Fictional Dream © 2006 (8 aprile 2006)
Dragon Ball, Bulma, Vegeta e tutti gli altri personaggi sono
proprietà di Akira Toriyama, Bird Studio, Toei Animation, Star Comics e Mediaset
(quali concessionari italiani).
L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright
dell’autrice (Callie Stephanides - http://fictionaldream.iobloggo.com). Non ne è ammessa
altrove la citazione totale né parziale, a meno che non sia stata autorizzata
dalla stessa tramite permesso scritto.
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Immagina un mondo devastato e distrutto. Un mondo in cui la
speranza è un miraggio ormai estinto, in cui il domani è una promessa ipocrita.
Il mio mondo.
Il mondo che ha accolto il mio primo sguardo, l’unico
conosca. Quello in cui mia madre si sveglia e si spegne, sognando di un uomo dal
quale non ha mai avuto una briciola d’amore e che pure non sa dimenticare.
Un mondo che desidera cambiare con tutta se stessa, per
regalarsi una scintilla di pace, per cullarsi nell’illusione di quel che sarebbe
stato. E io combatto per questo suo sogno, perché l’amore che mi ha donato
meriterebbe ben più di una vendetta tardiva. L’unico dono che posso farle,
invece è permetterti di vivere e di restarle accanto.
L’idealismo palese delle intenzioni era senz’altro la nota
più graziosa e urticante e patetica e commovente al contempo: raccontava
l’Inferno a chi in quell’Inferno era campato tre decadi, sentendone a volte
persino la nostalgia. Parlava dell’Inferno come se non fosse un saiyan. Come se
non sentisse il valore di un’opportunità come quella che il caso gli aveva dato:
restare il solo. Restare l’unico. Restare il baluardo della vita e
della gloria e di un arbitrio feroce.
Parlava dell’Inferno come se non fosse figlio suo. Come se
appartenesse solo a lei, l’unica cui concedesse qualche parola di lode,
come se una morte disgraziata fosse il corollario cercato e voluto di
un’esistenza saiyan. Sì, lo era. D’accordo: lo era. Non v’era nulla più
importante della ricerca affannosa della potenza e dell’eccellenza e di un
nemico forte, sempre più forte.
Era offensivo persino il fatto un figlio – un ragazzino come
quello, ibrido e schiavo di brutti sentimenti – si sentisse in dovere di
difenderlo. Difenderlo da cosa? L’unico pericolo che avvertiva con forza era
quella puntura sottile in fondo al cuore: stilettate successiva di abitudine e
tenerezza, tutto quel che rendeva debole e doveva respingere ad ogni costo.
C’era un gusto perverso, assoluto e profondo, nel ferirlo;
seviziarlo con la lama della lingua, come non bastava il ferro del braccio e
della volontà. Era la voluttà del carnefice, quella del paparino e delle
sole creature si fossero meritate la sua stima insegnandogli la lezione della
paura e della prevaricazione. Era uno spirito saiyan, fino in fondo: lo stesso
con cui poteva rinfacciargli la sua stupida umanità come se fosse qualcosa di
talmente criminoso da somigliare a un tradimento della razza.
Una bella lezione morale.
“Non essere patetico, Trunks. I sentimenti sono un lusso che
un guerriero non può concedersi, a meno che uno non voglia essere tanto debole
da offrire il fianco al primo assalto.”
Cinico. Crudele. Studiato.
“Come Gokuh, padre? Che pure è tanto più potente di te?”
Già: proprio una bella lezione morale.
Si annunciava come un sussulto nel buio, una frattura
manifesta e totale della quiete notturna. Un battito fuori posto, imprevisto.
Bulma Briefs aveva sempre avuto il sonno pesante, poi era
penetrata in profondità in un’altra esistenza, sino ad accorgersi che perdere
l’innocenza non era neppure un problema di voglie e sesso e possesso, ma di
consapevolezze.
Bulma Briefs sapeva d’esser cresciuta – di aver lasciato alle
spalle il tempo dei giochi e dei sospiri e persino delle facili seduzioni e
delle narcisistiche provocazioni – nel momento in cui aveva avuto l’impressione
di comprendere Vegeta. Le sue ragioni. I suoi incubi. Le sue verità:
comprenderle sino in fondo.
Tanto voleva dire annegare nel buio, nel passato e nel
rimorso; quel qualcosa di indefinibile che un’antica schiavitù gli aveva
resecato aveva il nome migliore e peggiore del mondo: futuro.
Vegeta era un uomo che credeva nella vendetta, nella faida,
nell’ordalico giudizio della stirpe; una scimmia triste, irrisolta, violenta e
distruttiva, incapace di sottrarsi al fascino di quel che gli sussurrava alle
spalle. Talmente schiavo, anzi, di quel richiamo, da non vedere più niente oltre
il limite naturale dei propri ricordi peggiori.
“Vegeta...”
“Vado ad allenarmi.”
C’era un impeto atroce e distruttivo in tutte le sue rabbie.
La voglia di cancellare con quattro colpi dati in solitudine quel che un uomo
avrebbe dovuto guardare in faccia e fugare con una specie di sorriso
consapevole. Quello di Vegeta era una smorfia amara, cui non credeva neppure un
bambino di otto anni: un bambino colpevole di esistere come ricordo persistente
di un rapporto troppo intenso per essere dimenticato. Troppo breve per non
lasciare almeno un po’ del sapore amaro di una sconfitta annunciata.
“Vorrei essere grande, mamma! Inventa qualcosa e fammi
crescere!”
“Trunks? Lo stai già facendo. E non mi sembra proprio…”
“Voglio diventare come lui. Voglio che papà mi voglia più
bene!”
Non c’era dolore, non c’erano sfumature eccessive: solo
un’infinita consapevolezza davanti a una foto dai colori falsati, troppo vivi e
troppo spenti come sono sempre quelli dello sguardo con cui si ricostruisce un
ricordo. A volte Vegeta aveva sorriso. Era vero. A Trunks, soprattutto. A
quel Trunks.
In momenti come quelli Bulma Briefs avrebbe sentito il
desiderio prepotente di piangere al posto del proprio figlio, con la voglia
oltraggiosa di chiedere un conto per tutto. Per l’indifferenza, la freddezza,
l’esserci-non-esserci così obliquo e così speciale. L’imprimersi solo e
sempre come un’assenza dolorosa.
Aveva tutto il diritto di odiarlo per quello e forse di
amarlo con la stessa ostinazione che muoveva suo figlio.
“Non importa. Tanto diventerò più forte di quel bamboccio. Mi
allenerò con Goten, finché non sarò in grado di battere anche Gohan.”
Se c’era una vena sottile, sinistra e insopprimibile di
follia nel sangue saiyan, doveva esser per forza la stessa che si rifletteva nel
troppo orgoglio di quegli occhi: azzurri come i suoi, ma con una metallica
determinazione che somigliava ai due pozzi d’ossidiana in cui aveva smarrito
buonsenso e orgoglio fino alle estreme conseguenze. Fino a perdere se stessa,
insomma.
Un prezzo troppo salato.
Aveva perso la testa. Di nuovo.
Vegeta aveva perso la testa e le chiedeva come al solito di
restare a guardare. Immobile. Il dettaglio meno rilevante della scena.
Non era neppure un problema di vere e proprie esclusioni; il
dramma, quello autentico, era ne intuisse le ragioni per l’ennesima volta, e non
ne condivideva neppure mezza.
Gokuh era morto; morendo aveva spezzato l’unica speranza cui
Vegeta si era aggrappato per vivere sino alle estreme conseguenze, una speranza
talmente puerile che ti veniva proprio spontaneo domandarti dove trovasse la
voglia e il modo di restare ancora così innocente e mostrarsi così trasparente e
persino suscitare qualcosa di lontano dalla rabbia e dalla paura.
Tenerezza: solo quella, perché nella determinazione con cui
Vegeta desiderava superare il suo Kakaroth in tutto, sino ad annullarne la
maledizione, più che il Principe s’intravedeva un cucciolo egoista e viziato.
Malato di onnipotenza.
Comunque Vegeta voleva sconfiggere Kakaroth; era tutto quel
che si era imposto nel momento stesso in cui era entrato nella Stanza dello
Spirito e del Tempo insieme a Trunks. Bulma si era chiesta se non vi fosse molto
altro in quella specie di esilio guerriero; se non vi fosse, cioè, il disperato
tentativo di vedersi riconosciuto come padre, in un’accezione diversa
dall’eterno secondo.
Vegeta aggrediva Trunks per cercarne l’approvazione? Suonava
stonato, ma probabile, o non vi sarebbe stata sempre troppa rabbia e troppa
partecipazione in ogni sua invettiva.
“Io sono il Principe dei Saiyajin. Per nascita e per rango
sono l’esemplare più degno della mia razza E tu osi paragonarmi a uno scarto di
terza classe? Kakaroth ha osato superarmi una volta, ma non capiterà più,
chiaro? E ora combatti, se ne hai il fegato, e dimostrami d’essere veramente mio
figlio, non uno scherzo della natura.”
Sembrava solo un incubo. Un incubo che era durato un anno
intero, quando un anno era ancora poco per il segno indelebile che aveva
lasciato nella sua storia. Era stato un anno pieno di insulti e recriminazioni e
verità: alcune scomode; altre, invece, così autentiche da somigliare a un altro
colpo dritto al cuore. Senza pietà e senza ritorno e senza riscatto.
“Dannazione.”
Poteva spendere un blast per ogni fantasma. Poteva irridere
la sua vecchia coscienza, che da quei blast era stata fiaccata e spesso
sconfitta. Eoni prima, senz’altro, ma Vegeta non dimenticava. Poteva perdere il
senno e perdere il sonno e perdere quel gelido controllo che non aveva mai
avuto, ma non sarebbe riuscito a fuggire la triade che aveva sempre bruciato le
sue resistenze più preziose e autentiche.
Kakaroth.
Terza classe.
Gokuh.
Troppi nomi per uno stesso spettro.
Troppo pochi per tradurre la frustrazione.
E l’ammirazione.
E la paura, a volte. Sì, anche quella.
Poteva chiudere gli occhi sul presente, azzerare ogni
resistenza, fingere indifferenza. Poteva eludere i bisogni, regredire sino allo
stato animalesco della macchina e del soldato che per primo Freezer aveva
istruito e cresciuto. Poteva concentrarsi sul vorace desiderio dei suoi muscoli
di assecondare impeti energetici crescenti secondo un flusso continuo: poteva
farlo. Non riusciva a farlo.
Sapeva solo che il Tenkaichi distava meno di una settimana;
sette giorni per far ingoiare a un rivale insuperabile sette anni di solitudine
non erano abbastanza. Il rimorso vinceva l’odio e il rimpianto il rancore: la
gioia intima e vergognosa dell’incontro distraeva non meno del bisogno di
dimenticare. Tutto.
Il deserto polveroso e ionizzato in cui il sacrificio inutile
si era consumato.
Il sentimento di bruciante disfatta e il senso di colpa.
Il suo sorriso, enigmatico e strano. Il sorriso con cui
l’aveva persino salutato.
Era morto, eppure voleva ancora ucciderlo. Era morto, eppure
lo sentiva vivo, come una piaga eterna apertasi nel suo orgoglio e degenerata
sino a spezzargli il cuore.
Non era così che aveva immaginato tutto. Non era così che
doveva essere. Proprio per niente.
E poi c’erano quegli occhi che tornavano a perseguitarlo; gli
occhi di un figlio che chiedeva ancora solo uno sguardo, che implorava d’essere
cresciuto per i Trunks orfani di ogni altro tempo.
Gli occhi di una donna che non si arrendeva davanti a nulla,
che non cedeva a nulla, neppure alla morte, e glielo aveva dimostrato fino alle
estreme conseguenze.
Bulma lo fissava con quell’attitudine polemica e provocatoria
che le si addiceva come una seconda pelle, il capo inclinato, di chi scruta
senza paura e non vuol farsi prendere. Di chi guarda molto e non vuol farsi
guardare, non fino in fondo.
Malgrado tutto v’era molto di Vejita-sei in una femmina così
orgogliosa e così complicata. Così semplice e così istintiva, e lapidaria in
ogni suo accento.
“Posso sapere che intenzioni hai?”
Un sorriso di sfida, provocazione gratuita e fin troppo
compiaciuta.
“Ammazzarlo, mi sembra evidente.”
“È già morto.”
“È un dettaglio non rilevante.”
“Dovevo immaginarlo. Tu sei un saiyan. La morte ti piace più
di tutto il resto, vero?”
“Sì. Direi che sia così.”
“Bene. Attento che non tocchi a te, perché se così fosse, non
credo che potrei perdonartelo.”
E invece l’hai fatto, stupido.
Fiammella. Sigaretta.
Cenere che si disperde nel vento.
Anche la tua.
Potrei dire ch’è soltanto polvere sotto le ciglia, che sono
asciutta dentro e fuori e non tremo e non soffro e non provo più niente. Sarebbe
più giusto, perché in fin dei conti non sono la prima e non sono neppure nuova a
certe esperienze, no? C’è sempre una Bulma che guarda l’orizzonte distrutto
della propria felicità e tenta di salvare qualcosa: qualche frammento di se
stessa e della propria dignità. C’è sempre una Bulma che fissa un cielo rosso
come il sangue e recrimina sul proprio fallimento.
Forse avrai il figlio che cercavi, Vegeta; il figlio della
disperazione e del rimpianto.
Figlio tuo e della Morte che hai corteggiato sino a sedurre.
Fino lasciarti rapire.
Non ti perdono, no. Non ti perdono.
Anche se in fin dei conti sono solo una donna tradita con la
puttana sbagliata.