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Autore: _KyRa_    01/11/2010    11 recensioni
[ Sequel di What if...? ]
Sgranava e stringeva a scatti gli occhi.
Non aveva mai provato una sensazione tanto sgradevole e mentalmente pregava perchè non durasse ancora a lungo.
Sentiva come se la stessero squarciando a metà, senza ritegno, e salate lacrime si andarono a mischiare con il sudore sul suo viso.
Gli ultimi minuti furono i più orrendi, i più insopportabili e strazianti, fino a che non udì un potente pianto liberarsi in quella sala popolata di dottori in camice verde.
Genere: Erotico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Tom Kaulitz, Un po' tutti
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'This is it.'
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One.



Il sudore stanziava copioso sulla sua pelle. I muscoli si contraevano ritmicamente e le labbra rilasciavano pesanti ed affaticati ansimi. Le mani grandi e venose stringevano spasmodicamente il lenzuolo ormai sciupato da quella presa violenta. Attorno, oscurità e silenzio permeavano le pareti di quella stanza, divenuta quasi soffocante, così come i suoi pensieri.
Il corpo gracile che gli sottostava era decisamente troppo inesperto ed il suo odore raggiungeva bruscamente le sue narici... Quell'odore che non era il suo; quell'odore troppo diverso da quello di cui era abituato bearsi e quindi poco gradevole, nonostante altri ragazzi l'avrebbero forse gradito. I gemiti di quella sconosciuta perforavano le sue orecchie con insistenza, rendendo il tutto ancora più fastidioso e sbagliato.
Sentiva di agire d'impulso, secondo i suoi istinti per troppo tempo repressi per colpa sua. Si era precluso per dei mesi interminabili i divertimenti ed i piaceri che era solito inseguire prima che arrivasse lei a sconvolgere la sua vita. Tutto era perfetto, tutto era come lui apparentemente desiderava e non avrebbe mai chiesto altro. Poi quella ragazza aveva deciso di stravolgere la sua esistenza, portandolo a cercare altro che non fosse solo il sesso. L'aveva preso e strappato dalle sue abitudini, senza nemmeno rendersene conto, che aveva sempre altamente apprezzato.
E ce l'aveva con lei per questo, ce l'aveva da morire.
Con un ultimo, netto movimento del bacino, mandò in estasi quel corpo femminile, privo di nome e peculiarità, crollandovi successivamente sopra, per riprendere fiato. Ancora una volta, la Pace dei Sensi era arrivata senza importanza, senza che questa lasciasse finalmente il marchio in lui, come in passato accadeva. No... Ormai non sentiva più nulla, da quando si era accorto che ciò di cui aveva bisogno non era lì con lui.
Un misero discorso ed una risposta non data, o comunque lasciata in sospeso, in un grigio aeroporto. Più i giorni scorrevano lenti e sinuosi, più si sentiva insoddisfatto e stupido. Un “mi mancherai” soffiato e sofferto che l'aveva lasciato con un doloroso crampo allo stomaco, per tutto quel tempo, senza mai abbandonarlo; se nella sua vita aveva sempre creduto di essere abbastanza maturo in tutto ciò che faceva, tutte le sue certezze ora stavano vacillando, fino a svanire una ad una, con tremenda lentezza.
Si sollevò stancamente dalla sconosciuta, la quale prese a scrutarlo con perplessità, chiedendosi forse per quale assurdo motivo si fosse allontanato da lei così in fretta e con così tanta freddezza.
« Che succede? » domandò con voce incerta, mentre il ragazzo si accendeva la sigaretta, seduto sul letto e dandole le spalle nude.
« Succede che te ne devi andare. Con te ho finito. » tagliò corto il moro, dopo aver inspirato un po' di rigenerante nicotina, senza preoccuparsi di aver usato un tono poco gentile. I secondi di silenzio che susseguirono furono piuttosto urtanti per lui. Non aveva assolutamente voglia di dover elencare gli infiniti motivi per cui non poteva restare qualche attimo in più con quella ragazza che nemmeno conosceva.
« Ma pensavo... »
« Pensavi male. » la interruppe il chitarrista, alzandosi dal materasso, incurante di essere ancora completamente nudo, e si avvicinò alla finestra, continuando a darle la schiena con indifferenza. « Cos'è... Credevi che con te la cosa sarebbe stata diversa? Non andare a pensare a queste stronzate. Io sono Tom Kaulitz, ricordi? Sono stronzo, sono senza cuore. Tom Kaulitz non si innamora quindi mettiti l'anima in pace. Ed ora, se non ti dispiace, vado a farmi una doccia. Quando torno desidererei trovare la stanza vuota, non mi piace ripetermi. »
Stronzaggine... Pura e spudorata stronzaggine. Quando voleva, riusciva ad enfatizzare tutto quanto, fino a colpire dolorosamente ed irrimediabilmente nel cuore gli animi più deboli ed indifesi. Solamente attaccando sarebbe riuscito a difendersi.
Ignorò il lieve dispiacere che prese ad inondargli il corpo, non appena udì la ragazza tirare su con il naso, e – prima che potesse essere troppo tardi – si rifugiò in bagno, proprio come le aveva detto. Non voleva perdere tempo a consolarla. Per allontanare le persone non poteva usare dolcezza. Occorrevano semplicemente insensibilità, spietatezza e concisione. Solo così sarebbero riuscite a dimenticarlo per ciò che appariva: un semplice bastardo.
Poggiò le mani sul lavello di fronte a sé e sollevò gli occhi spenti sullo specchio rettangolare. Ormai non vedeva altro che espressioni tristi e vuote sul suo volto. La sua vita non lo soddisfaceva più. Forse perchè sapeva di aver lasciato troppe cose in sospeso. Aveva lasciato qualcosa, o meglio qualcuno di troppo importante per lui, a Berlino, un anno e mezzo prima. Ancora non sapeva come ciò fosse potuto accadere, visti e considerati i precedenti che vi erano stati, ma era solamente consapevole del fatto che quella dannata Monique gli aveva letteralmente mandato in tilt il cervello.


*


Il mal di schiena la stava semplicemente uccidendo. Aveva dedicato l'intero pomeriggio alle pulizie di casa, il che voleva dire scovare ogni singolo millimetro quadrato devastato dalla più piccola briciola di polvere e disinfettarlo.
Da quando nella sua vita aveva preso posto un nuovo componente, era diventata ancora più pignola di quanto già non fosse qualche tempo prima.
Due occhietti celesti la scrutavano con attenzione in ogni minimo movimento, palesemente incuriositi. Tanti perchè, tante curiosità, tante parole blaterate da una vocetta delicata. Eveline sedeva sul divano, a gambe incrociate, ad osservare la sua mamma con ammirazione.
Più passava il tempo e più Monique non riusciva a capacitarsi di quanto infinito amore le donasse quella bambina di appena un anno e mezzo, che a malapena parlava e vagava per casa ancora non del tutto stabile.
Il suo perenne odio verso i bambini era lentamente sfumato nel tempo. A dire il vero era già scomparso quel meraviglioso giorno in cui, stremata e sudata, aveva accolto fra le sue braccia quel fagottino sporco e minuscolo, intento a piangere e strillare. Ricordava, ironicamente, che il primo pensiero che le aveva invaso la mente nel vederla era stato “Questa bambina avrà due polmoni grossi quanto due cocomeri”. Nonostante però il suo timpano si fosse già dichiarato fuori uso, ricordava l'ilare sorriso che era andato a dipingersi sul suo volto nell'osservare sua figlia.
Quella piccolissima bambina, fatta di carne, ossa e sangue... Il suo sangue. Al solo pensiero percepiva un brivido scorrerle lungo tutto il corpo. Essere madre l'aveva resa inspiegabilmente felice. Lei... Lei che aveva sempre odiato i bambini; lei che non voleva saperne di mettere su famiglia; lei che aveva avuto paura, sino all'ultimo momento, di non essere all'altezza di tutto ciò. Madre.
I primi tempi, doveva ammetterlo, era stato piuttosto difficile prendersi cura della piccola, poiché si svegliava costantemente durante la notte, alla solita ora, annunciando il tutto con un urlo improvviso e stordente. Per tanti mesi aveva conosciuto occhiaie violacee e piuttosto marcate, sotto i suoi occhi, sonnolenza persino durante il giorno e stress nettamente amplificato. Nonostante tutto, la fortuna le aveva regalato una splendida amica, per lei come una sorella, pronta in ogni singolo istante della giornata o addirittura della notte ad intervenire repentinamente, casomai ce ne fosse stato il bisogno. Monique ringraziava giorno e notte chiunque le avesse fatto trovare Jessica in quell'enorme città tedesca, come un'ancora di salvezza. La rossa le era stata vicino, oltre che nei mesi di gravidanza, anche e soprattutto al momento del parto.
Ricordava quel giorno come fosse accaduto qualche ora prima...


L'aereo bianco era ormai sparito nell'infinità bluastra del cielo ma le lacrime continuavano a scorrere lungo le sue gote, trasmettendole tanto dolore e necessità di riavvolgere immediatamente il tempo, per stringere forte a sé il chitarrista e non lasciarlo più andare.
Jessica era scesa dalla macchina già da qualche minuto per poterla accogliere nel suo abbraccio caldo e protettivo, unica cosa di cui forse aveva bisogno in quel momento. Nascondendo il viso nell'incavo del collo della sua migliore amica, la mora si lasciò andare in un pianto intriso di tanto dolore e tanta disperazione.
Tutti gli avvenimenti di quei mesi parevano effimeri. Non riusciva a capacitarsi di quanto fosse appena successo e di ciò che il chitarrista le aveva timidamente ma sinceramente confessato. E lei non gli aveva dato una risposta chiara, sebbene una risposta non era ciò che lui effettivamente voleva. Quello che il ragazzo desiderava era, glielo aveva detto, poter tornare a Berlino – una volta terminato il tour – e guardarla senza timore negli occhi, con un sorriso spontaneo disegnato sul suo viso, e magari poter tornare ad intrattenere quel rapporto che aveva caratterizzato la loro strana unione, qualche tempo prima che Monique capisse che ciò che provava per Tom era decisamente amore e non semplice affetto.
Un improvviso mal di stomaco aveva deciso di renderle quella situazione ancora più estenuante da sostenere. Continuava a darsi della stupida mentalmente per come stava reagendo: aveva preso una decisione – dimenticarlo – e glielo aveva riferito con estranea forza; eppure ora era ingiustificabilmente crollata, contro il suo volere. D'altronde era fatta di anima e sentimenti; non era un pezzo di marmo, immune da ogni male e freddo come il ghiaccio.
Il mal di stomaco stava, attimo dopo attimo, trasformandosi in una fitta acuta, netta e anche piuttosto duratura, tanto da farla contorcere sul posto con un urlo addolorato.
« Che succede? » le chiese allarmata Jessica, mentre cercava di sostenerla con le braccia. Tutto ciò che Monique fece, nei secondi successivi, fu sgranare gli occhi e trattenere il fiato, alla vista del liquido amniotico che scorreva copiosamente lungo le sue gambe.


Era coricata su quel letto di ospedale da infinite ore e sapeva solamente che la stanchezza, il dolore e la paura erano decisamente troppo estenuanti per lei e non vedeva l'ora che tutta quella lentissima agonia terminasse al più presto. Il sudore le imperlava la fronte, così come ogni millimetro del suo corpo fremente. Urlava regolarmente, sollevata solamente dalle poche pause che quel male le concedeva di tanto in tanto. Aveva sentito la voce indistinta dei dottori che avevano forse blaterato qualcosa a riguardo di “doglie”, che l'aveva ulteriormente innervosita, portandola a chiedersi il motivo per cui continuassero a parlare tranquillamente, davanti a lei, senza agire concretamente. Ricordava che le era stato domandato se necessitasse di un'epidurale, ma la risposta che era riuscita a dare era stata un semplice e volgare “Andate a cagare voi e l'epidurale!”. Non riusciva a controllarsi; il dolore la stava facendo andare fuori di testa e non si curava più di trattenersi o comportarsi educatamente con chiunque la circondasse. A dire il vero, nemmeno le importava, dato che le sue preoccupazioni, in quel momento, erano altre.
Quella tortura si era protratta per tante, troppe ore, quella notte, fino a che, con un urlo nettamente superiore a quelli precedenti, annunciò l'imminente voglia del piccolo di farsi vedere dal resto del mondo. L'ostetrica si era precipitata ai piedi del suo letto e Jessica, vestita completamente di verde, l'aveva affiancata per stringerle una mano ed incoraggiarla in ogni minimo movimento o sforzo facesse.
Sentiva le continue esclamazioni della donna – fastidiosamente appostata in mezzo alle sue gambe – ordinarle di spingere.
Sgranava e stringeva a scatti gli occhi. Non aveva mai provato una sensazione tanto sgradevole e mentalmente pregava perchè non durasse ancora a lungo. Sentiva come se la stessero squarciando a metà, senza ritegno, e salate lacrime si andarono a mischiare con il sudore sul suo viso. Gli ultimi minuti furono i più orrendi, i più insopportabili e strazianti, fino a che non udì un potente pianto liberarsi in quella sala popolata di dottori in camice verde.
Il suo cuore prese a battere all'impazzata, impossibile da fermare, ed un'improvvisa voglia di conoscere la creatura che stava dando sfoggio della propria considerevole voce la tormentò fino a che non vide quel piccolo esserino sporco di sangue in braccio all'ostetrica. Quest'ultima le si avvicinò sorridente, per poi poggiarglielo sul petto, con estrema delicatezza.
« E' una femmina. » le aveva annunciato con dolcezza, per poi allontanarsi ed osservarla da lontano, serena.
Monique pareva incredula, incapace di intendere e volere o semplicemente di parlare e muoversi. Tenere fra le braccia quella bambina era stata un'azione spontanea, del momento, mentre Jessica si era abbassata con il viso accanto al suo, per osservarla commossa.
« E' una cosa incredibile... E' troppo bella. » balbettò, asciugandosi una lacrima con un delicato sorriso.
Monique continuava a scrutare sua figlia quasi con timore, ma con altrettanta felicità, commozione e orgoglio. Era opera sua; d'accordo, sua e di un bastardo, ma era stata lei a darle la vita e la gioia che le riempiva il cuore non era quantificabile.
« Ciao, Eveline... » aveva semplicemente sussurrato, con un dito catturato dalla delicata e quasi impercettibile stretta della mano della neonata, prima che l'ostetrica la riprendesse e lei crollasse in un sonno profondo, stremata.


Era stato tutto dannatamente perfetto, ancora prima che stremante. Ora si sentiva quasi del tutto completa, nonostante nella sua vita mancasse ancora quell'unica figura maschile che aveva tanto desiderato accanto a lei, ma che purtroppo non c'era.
Dimenticare Tom, nel corso del tempo, si era rivelato alquanto arduo; tuttavia poteva ritenersi parzialmente soddisfatta, poiché da qualche tempo non aveva più disturbato i suoi pensieri con la semplice comparsa del suo viso. Un anno e mezzo non aveva cancellato completamente quel sentimento, ma poteva dire di averlo per lo meno ammortizzato. Se precedentemente tutto ciò che riusciva a fare al suo ricordo era piangere, ora lo ricordava con lieve malinconia, ma poi stringeva i denti e andava avanti; continuava a vivere per lei e per la sua Eveline, la quale – se l'era promesso – avrebbe dovuto crescere in mezzo a tanta serenità e pace.
I suoi genitori, non appena l'avevano vista, se n'erano innamorati: d'altronde era impossibile non innamorarsene. Era una bimba diligente, tranquilla e piena di dolcezza da regalare a chiunque. Un po' timida con gli sconosciuti, diveniva meravigliosamente espansiva con chi già conosceva, come ad esempio Jessica, che ormai reputava come una zia acquisita.
« Mamy? »
La delicatezza di quella giovane voce era disarmante. Monique sentiva un brivido ogni qual volta la chiamava a quella maniera e non poteva fare a meno di sorridere.
« Dimmi. » rispose, voltandosi nella sua direzione.
« Tia Gege? »
Il nome “Jessica” era per Eveline ancora troppo complicato da pronunciare; per questo motivo aveva optato per un soprannome alla sua portata, che la diretta interessata adorava.
« La zia Gege arriva tra poco. » la annunciò, suscitando così in lei contentezza. « Sei contenta di vederla perchè sai che ti fa fare sempre tutto quello che vuoi, eh? » ridacchiò qualche attimo, tornando poi ad occuparsi dei mobili.
Il pulire e il mettere in ordine la casa era anche un passatempo, per lei. Con la nascita di Eveline aveva occupato il suo tempo soprattutto per lei e, le doleva ammetterlo, le avevano sempre dato un aiuto i suoi genitori, pur contro il suo volere. Ora però aveva solamente voglia di rimettersi in pista, di ricominciare a lavorare e non avrebbe atteso un granché dato che i Tokio Hotel non sarebbero tornati a Berlino troppo in là. Aveva promesso a David che avrebbe ricominciato a lavorare per loro e, ovviamente, non avrebbe saputo trovare di meglio. Quella per lei era stata un'occasione più unica che rara; le dava riscontri positivi anche e soprattutto economicamente e non avrebbe dovuto buttarla all'aria per avvenimenti precedenti.
Improvvisamente il suono del campanello annunciò l'arrivo di Jessica.
« Gege! » esclamò eccitata Eveline, buttandosi a peso morto sul pavimento e spiccando successivamente una pericolosa corsa, non del tutto stabile, verso la porta di casa.
« Eve, piano, che ti spiattelli sul parquet! » la ammonì Monique, correndole dietro, pronta ad afferrarla al primo barcollo. Giunta di fronte alla porta, con Eveline ancora intera e soprattutto in piedi, poté aprirla per accogliere Jessica con un enorme sorriso stampato sul volto.
« Tia! » Eveline stese le braccia gracili verso la rossa che la prese in braccio per poi stamparle un bacio sulla tempia.
« Ciao, piccolina! » la salutò calorosamente, mentre entrava in casa. Monique richiuse la porta, sorridente, e seguì poi le “sue donne” in salotto, per sedersi sul divano. Eveline, come sempre, trovò posto sulle gambe di Jessica e prese successivamente a giocherellare con i suoi capelli rossi. « Ma che bello questo vestitino, chi te l'ha regalato? » esclamò furbescamente la ragazza, sapendo alla perfezione che gliel'aveva regalato proprio lei per il suo primo compleanno. Monique scosse appena la testa. « Hai sentito David? » chiese poi Jessica alla mora.
« Sì, tra non molti giorni dovrebbero tornare a Berlino, così posso riprendere a lavorare. » rispose Monique, osservando distrattamente sua figlia.
« E tu come ti senti all'idea? » continuò la rossa. Monique, a quel punto, si voltò nella sua direzione, incontrando il suo sguardo.
« Bene, ricominciare a lavorare mi serviva. » le pareva piuttosto ovvio.
« Sai benissimo che non mi riferivo al lavoro. »
Sospirare fu ciò che di più spontaneo venne da fare alla mora. Se lei cercava di non pensare al chitarrista, ecco che Jessica si impegnava per mandare a monte ogni suo piano.
« Jess, sono tranquilla... Davvero. Te l'ho detto, a Tom non penso più come prima; me la sono fatta passare un po'. » spiegò sulla difensiva.
« Sì, ma io ti conosco, Monique... Non sei un tipo che si dimentica facilmente di un ragazzo, di cui oltretutto si è innamorata. »
« Per lo meno ci ho provato e ci sto provando! Sono ancora parecchio sensibile su questo discorso, è vero, ma non penso di essere ancora innamorata di lui. »
« Beh, lo scoprirai quando lo rivedrai. »
Monique stette in silenzio a riflettere. Era la verità; solamente rivedendolo avrebbe scoperto come il suo cuore avrebbe reagito. Eppure, perchè al solo pensiero, lo sentiva già battere furiosamente nel petto?


*


Bill, da qualche tempo, non viveva bene. Non riusciva a farlo, nel vedere suo fratello piuttosto affranto. Quest'ultimo, certamente, non aveva passato ogni singolo giorno chiuso in se stesso o in una stanza, in uno stato semi-comatoso; per arrivare a fare ciò avrebbe dovuto essere addirittura innamorato, ma puntare all'impossibile ancora non gli conveniva. Eppure, nonostante tutto, lo vedeva pensieroso... Più spesso del solito. Sapeva che era dovuto soprattutto all'idea di rivedere Monique, con la quale non era riuscito ad ottenere un chiarimento soddisfacente, e che probabilmente non le era del tutto indifferente dal punto di vista sentimentale. Lo conosceva da ancora prima di nascere e poteva leggerlo nella mente e nel cuore, capendo molte più cose che il chitarrista stesso potesse capire. Non era innamorato e questo lo poteva confermare con certezza, ma il suo pensiero, spesso, era rivolto a lei. Perchè fosse ancora preso o semplicemente triste per come si erano concluse le cose, però non sapeva dirlo.
Anche lui, d'altra parte, pensava spesso a Monique. Si sentivano regolarmente al telefono e la voce della piccola che udiva presa dai propri discorsi che solamente una bambina della sua età poteva capire, lo faceva sorridere. Ricordava ancora la propria reazione il giorno in cui venne a sapere che si trattava di una femminuccia...


« Oddio, hai partorito?! » esclamò il vocalist, entusiasta, con il cellulare all'orecchio, mentre il resto della band – assieme a David – lo circondava, attento. Riuscì a scorgere l'espressione di Tom: un misto fra la sorpresa, l'ansia, la tristezza e l'eccitazione. « Ed è un maschio o una femmina? Dimmi che è un maschio, così porterà il mio nome! » aveva pregato successivamente con una lieve cantilena nel tono di voce.


La risposta di Monique “Mi spiace deluderti, ma è una femminuccia” gli aveva fatto per un attimo cadere la mandibola al pavimento, ma si era subito ripreso, manifestando comunque contentezza ed impazienza di vederla. Tom gli aveva successivamente chiesto con lo sguardo cosa si fossero detti e, non appena gli ebbe riferito che si trattava di una femmina, il chitarrista ammorbidì lentamente il suo volto in un sorriso sincero ed intenerito.
« Ragazzi, domani avete l'ultima intervista. » parlò improvvisamente David, mentre dava un'occhiata alla sua agenda.
« Oh, sia ringraziato il cielo. » sospirò Georg, stravaccato sul divanetto del tour bus, affianco a Tom che guardava distrattamente la televisione.
« Quindi torneremo a Berlino, se tutto va bene, fra un paio di giorni. » continuò il manager, chiudendo l'agenda e riponendola in tasca.
« Finalmente. Dopo un anno e mezzo... Casa. Abbiamo finito il tour da non so quanto tempo e siamo ancora qui, in giro per il mondo, per stupide interviste che non fanno altro che contenere le solite domande che ci fanno da quando eravamo ancora dei marmocchi. » borbottò Gustav, rannicchiandosi meglio accanto a Bill.
« Abbiate pazienza, ragazzi... Io vado a chiamare Monique, così glielo riferisco. » si congedò infine l'uomo, lasciandoli nuovamente soli nella stanzetta lounge.
Bill si voltò in modo automatico verso il fratello e notò che non stava più osservando la televisione, bensì il vuoto.


  
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