà. Costruiva una cesta di vimini e non
pensava ad altro. Il bandito di ritorno all’esterno lo alzò in piedi e
lo perquisì, poi lo spinse di nuovo al suo posto. Per tutto il tempo,
l’uomo rimase concentrato sul suo lavoro e il suo corpulento rapinatore
lo incontrò ancora altre tre o quattro volte, facendo il giro del
quartiere prima di passare ad altri.
Stej evitò d’istinto e non senza una buona ragione il grande palazzo
della biblioteca, dove permaneva ancora il fumo acre del grande
incendio, una cappa asfissiante e dolorosa per gli occhi. Non si era
trattato di un caso. Era stata Aria a dare l’ordine esplicito. La
regina della Magia aveva fatto accendere i fuochi dai soldati e aveva
bruciato decadi di conoscenza, cancellando la memoria dell’Impero,
comprese copie uniche di opere antichissime che nessuno avrebbe mai
ricordato. Il re dei Cavalli e quello della Seta avevano applaudito
alla sua lungimiranza, laddove Orph si era roso il fegato gridando ai
quattro venti che Aria era la regina non già della Magia ma delle
professioniste che lavoravano al porto. Stej aveva applaudito allora
alla sincerità dell’eremita e dato una ripassata ad alcuni guerrieri
magi che ne chiedevano conto. Perciò non era il caso di farsi vedere
troppo nei dintorni.
L’uomo si diresse piuttosto verso i confini liberi dai soldati,
esplorando interni fatiscenti di artistiche facciate ben oltre l’ora di
pranzo.
Niente. E meno trovava, e più la sua furia e impazienza crescevano. Gli
Atri incontrati erano tutti uguali, tutti spenti, tutti vuoti. Nessuno
lo indirizzava con uno sguardo spaurito o un occhiata nervosa verso le
proprie ricchezze. L’ultima casa divenne allora quella che l’avrebbe
pagata per tutte.
Irruppe nella pesante penombra. Due uomini e due donne erano seduti e
mangiavano nella quiete più assurda. Stej rovistò tra tela di sacco,
paglia e cocci. Gettò a terra una brocca d’acqua, tastò i muri e lisciò
il pavimento al punto quasi da scavare nella pietra.
Adirato con il mondo inveì contro gli dei e contro gli Atri, fino a che
la fame non lo pungolò a volgersi verso i quattro commensali. Nessuno
di loro lo guardava, non avevano espressioni spaventate, nemmeno davano
l’impressione di godersi il cibo. Anzi, i gesti sembravano meccanici,
portavano le mani alla bocca come se… Come se qualcuno avesse detto
loro di nutrirsi.
Stej ne aveva abbastanza. Si avvicinò agli Atri e si ingozzò
liberamente del loro cibo. Bevve a garganella la loro acqua e frantumò
le loro ciotole.
“E adesso?”, li istigò.
Si mosse irruento verso il capofamiglia. Gli ruttò in faccia.
“Avanti, vecchio!”, lo intimidì. “Urlami contro! Mandami all’Inferno!”.
L’uomo lo guardò come gli altri, senza vederlo veramente, come se non
fosse importante. Ma Stej era importante, lo era eccome! Prese il loro
giovane figlio. Lo alzò per le vesti, lo scrollò rudemente.
“Cacciami via! Attaccami, pulce!”, ringhiò. “Non me ne vado finché non
mi darai soddisfazione! Dov’è il tuo oro, uomo? Dove?”, urlò nelle sue
orecchie e quello semplicemente strabuzzò gli occhi e rimase immobile
nella sua presa.
Stej preparò un manrovescio soffiando e sbuffando. Ma non ne aveva
voglia, non con quel caldo e contro uno sbarbatello. Emise un verso di
fastidio e lo spinse a sedere. Ronzò intorno alla vecchia. Le tolse una
collana di alcun pregio né valore, giudicata con tutta l’esperienza di
chi reputava la ricchezza un sinonimo di brillantezza.
Mentre fuori una banda di soldati passava, allegri e disorientati per
il vino, Stej lasciò andare il braccio della donna che ricadde
mollemente al fianco. Era inutile. Meglio inseguire quei porci e
divertirsi a depredare loro. In effetti ne provò l’impulso e si rialzò,
deciso quantomeno a far rissa. Poi però si accorse della ragazza. Anche
lei aveva una pietra al collo, rossa e opaca, e non era la sola cosa
bella.
Stej seguì altri istinti nell’alzarla e controllare i denti al sole.
Guardò i suoi famigliari e sorrise maligno prima di abbracciarla, di
strapparle la scollatura del vestito, di infilare la mano nei capelli e
strattonarle indietro la nuca.
Pochi attimi dopo interruppe la sua smania. Alzò gli occhi dall’addome
alla testa della fanciulla, e vide il suo sguardo. Poi girò il volto e
osservò lo stesso identico sguardo nei tre ancora seduti intorno al
pranzo.
D’improvviso Stej scappò via, inciampò sull’uscio e gattonò sotto il
sole. Mancò poco che non desse di stomaco lì sul posto, scosso com’era
dai brividi.
Perché ora ricordava dove avesse già visto occhi simili.
Erano gli occhi fermi e fissi dei morti…