One.
Il
sudore stanziava copioso sulla sua pelle. I muscoli si contraevano
ritmicamente e le labbra rilasciavano pesanti ed affaticati ansimi.
Le mani grandi e venose stringevano spasmodicamente il lenzuolo ormai
sciupato da quella presa violenta. Attorno, oscurità e
silenzio permeavano le pareti di quella stanza, divenuta quasi
soffocante, così come i suoi pensieri.
Il
corpo gracile che gli sottostava era decisamente troppo inesperto ed
il suo odore raggiungeva bruscamente le sue narici... Quell'odore che
non era il suo; quell'odore troppo diverso da quello di cui
era abituato bearsi e quindi poco gradevole, nonostante altri ragazzi
l'avrebbero forse gradito. I gemiti di quella sconosciuta perforavano
le sue orecchie con insistenza, rendendo il tutto ancora più
fastidioso e sbagliato.
Sentiva
di agire d'impulso, secondo i suoi istinti per troppo tempo repressi
per colpa sua. Si era precluso per dei mesi interminabili i
divertimenti ed i piaceri che era solito inseguire prima che
arrivasse lei a sconvolgere la sua vita. Tutto era perfetto,
tutto era come lui apparentemente desiderava e non avrebbe mai
chiesto altro. Poi quella ragazza aveva deciso di stravolgere la sua
esistenza, portandolo a cercare altro che non fosse solo il sesso.
L'aveva preso e strappato dalle sue abitudini, senza nemmeno
rendersene conto, che aveva sempre altamente apprezzato.
E
ce l'aveva con lei per questo, ce l'aveva da morire.
Con
un ultimo, netto movimento del bacino, mandò in estasi quel
corpo femminile, privo di nome e peculiarità, crollandovi
successivamente sopra, per riprendere fiato. Ancora una volta, la
Pace dei Sensi era arrivata senza importanza, senza che questa
lasciasse finalmente il marchio in lui, come in passato accadeva.
No... Ormai non sentiva più nulla, da quando si era accorto
che ciò di cui aveva bisogno non era lì con lui.
Un
misero discorso ed una risposta non data, o comunque lasciata in
sospeso, in un grigio aeroporto. Più i giorni scorrevano lenti
e sinuosi, più si sentiva insoddisfatto e stupido. Un “mi
mancherai” soffiato e sofferto che l'aveva lasciato con un doloroso
crampo allo stomaco, per tutto quel tempo, senza mai abbandonarlo; se
nella sua vita aveva sempre creduto di essere abbastanza maturo in
tutto ciò che faceva, tutte le sue certezze ora stavano
vacillando, fino a svanire una ad una, con tremenda lentezza.
Si
sollevò stancamente dalla sconosciuta, la quale prese a
scrutarlo con perplessità, chiedendosi forse per quale assurdo
motivo si fosse allontanato da lei così in fretta e con così
tanta freddezza.
«
Che succede? » domandò con voce incerta, mentre il
ragazzo si accendeva la sigaretta, seduto sul letto e dandole le
spalle nude.
«
Succede che te ne devi andare. Con te ho finito. » tagliò
corto il moro, dopo aver inspirato un po' di rigenerante nicotina,
senza preoccuparsi di aver usato un tono poco gentile. I secondi di
silenzio che susseguirono furono piuttosto urtanti per lui. Non aveva
assolutamente voglia di dover elencare gli infiniti motivi per cui
non poteva restare qualche attimo in più con quella ragazza
che nemmeno conosceva.
«
Ma pensavo... »
«
Pensavi male. » la interruppe il chitarrista, alzandosi dal
materasso, incurante di essere ancora completamente nudo, e si
avvicinò alla finestra, continuando a darle la schiena con
indifferenza. « Cos'è... Credevi che con te la cosa
sarebbe stata diversa? Non andare a pensare a queste stronzate. Io
sono Tom Kaulitz, ricordi? Sono stronzo, sono senza cuore. Tom
Kaulitz non si innamora quindi mettiti l'anima in pace. Ed ora, se
non ti dispiace, vado a farmi una doccia. Quando torno desidererei
trovare la stanza vuota, non mi piace ripetermi. »
Stronzaggine...
Pura e spudorata stronzaggine. Quando voleva, riusciva ad
enfatizzare tutto quanto, fino a colpire dolorosamente ed
irrimediabilmente nel cuore gli animi più deboli ed indifesi.
Solamente attaccando sarebbe riuscito a difendersi.
Ignorò
il lieve dispiacere che prese ad inondargli il corpo, non appena udì
la ragazza tirare su con il naso, e – prima che potesse essere
troppo tardi – si rifugiò in bagno, proprio come le aveva
detto. Non voleva perdere tempo a consolarla. Per allontanare le
persone non poteva usare dolcezza. Occorrevano semplicemente
insensibilità, spietatezza e concisione. Solo così
sarebbero riuscite a dimenticarlo per ciò che appariva: un
semplice bastardo.
Poggiò
le mani sul lavello di fronte a sé e sollevò gli occhi
spenti sullo specchio rettangolare. Ormai non vedeva altro che
espressioni tristi e vuote sul suo volto. La sua vita non lo
soddisfaceva più. Forse perchè sapeva di aver lasciato
troppe cose in sospeso. Aveva lasciato qualcosa, o meglio qualcuno di
troppo importante per lui, a Berlino, un anno e mezzo prima. Ancora
non sapeva come ciò fosse potuto accadere, visti e considerati
i precedenti che vi erano stati, ma era solamente consapevole del
fatto che quella dannata Monique
gli aveva letteralmente mandato in tilt il cervello.
*
Il
mal di schiena la stava semplicemente uccidendo. Aveva dedicato
l'intero pomeriggio alle pulizie di casa, il che voleva dire scovare
ogni singolo millimetro quadrato devastato dalla più piccola
briciola di polvere e disinfettarlo.
Da
quando nella sua vita aveva preso posto un nuovo componente, era
diventata ancora più pignola di quanto già non fosse
qualche tempo prima.
Due
occhietti celesti la scrutavano con attenzione in ogni minimo
movimento, palesemente incuriositi. Tanti perchè, tante
curiosità, tante parole blaterate da una vocetta delicata.
Eveline sedeva sul divano, a gambe incrociate, ad osservare la sua
mamma con ammirazione.
Più
passava il tempo e più Monique non riusciva a capacitarsi di
quanto infinito amore le donasse quella bambina di appena un anno e
mezzo, che a malapena parlava e vagava per casa ancora non del tutto
stabile.
Il
suo perenne odio verso i bambini era lentamente sfumato nel tempo. A
dire il vero era già scomparso quel meraviglioso giorno in
cui, stremata e sudata, aveva accolto fra le sue braccia quel
fagottino sporco e minuscolo, intento a piangere e strillare.
Ricordava, ironicamente, che il primo pensiero che le aveva invaso la
mente nel vederla era stato “Questa bambina avrà due polmoni
grossi quanto due cocomeri”. Nonostante però il suo timpano
si fosse già dichiarato fuori uso, ricordava l'ilare sorriso
che era andato a dipingersi sul suo volto nell'osservare sua
figlia.
Quella
piccolissima bambina, fatta di carne, ossa e sangue... Il suo
sangue. Al solo pensiero percepiva un brivido scorrerle lungo tutto
il corpo. Essere madre l'aveva resa inspiegabilmente felice. Lei...
Lei che aveva sempre odiato i bambini; lei che non voleva saperne di
mettere su famiglia; lei che aveva avuto paura, sino all'ultimo
momento, di non essere all'altezza di tutto ciò. Madre.
I
primi tempi, doveva ammetterlo, era stato piuttosto difficile
prendersi cura della piccola, poiché si svegliava
costantemente durante la notte, alla solita ora, annunciando il tutto
con un urlo improvviso e stordente. Per tanti mesi aveva conosciuto
occhiaie violacee e piuttosto marcate, sotto i suoi occhi, sonnolenza
persino durante il giorno e stress nettamente amplificato. Nonostante
tutto, la fortuna le aveva regalato una splendida amica, per lei come
una sorella, pronta in ogni singolo istante della giornata o
addirittura della notte ad intervenire repentinamente, casomai ce ne
fosse stato il bisogno. Monique ringraziava giorno e notte chiunque
le avesse fatto trovare Jessica in quell'enorme città tedesca,
come un'ancora di salvezza. La rossa le era stata vicino, oltre che
nei mesi di gravidanza, anche e soprattutto al momento del parto.
Ricordava
quel giorno come fosse accaduto qualche ora prima...
L'aereo
bianco era ormai sparito nell'infinità bluastra del cielo ma
le lacrime continuavano a scorrere lungo le sue gote, trasmettendole
tanto dolore e necessità di riavvolgere immediatamente il
tempo, per stringere forte a sé il chitarrista e non lasciarlo
più andare.
Jessica
era scesa dalla macchina già da qualche minuto per poterla
accogliere nel suo abbraccio caldo e protettivo, unica cosa di cui
forse aveva bisogno in quel momento. Nascondendo il viso nell'incavo
del collo della sua migliore amica, la mora si lasciò andare
in un pianto intriso di tanto dolore e tanta disperazione.
Tutti
gli avvenimenti di quei mesi parevano effimeri. Non riusciva a
capacitarsi di quanto fosse appena successo e di ciò che il
chitarrista le aveva timidamente ma sinceramente confessato. E lei
non gli aveva dato una risposta chiara, sebbene una risposta non era
ciò che lui effettivamente voleva. Quello che il ragazzo
desiderava era, glielo aveva detto, poter tornare a Berlino – una
volta terminato il tour – e guardarla senza timore negli occhi, con
un sorriso spontaneo disegnato sul suo viso, e magari poter tornare
ad intrattenere quel rapporto che aveva caratterizzato la loro strana
unione, qualche tempo prima che Monique capisse che ciò che
provava per Tom era decisamente amore e non semplice affetto.
Un
improvviso mal di stomaco aveva deciso di renderle quella situazione
ancora più estenuante da sostenere. Continuava a darsi della
stupida mentalmente per come stava reagendo: aveva preso una
decisione – dimenticarlo – e glielo aveva riferito con estranea
forza; eppure ora era ingiustificabilmente crollata, contro il suo
volere. D'altronde era fatta di anima e sentimenti; non era un pezzo
di marmo, immune da ogni male e freddo come il ghiaccio.
Il
mal di stomaco stava, attimo dopo attimo, trasformandosi in una fitta
acuta, netta e anche piuttosto duratura, tanto da farla contorcere
sul posto con un urlo addolorato.
«
Che succede? » le chiese allarmata Jessica, mentre cercava di
sostenerla con le braccia. Tutto ciò che Monique fece, nei
secondi successivi, fu sgranare gli occhi e trattenere il fiato, alla
vista del liquido amniotico che scorreva copiosamente lungo le sue
gambe.
Era
coricata su quel letto di ospedale da infinite ore e sapeva solamente
che la stanchezza, il dolore e la paura erano decisamente troppo
estenuanti per lei e non vedeva l'ora che tutta quella lentissima
agonia terminasse al più presto. Il sudore le imperlava la
fronte, così come ogni millimetro del suo corpo fremente.
Urlava regolarmente, sollevata solamente dalle poche pause che quel
male le concedeva di tanto in tanto. Aveva sentito la voce indistinta
dei dottori che avevano forse blaterato qualcosa a riguardo di
“doglie”, che l'aveva ulteriormente innervosita, portandola a
chiedersi il motivo per cui continuassero a parlare tranquillamente,
davanti a lei, senza agire concretamente. Ricordava che le era stato
domandato se necessitasse di un'epidurale, ma la risposta che era
riuscita a dare era stata un semplice e volgare “Andate a cagare
voi e l'epidurale!”. Non riusciva a controllarsi; il dolore la
stava facendo andare fuori di testa e non si curava più di
trattenersi o comportarsi educatamente con chiunque la circondasse. A
dire il vero, nemmeno le importava, dato che le sue preoccupazioni,
in quel momento, erano altre.
Quella
tortura si era protratta per tante, troppe ore, quella notte, fino a
che, con un urlo nettamente superiore a quelli precedenti, annunciò
l'imminente voglia del piccolo di farsi vedere dal resto del mondo.
L'ostetrica si era precipitata ai piedi del suo letto e Jessica,
vestita completamente di verde, l'aveva affiancata per stringerle una
mano ed incoraggiarla in ogni minimo movimento o sforzo facesse.
Sentiva
le continue esclamazioni della donna – fastidiosamente appostata in
mezzo alle sue gambe – ordinarle di spingere.
Sgranava
e stringeva a scatti gli occhi. Non aveva mai provato una sensazione
tanto sgradevole e mentalmente pregava perchè non durasse
ancora a lungo. Sentiva come se la stessero squarciando a metà,
senza ritegno, e salate lacrime si andarono a mischiare con il sudore
sul suo viso. Gli ultimi minuti furono i più orrendi, i più
insopportabili e strazianti, fino a che non udì un potente
pianto liberarsi in quella sala popolata di dottori in camice verde.
Il
suo cuore prese a battere all'impazzata, impossibile da fermare, ed
un'improvvisa voglia di conoscere la creatura che stava dando sfoggio
della propria considerevole voce la tormentò fino a che non
vide quel piccolo esserino sporco di sangue in braccio all'ostetrica.
Quest'ultima le si avvicinò sorridente, per poi poggiarglielo
sul petto, con estrema delicatezza.
«
E' una femmina. » le aveva annunciato con dolcezza, per poi
allontanarsi ed osservarla da lontano, serena.
Monique
pareva incredula, incapace di intendere e volere o semplicemente di
parlare e muoversi. Tenere fra le braccia quella bambina era stata
un'azione spontanea, del momento, mentre Jessica si era abbassata con
il viso accanto al suo, per osservarla commossa.
«
E' una cosa incredibile... E' troppo bella. » balbettò,
asciugandosi una lacrima con un delicato sorriso.
Monique
continuava a scrutare sua figlia quasi con timore, ma con altrettanta
felicità, commozione e orgoglio. Era opera sua; d'accordo, sua
e di un bastardo, ma era stata lei a darle la vita e la gioia che le
riempiva il cuore non era quantificabile.
«
Ciao, Eveline... » aveva semplicemente sussurrato, con un dito
catturato dalla delicata e quasi impercettibile stretta della mano
della neonata, prima che l'ostetrica la riprendesse e lei crollasse
in un sonno profondo, stremata.
Era
stato tutto dannatamente perfetto, ancora prima che stremante. Ora si
sentiva quasi del tutto completa, nonostante nella sua vita mancasse
ancora quell'unica figura maschile che aveva tanto desiderato accanto
a lei, ma che purtroppo non c'era.
Dimenticare
Tom, nel corso del tempo, si era rivelato alquanto arduo; tuttavia
poteva ritenersi parzialmente soddisfatta, poiché da qualche
tempo non aveva più disturbato i suoi pensieri con la semplice
comparsa del suo viso. Un anno e mezzo non aveva cancellato
completamente quel sentimento, ma poteva dire di averlo per lo meno
ammortizzato. Se precedentemente tutto ciò che riusciva a fare
al suo ricordo era piangere, ora lo ricordava con lieve malinconia,
ma poi stringeva i denti e andava avanti; continuava a vivere per lei
e per la sua Eveline, la quale – se l'era promesso – avrebbe
dovuto crescere in mezzo a tanta serenità e pace.
I
suoi genitori, non appena l'avevano vista, se n'erano innamorati:
d'altronde era impossibile non innamorarsene. Era una bimba
diligente, tranquilla e piena di dolcezza da regalare a chiunque. Un
po' timida con gli sconosciuti, diveniva meravigliosamente espansiva
con chi già conosceva, come ad esempio Jessica, che ormai
reputava come una zia acquisita.
«
Mamy? »
La
delicatezza di quella giovane voce era disarmante. Monique sentiva un
brivido ogni qual volta la chiamava a quella maniera e non poteva
fare a meno di sorridere.
«
Dimmi. » rispose, voltandosi nella sua direzione.
«
Tia Gege? »
Il
nome “Jessica” era per Eveline ancora troppo complicato da
pronunciare; per questo motivo aveva optato per un soprannome alla
sua portata, che la diretta interessata adorava.
«
La zia Gege arriva tra poco. » la annunciò, suscitando
così in lei contentezza. « Sei contenta di vederla
perchè sai che ti fa fare sempre tutto quello che vuoi, eh? »
ridacchiò qualche attimo, tornando poi ad occuparsi dei
mobili.
Il
pulire e il mettere in ordine la casa era anche un passatempo, per
lei. Con la nascita di Eveline aveva occupato il suo tempo
soprattutto per lei e, le doleva ammetterlo, le avevano sempre dato
un aiuto i suoi genitori, pur contro il suo volere. Ora però
aveva solamente voglia di rimettersi in pista, di ricominciare a
lavorare e non avrebbe atteso un granché dato che i Tokio
Hotel non sarebbero tornati a Berlino troppo in là. Aveva
promesso a David che avrebbe ricominciato a lavorare per loro e,
ovviamente, non avrebbe saputo trovare di meglio. Quella per lei era
stata un'occasione più unica che rara; le dava riscontri
positivi anche e soprattutto economicamente e non avrebbe dovuto
buttarla all'aria per avvenimenti precedenti.
Improvvisamente
il suono del campanello annunciò l'arrivo di Jessica.
«
Gege! » esclamò eccitata Eveline, buttandosi a peso
morto sul pavimento e spiccando successivamente una pericolosa corsa,
non del tutto stabile, verso la porta di casa.
«
Eve, piano, che ti spiattelli sul parquet! » la ammonì
Monique, correndole dietro, pronta ad afferrarla al primo barcollo.
Giunta di fronte alla porta, con Eveline ancora intera e soprattutto
in piedi, poté aprirla per accogliere Jessica con un enorme
sorriso stampato sul volto.
«
Tia! » Eveline stese le braccia gracili verso la rossa che la
prese in braccio per poi stamparle un bacio sulla tempia.
«
Ciao, piccolina! » la salutò calorosamente, mentre
entrava in casa. Monique richiuse la porta, sorridente, e seguì
poi le “sue donne” in salotto, per sedersi sul divano. Eveline,
come sempre, trovò posto sulle gambe di Jessica e prese
successivamente a giocherellare con i suoi capelli rossi. « Ma
che bello questo vestitino, chi te l'ha regalato? » esclamò
furbescamente la ragazza, sapendo alla perfezione che gliel'aveva
regalato proprio lei per il suo primo compleanno. Monique scosse
appena la testa. « Hai sentito David? » chiese poi
Jessica alla mora.
«
Sì, tra non molti giorni dovrebbero tornare a Berlino, così
posso riprendere a lavorare. » rispose Monique, osservando
distrattamente sua figlia.
«
E tu come ti senti all'idea? » continuò la rossa.
Monique, a quel punto, si voltò nella sua direzione,
incontrando il suo sguardo.
«
Bene, ricominciare a lavorare mi serviva. » le pareva piuttosto
ovvio.
«
Sai benissimo che non mi riferivo al lavoro. »
Sospirare
fu ciò che di più spontaneo venne da fare alla mora. Se
lei cercava di non pensare al chitarrista, ecco che Jessica si
impegnava per mandare a monte ogni suo piano.
«
Jess, sono tranquilla... Davvero. Te l'ho detto, a Tom non penso più
come prima; me la sono fatta passare un po'. » spiegò
sulla difensiva.
«
Sì, ma io ti conosco, Monique... Non sei un tipo che si
dimentica facilmente di un ragazzo, di cui oltretutto si è
innamorata. »
«
Per lo meno ci ho provato e ci sto provando! Sono ancora parecchio
sensibile su questo discorso, è vero, ma non penso di essere
ancora innamorata di lui. »
«
Beh, lo scoprirai quando lo rivedrai. »
Monique
stette in silenzio a riflettere. Era la verità; solamente
rivedendolo avrebbe scoperto come il suo cuore avrebbe reagito.
Eppure, perchè al solo pensiero, lo sentiva già battere
furiosamente nel petto?
*
Bill,
da qualche tempo, non viveva bene. Non riusciva a farlo, nel vedere
suo fratello piuttosto affranto. Quest'ultimo, certamente, non aveva
passato ogni singolo giorno chiuso in se stesso o in una stanza, in
uno stato semi-comatoso; per arrivare a fare ciò avrebbe
dovuto essere addirittura innamorato, ma puntare all'impossibile
ancora non gli conveniva. Eppure, nonostante tutto, lo vedeva
pensieroso... Più spesso del solito. Sapeva che era dovuto
soprattutto all'idea di rivedere Monique, con la quale non era
riuscito ad ottenere un chiarimento soddisfacente, e che
probabilmente non le era del tutto indifferente dal punto di vista
sentimentale. Lo conosceva da ancora prima di nascere e poteva
leggerlo nella mente e nel cuore, capendo molte più cose che
il chitarrista stesso potesse capire. Non era innamorato e questo lo
poteva confermare con certezza, ma il suo pensiero, spesso, era
rivolto a lei. Perchè fosse ancora preso o semplicemente
triste per come si erano concluse le cose, però non sapeva
dirlo.
Anche
lui, d'altra parte, pensava spesso a Monique. Si sentivano
regolarmente al telefono e la voce della piccola che udiva presa dai
propri discorsi che solamente una bambina della sua età poteva
capire, lo faceva sorridere. Ricordava ancora la propria reazione il
giorno in cui venne a sapere che si trattava di una femminuccia...
« Oddio, hai partorito?! » esclamò il vocalist, entusiasta, con il cellulare all'orecchio, mentre il resto della band – assieme a David – lo circondava, attento. Riuscì a scorgere l'espressione di Tom: un misto fra la sorpresa, l'ansia, la tristezza e l'eccitazione. « Ed è un maschio o una femmina? Dimmi che è un maschio, così porterà il mio nome! » aveva pregato successivamente con una lieve cantilena nel tono di voce.
La
risposta di Monique “Mi spiace deluderti, ma è una
femminuccia” gli aveva fatto per un attimo cadere la mandibola al
pavimento, ma si era subito ripreso, manifestando comunque
contentezza ed impazienza di vederla. Tom gli aveva successivamente
chiesto con lo sguardo cosa si fossero detti e, non appena gli ebbe
riferito che si trattava di una femmina, il chitarrista ammorbidì
lentamente il suo volto in un sorriso sincero ed intenerito.
«
Ragazzi, domani avete l'ultima intervista. » parlò
improvvisamente David, mentre dava un'occhiata alla sua agenda.
«
Oh, sia ringraziato il cielo. » sospirò Georg,
stravaccato sul divanetto del tour bus, affianco a Tom che guardava
distrattamente la televisione.
«
Quindi torneremo a Berlino, se tutto va bene, fra un paio di giorni.
» continuò il manager, chiudendo l'agenda e riponendola
in tasca.
«
Finalmente. Dopo un anno e mezzo... Casa. Abbiamo finito il tour da
non so quanto tempo e siamo ancora qui, in giro per il mondo, per
stupide interviste che non fanno altro che contenere le solite
domande che ci fanno da quando eravamo ancora dei marmocchi. »
borbottò Gustav, rannicchiandosi meglio accanto a Bill.
«
Abbiate pazienza, ragazzi... Io vado a chiamare Monique, così
glielo riferisco. » si congedò infine l'uomo,
lasciandoli nuovamente soli nella stanzetta lounge.
Bill
si voltò in modo automatico verso il fratello e notò
che non stava più osservando la televisione, bensì il
vuoto.