Two.
Correva
in mezzo a quella pista aerea senza una meta. Respirava con atroce
affanno, tanto che fu costretta a fermarsi. Si guardò attorno
con preoccupazione ed ansia: una decina di aerei era appostata
proprio di fronte a lei, pronta a partire; ma qualcosa non andava.
Corrugò la fronte, nel momento in cui scorse tutti i grigi
velivoli prendere a muoversi lentamente, nella sua direzione, nello
stesso istante. Con il cuore scalpitante ed una nuova paura ad
invaderle il corpo, si voltò repentinamente nella direzione
opposta, ricominciando poi a correre. Scappava senza guardarsi alle
spalle, senza preoccuparsi di controllare se quegli aerei erano
ancora in moto e la stavano inseguendo; scappava e basta, consapevole
solamente del fatto che aveva disperatamente voglia di uscire da
quella maledetta pista.
Sgranò
gli occhi, nell'esatto istante in cui percepì qualcosa, o
meglio qualcuno, strattonarle malamente un braccio. La luce mattutina
era a dir poco accecante ed una sgradevole sensazione di freddo e
bagnato la prese alla sprovvista. Si portò una mano alla
fronte e constatò che era completamente sudata. Il suo cuore
batteva ancora all'impazzata ed una strana sensazione di tremore alle
gambe si impossessò velocemente di lei. Stava sognando?
«
Mamy! Mamy! » la delicata voce di Eveline le giunse subito alle
orecchie, portandola a voltare lo sguardo verso di lei. I suoi
occhietti celesti – acquisiti da Christian – la scrutavano
intrisi di preoccupazione.
«
Eve, tesoro, che c'è? » domandò Monique, il più
dolcemente possibile, cercando così di non intimorire la
bambina.
«
Ti agitavi. » mormorò la piccola, attorcigliando il
pigiamino tra le mani e mordicchiandolo poi da un lembo, con fare
agitato. Un'infinita tenerezza invase l'animo di Monique, la quale –
con un dolce sorriso – la accolse fra le sue braccia, per
infonderle quel poco di sicurezza che aveva momentaneamente perso. «
Tei sudata. » storse il nasino la piccola, abbandonandosi
comunque contro il corpo della madre, che prese a ridacchiare.
«
Stavo solo facendo un brutto sogno, non ti preoccupare. » le
sorrise successivamente, per poi liberarla dalla sua presa e
permetterle di scendere dal letto disfatto.
Dormire
insieme era diventata una piacevole abitudine. Sin da quando era
piccola, aveva abituato Eveline a riposare nella propria culla, ma
con il passare del tempo la bambina aveva cominciato a fare simili
richieste, le quali avvenivano solo qualche volta, ma che Monique
accettava sempre di buon grado. Farsi il solletico e ridere con gusto
era solamente una semplice conseguenza dei loro risvegli mattutini.
La
mora doveva ammetterlo: quella piccola creatura le aveva cambiato la
vita e, in un certo senso, gliel'aveva resa più serena e
movimentata.
Stese
le braccia sopra la propria testa, stiracchiando i muscoli
intorpiditi, e si rilassò per poi scendere dal letto e seguire
sua figlia in cucina.
Si
sentiva ancora scossa per quello strano sogno. Immaginava che fosse
avvenuto a causa della telefonata ricevuta due giorni prima, da parte
di David, per riferirle che assieme ai Tokio Hotel sarebbe tornato
allo studio di registrazione proprio quel pomeriggio. Si erano
accordati sull'orario di incontro, nella sua vecchia postazione di
lavoro, per discutere sugli orari e su ogni dettaglio. Le era stato
proposto persino di portare Eveline con sé ma, come primo
ritrovo, avrebbe preferito non farlo: avrebbe lasciato sua figlia in
compagnia di Jessica.
«
Tesoro, oggi pomeriggio, hai voglia di stare un po' con zia Jessica?
La mamma deve andare a tenere un colloquio di lavoro. » chiese
alla piccola, dopo averla aiutata a sedersi sulla sedia.
«
Ti! Con Tia Gege! » esclamò entusiasta Eveline, battendo
ripetutamente le manine. « Ma poi tu tonni? » domandò
successivamente, con occhi languidi, mentre la ragazza le preparava
una pappina di latte e biscotti.
«
Ma certo che torno, non ci metterò tanto. » le sorrise
Monique, donandole una leggera carezza sui capelli mori.
«
Tom, smettila di agitarti. »
La
voce di suo fratello l'aveva colto alla sprovvista, risvegliandolo
dai suoi più intimi pensieri, che forse nemmeno aveva
presente. Scostò lo sguardo dall'oblò e si voltò
alla sua sinistra, verso suo fratello, il quale lo osservava con la
fronte corrugata.
«
Cosa? » domandò il chitarrista, quasi stralunato.
«
Continui a muovere la gamba, mi fai tremare il sedile e io non riesco
a dormire. » spiegò il vocalist. Tom sollevò un
sopracciglio: conosceva l'eccessiva vena polemica di suo fratello, ma
ciò che gli aveva appena detto era a dir poco futile.
«
Tu riusciresti a dormire anche con un trapano pneumatico accostato
all'orecchio. » borbottò il chitarrista, tornando ad
osservare le nuvole sotto di sé.
Aveva
abbandonato la paura di volare da un bel po' di tempo, anche se quel
lieve senso di vertigine gli attanagliava sempre e comunque lo
stomaco, rendendolo piuttosto vulnerabile. Aveva comunque imparato ad
accantonare l'ansia di una possibile caduta o esplosione intorno alle
quali la sua mente vorticava; era stato costretto, dopotutto, a causa
di tutti i viaggi che doveva affrontare.
«
Cosa ti rende così nervoso, Tom? E non dirmi che è il
volo perchè non ci credo. »
Quella
domanda l'aveva preso in contro piede. Non si era decisamente
programmato una risposta plausibile da gettare, senza riflettervi, a
suo fratello. Il suo cuore conosceva il motivo; la sua mente lo
ignorava. Ammetterlo sarebbe stato troppo arduo per lui.
«
Non sono nervoso, Bill. Lo sai che ho questo vizio da quando sono
piccolo. » rispose il ragazzo, cercando di apparire abbastanza
convinto di ciò che aveva appena detto.
«
Sì. E so anche che lo fai, appunto, quando sei nervoso. »
ripetè con un sorriso furbo in volto e le sopracciglia
sollevate, in un'espressione intrisa di sarcasmo ed ironia. Tom lo
fulminò con lo sguardo, mostrando una smorfia contrariata, e
successivamente sbuffò, segno che si era arreso a quegli
ammiccamenti da parte del suo gemello.
«
D'accordo, sono un po' agitato. Giuro, solo un pochino. »
ammise Tom, più per convincere se stesso che Bill, il quale
appariva decisamente poco incline a credere ad ogni sua parola. «
Io e lei non ci siamo salutati in modo del tutto carino,
all'aeroporto, quel giorno. » mormorò, abbassando lo
sguardo sulle sue mani unite in grembo. « Io te ne avevo
parlato sin dalla prima volta in cui lei aveva messo piede allo
studio di registrazione che avevo capito di avere un debole per lei e
che avevo paura per questo. Tra parentesi, ti ringrazio per aver
mantenuto il segreto. » Bill, in risposta, sorrise appena. «
Anche se adesso non sono più così preso da lei come
prima, mi fa sempre uno strano effetto, anche il solo pensiero di
rivederla, capisci? Forse solo per un forte senso di colpa nei suoi
confronti, per paura di essere respinto, per paura di essere
ignorato, odiato... Perchè comunque l'ho fatta soffrire. Io a
lei piacevo; ora non so. Rimane il fatto che non so assolutamente
cosa aspettarmi dall'incontro di oggi pomeriggio. » concluse il
chitarrista, per poi sospirare, come magicamente alleggerito da
quella piccola confessione.
Suo
fratello lo osservava con tangibile comprensione sul volto. Aveva
capito perfettamente cosa volesse dire con quelle affermazioni e
conosceva anche il sentimento che stava provando.
«
E' normale che ti senti un po' spaventato da questo ma, ormai la
conosciamo: Monique è una ragazza intelligente e non mi sembra
il tipo che porta rancore. Probabilmente, con il tempo – dato che è
stato tanto – è passata anche a lei la cotta che aveva per
te, se possiamo definirla tale. Quindi non vedo perchè
dovrebbe trattarti male o non parlarti. Il passato è passato;
ora è cresciuta, ha una figlia, ha cose molto più serie
di cui preoccuparsi. »
Le
parole di Bill erano state assorbite, dalla prima all'ultima, dal suo
cervello. Non capiva come fosse possibile ma, il pensiero che Monique
lo avesse dimenticato, dal punto di vista sentimentale, lo rendeva
particolarmente malinconico. Non sapeva spiegarsi se fosse dovuto
dalla questione del solo Ego maschile che non doveva assolutamente
andare distrutto, o fosse per un motivo decisamente più
specifico.
«
Sì, può essere come dici tu. » concluse con una
lieve alzata di spalle, poggiandosi poi contro lo schienale del suo
sedile, per tornare a scrutare il cielo limpido mattutino che
stanziava attorno a lui.
Semplicemente,
non doveva pensarci.
Qualche
secondo più tardi, percepì la mano di suo fratello
posarsi sulla sua gamba per schiacciargliela verso il basso, con
l'intento di fargliela tenere ferma. Sorrise impercettibilmente: era
più forte di lui.
Da
minuti interminabili respirava allo stesso modo di quel lontano
giorno in cui aveva partorito.
Ricordava
ogni singolo incoraggiamento da parte dei dottori, ogni singolo
dettaglio di quella affannosa respirazione che le avevano ordinato di
adottare e l'aveva rimesso in pratica in quell'istante. Non riusciva
a capire – o forse non voleva – come fosse possibile
un'agitazione simile. Avrebbe rivisto i suoi datori di lavoro, con i
quali aveva sempre passato ogni momento delle sue giornate, eppure si
sentiva non poco nervosa.
Appena
entrata con la macchina nel vialetto dello studio di registrazione,
il suo cuore aveva preso ad eseguire fantastiche acrobazie,
nell'avvistare l'enorme Cadillac e le Audi parcheggiate proprio lì,
a qualche metro. Era scesa dalla sua auto con lentezza eccessiva e si
era guardata attorno come se avesse commesso un reato per il quale
qualcuno l'avrebbe improvvisamente accusata.
La
verità era che aveva paura che qualcuno di indesiderato
sbucasse alle sue spalle, da un momento all'altro. Ciò,
fortunatamente, non avvenne ed aveva così raggiunto in poco
tempo lo zerbino, di fronte all'entrata. Ora era ferma lì, ad
attendere una qualche chiamata divina che le infondesse il coraggio
necessario per varcare quella soglia, o più semplicemente
suonare quel dannato campanello, nonostante possedesse ancora le
chiavi.
Sollevò
una mano tremante verso il bottoncino affianco alla porta e, dopo
qualche attimo di lunga esitazione, chiuse gli occhi e vi premette
con un dito. Pochi secondi in cui il suo cervello le ordinò di
scappare e in cui la porta si aprì, rivelando dietro essa
l'esile figura di David.
«
Monique! » esclamò entusiasta, accogliendola in un
caloroso abbraccio che quasi le fece mancare il fiato. La ragazza non
poté fare a meno di ricambiare quella stretta, rilassandosi in
un sorriso sincero. Alle spalle del manager, avvistò Bill,
Gustav, Georg e – con un colpo al cuore – Tom, camminare in
quella direzione, piuttosto sorpresi. Il vocalist le si fiondò
addosso, seguito repentinamente dal batterista, per poi schioccarle
innumerevoli baci sul volto; successivamente toccò anche al
bassista che l'accolse fra le sue braccia muscolose. Quando infine si
voltò nella direzione di Tom, per un attimo le mancò il
fiato. Il ragazzo la guardava con un'espressione intimidita ma allo
stesso tempo sorridente.
Si
sentiva impacciata, non sapeva che fare, così sorrise appena
di rimando e sussurrò un “Ciao”, al quale il chitarrista
rispose con un cenno del capo.
«
Non hai portato Eve! » constatò Bill, imbronciato.
«
No, l'ho lasciata a casa con Jessica. Non mi sembrava il caso di
portarla ad un colloquio di lavoro. » rispose Monique, cercando
di non pensare a quegli occhi nocciola che intanto la scrutavano.
«
Ma tanto ormai siamo tutti in famiglia! Dobbiamo solo rivedere alcune
cose, potevi tranquillamente portarla. » intervenne David.
Monique sollevò le spalle e l'uomo scosse appena la testa,
divertito. « La prossima volta però ce la devi far
conoscere. » insistette.
«
Senza dubbio. » sorrise la mora, scoccando poi un veloce
sguardo al chitarrista.
Erano
passate quasi due ore dal momento in cui si era seduta su quella
sedia, in cucina. Attorno al tavolo sedevano anche i ragazzi, assieme
al manager, intenti a discutere circa orari e simili.
Si
era infine stabilito che Monique sarebbe tornata a lavorare come
traduttrice o interprete simultanea – casomai avessero dovuto
tenere ulteriori interviste – ma le pulizie a cui precedentemente
si dedicava, al pomeriggio, assolutamente no. Ora aveva una figlia a
cui badare e doveva trovare il tempo materiale per riuscire a gestire
ogni singolo impegno o dovere. Al momento, il dovere di madre era
quello che più le premeva e, in quanto tale, avrebbe dovuto
assicurare una buona situazione – anche in termine economico – a
sua figlia.
Tom,
in tutto quel tempo, aveva parlato pochissimo; aveva annuito o era
intervenuto di tanto in tanto, quando gli era praticamente di dovere,
ma oltre a monosillabi, non aveva esposto più di tanto le sue
idee. Monique continuava a torcersi le mani; non perchè si
sentisse ancora attratta da lui – cosa che, dovette ammettere, era
più o meno tale – ma perchè quella situazione le
pesava ed allo stesso tempo non riusciva a fare finta di nulla. Nel
profondo, nonostante si fosse impegnata per far sì che ciò
non influenzasse negativamente il loro rapporto, si sentiva ancora
arrabbiata, o meglio furente con lui. Era riuscito a rovinare tutto
quanto con motivazioni a dir poco futili, nonostante lui le reputasse
alquanto sostanziose.
La
conversazione, a quel tavolo, aveva lentamente preso una piega del
tutto diversa da quella lavorativa. Ora tutti erano curiosi di sapere
qualcosa riguardo Monique e la sua situazione familiare, da quando
era “entrata in scena” Eveline.
«
Quindi ha i tuoi stessi capelli mori? » domandò Bill,
sognante, con il viso poggiato ai palmi delle sue mani, con fare
interessato. Monique annuì, sorridendo appena; aveva imparato
a convivere con un nuovo sentimento, da quando era diventata madre:
l'orgoglio per sua figlia.
«
E gli occhi? » intervenne David.
«
Quelli li ha ereditati da suo padre. » commentò la
ragazza con una smorfia, al solo ricordo del suo ex fidanzato. «
Sono celesti e, mi duole ammetterlo, ma su di lei sono una
meraviglia. » borbottò la mora, al che i ragazzi
ridacchiarono compiaciuti da quella difficile dichiarazione.
«
Mi fa strano sentirti parlare in questo modo di una bambina. Se penso
che fino a qualche tempo fa quasi li ripudiavi, i bimbi... »
sorrise Gustav.
«
Beh, diventare madre ti cambia radicalmente la vita. E poi, non so, è
come un istinto naturale che ho sentito nell'esatto momento in cui mi
hanno appoggiato la bimba sul petto. » la sua voce era andata a
calare sempre di più, parola dopo parola, poiché un
ricordo stava spintonando fra i suoi pensieri per venire fuori.
«
Insomma, Tom. A me i bambini neanche piacciono. » ammise,
prendendosi la testa fra le mani. Tom restò qualche attimo in
silenzio, scrutandola accigliato. « Non sono in grado di
crescerne uno. Probabilmente non sarei neanche affettuosa, mi farebbe
schifo cambiargli il pannolino, perderei le staffe se mi svegliasse
il suo pianto durante la notte, uscirei di testa. Forse non sarei
nemmeno in grado di crescerlo, di dargli una buona educazione, di
aiutarlo con i compiti. Tom, non sono in grado di fare la madre! »
sbottò Monique.
[...]
«
Sai cosa penso? Che tutte le donne abbiano, chi più chi meno,
un istinto materno. Alcune ce l'hanno più marcato, altre lo
nascondono persino a loro stesse. Forse semplicemente perchè
non lo vogliono tirare fuori. Probabilmente perchè si sono
sempre convinte, come nel tuo caso, che i bambini non faranno mai
parte della loro vita. » esortò il ragazzo, lasciando
Monique di stucco. Tutto si sarebbe aspettata dal chitarrista, ma non
un discorso intriso di tale maturità. «Insomma, voi
donne siete connaturate così... Per dare al mondo i bambini.
Ce l'avete dentro. Forse tu non lo senti ancora, ma sono sicuro che
non appena partorirai e ti appoggeranno quel fagottino sul petto...
Ti sentirai più mamma tu di qualsiasi altra donna. »
Quelle
parole, di tanto tempo prima, erano dannatamente veritiere; senza
saperlo, Tom ci aveva preso, sin dall'inizio. Non poteva immaginare
che, in un modo o nell'altro, avrebbe avuto ragione.
Nel
momento in cui sollevò lo sguardo su di lui, notò che
la stava osservando con quella stessa profondità, con quella
stessa espressione, testimone di tante parole non dette ma
volenterose di fuoriuscire dalle sue labbra. Probabilmente, entrambi
avevano ricordato lo stesso episodio, nel medesimo istante.
Come
imbarazzato, il chitarrista tornò a scrutare il tavolo, sotto
di sé.
«
Sei ritornata perfettamente in forma, comunque, lasciatelo dire. »
constatò Bill, come suo solito attratto dall'estetica.
«
Ho fatto un po' di ginnastica in casa, con Jessica che, sosteneva mi
facesse da personal trainer, ma a me pareva più la copia
femminile di Hitler. » spiegò Monique.
I
ragazzi, assieme al manager, scoppiarono a ridere, probabilmente
immaginando la scena.
«
E Christian si è più fatto vedere? »
La
domanda di Georg aveva trascinato all'improvviso il silenzio in
quella cucina. Tom aveva di nuovo sollevato lo sguardo su Monique,
attendendo evidentemente una risposta da parte sua.
«
No, non si è fatto vedere e non ci deve nemmeno provare. »
rispose freddamente la ragazza, al che il chitarrista si rilassò
sulla sedia. Non comprendeva nemmeno lui la ragione per cui per quei
secondi apparentemente interminabili avesse sperato tanto in quella
risposta.
«
Se sbucasse nuovamente e volesse avere un rapporto con la figlia,
cosa faresti? » chiese ancora Gustav. Monique rifletté
qualche attimo, prima di rispondere.
«
Non è un problema che mi sono mai posta, semplicemente perchè
do per scontato che non lo farà mai, dato che non glien'è
mai importato nulla né di me, né della creatura che
tenevo in grembo. Probabilmente reagirei di conseguenza; dovrei
trovarmi nella situazione ma spero che questo non accada. »
Improvvisamente,
il cellulare prese a vibrare nella tasca dei suoi jeans,
interrompendo quella conversazione. Si affrettò a recuperarlo
e rispose.
«
Monique, hai ancora tanto? » sentì la voce di
Jessica.
«
Ehm, no, a dire il vero, abbiamo finito. » rispose la mora,
aggrottando le sopracciglia. « Qualcosa non va? » domandò
poi.
«
No, non ti preoccupare. Solo che Eve mi sta chiedendo da un po'
quando arrivi. »
«
Tesoro... Dille che arrivo subito. »
«
Ma sì, fai pure con calma. A dopo. »
Riattaccò
e ripose il cellulare in tasca.
«
La piccola chiama. » annunciò alla tavolata. «
Sarà meglio che vada perchè, tra le chiacchiere, non mi
sono accorta dell'ora. » sorrise appena, alzandosi intanto
dalla sedia. Tutti quanti annuirono e si alzarono a loro volta. La
accompagnarono sino alla porta, salutandola successivamente, dopo
essersi ricordati a vicenda che la mattina seguente sarebbe già
tornata a lavorare. « Ciao, ragazzi, a domani. » salutò
la mora, uscendo poi dallo studio di registrazione.
Il
cielo, sopra di lei, era già buio, reso appena più
luminoso solamente grazie alle stelle che quella sera avevano deciso
di ornarlo, senza alcuna nuvola a guastare quel piacevole spettacolo.
Si strinse nel cappotto, diretta verso la sua macchina, quando udì
una voce, alle sue spalle, fermarla.
«
Monique. »
Un
brivido, uno di quelli che era solita provare fino a qualche tempo
prima, le attraversò la colonna vertebrale. Impuntò sui
propri piedi, quasi indecisa sul da farsi ma, senza riflettervi
ulteriormente, si voltò nella direzione del chitarrista.
Quest'ultimo la guardava intimidito, con le mani in tasca e stretto
nelle proprie spalle, ma con espressione crucciata e bisognosa di
liberarsi di un peso troppo opprimente.
«
Dimmi. » cercò di apparire disinvolta la mora. Tom restò
qualche attimo in silenzio. A dire il vero non conosceva nemmeno lui
il motivo per cui l'aveva inseguita, con l'intento di parlarle. Ma
per dirle cosa?
Il
chitarrista prese a strusciare una scarpa contro l'erba che gli
sottostava, decisamente pentito di aver fatto ciò; ora non
sapeva più come venirne fuori.
«
Nulla, volevo solo... » esitò ma le parole non si
liberarono nell'aria. Semplicemente si fermò, guardandola con
una strana luce malinconica negli occhi. Monique aveva i pugni
stretti nelle tasche del suo cappotto ma questo Tom non poteva
vederlo. Voleva apparire al suo sguardo sicura di sé e per
niente turbata, ma il suo impegno stava cominciando a vacillare.
«
Solo? » lo incoraggiò, senza esternare quella lieve
speranza che aveva preso possesso dei suoi sensi. Il suo cuore,
infondo, sperava che le dicesse qualcosa che l'avrebbe fatta tornare
a casa con il sorriso, anche se ciò non avrebbe cambiato la
situazione. « Tom, Eve è a casa che mi sta aspettando. »
provò ad incitarlo ulteriormente. Lo vide ancora più
teso; forse si sentiva pressato.
«
Hai ragione... Vai. » sorrise appena il ragazzo, portandosi una
mano dietro alla nuca. Si sentiva eccessivamente in imbarazzo e
fremeva dall'urgenza di correre nuovamente dentro lo studio e
nascondersi dagli occhi della mora.
Monique
ricambiò appena il sorriso ed aprì successivamente la
portiera della macchina.
«
Ciao, Tom. » lo salutò cordialmente, per poi salire
sulla sua autovettura ed allontanarsi sempre di più da quel
ragazzo così abbattuto.
Si
sentiva tremendamente in colpa per averlo lasciato lì, senza
nemmeno dargli il tempo necessario per esprimerle ciò che lo
turbava, ma era stato più forte di lei. Nonostante una parte
del suo cuore desiderasse sentirsi dire determinate cose, un'altra le
rifiutava con tutte le proprie forze; forse voleva vivere
nell'oscurità, nell'ignoranza... Solo così avrebbe
avuto modo di non soffrire più.