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Autore: Furiarossa    10/11/2010    2 recensioni
La storia fa principalmente due cose: insegnare e scherzare.
Ci fa brutti scherzi, a volte, altre un pò meno ... ma ci ha anche insegnto che alcuni uomini possono essere più pericolosi di altri. O semplicemente più grandi.
E cosa succederebbe se all'improvviso, nella nostra civiltà moderna, si ritrovassero due tiranni del calibro di Vlad Tepes Terzo principe di Valacchia, detto l'impalatore e conosciuto dal mondo come Dracula, e Adolf Hitler, il flagello dei popoli?
Per scoprirlo, non vi resta che seguire questa storia ...
E poi chi dirà più che la storia è noiosa?
Questo racconto è stato scritto in collaborazione con la mia sorellina Roberta, 11 anni. E' piccola, penserete ... si, ma è un genio.
Genere: Azione, Comico, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 2

Il risveglio di Adolf

 

Adolf aprì gli occhi, frastornato. Si sentiva assonnato. Dov’era?

Alzò il busto e la scena roteò davanti ai suoi occhi sfocata e confusa. Sbadigliò, senza darsi pena di mettersi una mano davanti alla bocca, poi sbattè le palpebre confuso e si guardò intorno.

L’ometto si rimise faticosamente in piedi, facendo infine leva su un ginocchio per mettersi in posizione eretta.

Ciò che era più strano era che non si ricordava di essersi addormentato.

Bhè, in realtà, pochi secondi fa era addormentato nel sonno eterno. Ma non lo ricordava.

C’era la guerra, fuori dalla casa, e i fucili, poi uno sparo … no, non era stato lui, ad essere stato colpito … e poi il nero. Com’era possibile che si fosse addormentato proprio nel campo di battaglia? No. Era al chiuso, certo, ma c’era comunque molta confusione.

Come aveva fatto a prendere sonno proprio mentre c’era il rischio che il suo corpo venisse calpestato in mezzo a tutta quella confusione? Stavano per prenderli … ma chi diavolo erano? Gli inglesi forse. Ah, non importava.

Gli interrogativi gli giravano per la testa come zanzare fastidiose, anzi, più che zanzare vespe, che lo punzecchiavano ripetutamente.   

Si guardò le scarpe, mentre si incamminava verso la strada. Normali. 

Rialzò lo sguardo, assalito da un pensiero che lo condusse all’ira: come avevano potuto lasciarlo lì dove si era addormentato, con tutti i pericoli che poteva correre?

Con la faccia distorta dalla rabbia, immaginando con precisione il rimprovero e la punizione dei suoi sottoposti, il dialogo e infine le loro richieste di pietà e le scuse.

Camminando senza una meta precisa, o almeno per ora non ci aveva pensato, si trovò nel centro della città.

In mezzo alla strada, perso nei suoi pensieri. Non appena se ne accorse, corse in tutta fretta sul marciapiede e lo spettacolo che gli si presentò davanti fu leggermente meno normale delle sue scarpe.

Un ragazzo, poco più che un dodicenne, gli passò di lato a tutta velocità sul suo skateboard rosso con delle fiamme azzurre disegnate.

Passandogli di lato gli urlò, senza salutarlo e senza distogliere lo sguardo dalla strada «’Giorno Hitler!», un po’ per sfottò, ma Adolf non trovò nulla da ridire sul fatto che lo chiamassero col suo nome; però si imbestialì quando il ragazzo aggiunse «Hit, non è ancora Carnevale!», poi il giovane skater si dileguò fra la moltitudine di persone

«Irrispettoso!» gli urlò dietro Adolf, con il marcato accento tedesco. Imbestialito, continuò a camminare a passo veloce, spaventando tutti con ringhi e occhiate di ghiaccio puro.

Una bambina fra le altre persone, con a malapena cinque anni, scoppiò a piangere urlando e additando Adolf «Mamma, il brutto!Il brutto!BRUTTO!».

Urlava tanto da farsi apparire o un’indemoniata o una che lo faceva apposta a insultare le persone per strada. La madre, prendendola in braccio le abbassò l’indice accusatore e lanciò ad Hitler un mezzo sorriso di scusa, preoccupato, mentre l’uomo si voltò, arrabbiato dalle novità che gli si presentavano davanti, scomode e che facevano avere ad Adolf la sgradevole impressione di essere in un’altra dimensione.

Sentì un uomo parlare animatamente con un altro, due castani, di cose che lui non comprese

«Davvero non sapevi che hanno tolto dal commercio Windows Vista?»

«No» l’uomo scosse la testa «Il mio computer ce l’ha ancora. Fa schifo» poi notando la faccia dell’altro aggiunse in fretta «Cioè ha una grafica meravigliosa, ma il mio computer va lentissimo, per non parlare di quanto ci mette a collegarsi a Facebook!O, per esempio, mi ci sono voluti cinque giorni per scaricare Waka Waka!»

«Infatti!Per esempio io ho scaricato gratis da internet Ubuntu!»

Adolf ascoltava tutto con l’aria di un drogato.

Erano parole a lui completamente sconosciute

“Windows Vista?La Vista di una Finestra?Finestra Vista? O Vista da Finestra?”pensava, perplesso, mentre ripensava alle parole, senza smettere di camminare  “Facebook? Faccialibro? Oppure faccia di libro?Waka…Waka?Cos’è, un rito sciamanico africano? E poi, che razza di nome!Ubuntu?!Che cosa significa, un nome da dio indiano?!”

Tutto ciò non faceva che rafforzare il suo senso di estraneità al luogo, ma alla fine, digrignando i denti, concluse “Solo due pazzi”.

Non sapeva neppure dove stava andando, ma una strana consapevolezza gli diceva che lui doveva camminare in linea retta, ovviamente scansando le presone che gli venivano incontro. Sarebbe stato estremamente spiacevole sbattere contro tutti quelli che gli stavano vicini, senza completamente muoversi dalla propria posizione.    

«Ciao!»

Adolf si girò, seccato.

Due occhi penetranti lo fissavano, brillanti, immobilizzanti, di un nero impossibile. Capelli lunghi fino alla vita, grossi boccoli castani, una corta frangia che ricadeva sulla fronte ampia, un viso ovaleggiante e abbronzato, come il resto del corpo d’altronde, ma pieno, le labbra di un colore intenso, curvate in un sorriso. Tutto il volto era illuminato da un’espressione di gioia pura, che però nascondeva una certa malizia e complicità.

Ciò che stupì di più Hitler era il vestiario: una morbida felpa di ciniglia, grigia, con sopra la stampa di un grande $ simbolo dei dollari in verde, che gli occupava tutta la maglietta, e nella parte posteriore, coperta un po’ dal cappuccio, la € degli euro in uno sfavillante oro.

La cosa più strana era che tutti questi particolari appartenevano a una bambina di circa nove anni.

Gli tese la mano «Ciao» ripetè, convinta

«Ciao» rispose, esitante, l’uomo

«Io, come vedi, sono una bambina. Io vedo che tu sei un uomo. Ora io ti dico il mio nome e tu mi dici il tuo, ti va?» scandiva le parole come se quello che gli stava davanti fosse troppo stupido per capire «Prima tu» aggiunse, lentamente.

«Io sono Adolf. Adolf Hitler» si presentò, ritraendo la mano dopo una stretta di mano e il suo solito sguardo penetrante che rivolgeva ai conoscenti, che alla bambina non fece nessun effetto

«Si, proprio davveeero un bel modo per tentare di incantarmi, con il tuo sguardo “ghiaccioloso”. Io, invece, sono una bambina misteriosa a cui hai appena svelato il tuo nome. Scherzo. Non sono misteriosa. Mi chiamo Melody!» gli disse, con il costante sorriso sulle labbra, talmente presente da far pensare a una paralisi facciale

«I tuoi genitori?» non potè fare a meno di domandare Adolf, scrutandosi con brevi occhiate sospettose intorno

Melody assunse un’aria seccata, leggermente esasperata «I miei genitori! I miei genitori! Tutti a chiedermi dei miei genitori!Sono MORTI! I miei benedetti genitori sono morti!» aveva l’aria più seccata del mondo, niente rimpianti, o sentimenti che la facessero sembrare debole.

Hitler giunse alla conclusione che quella era un piccolo mostro.

«E allora… chi sta con te?» chiese, sospettoso

«Ero all’orfanotrofio… ma mi trattavano male» chinò la testa e i lunghi boccoli le ricoprirono il viso. La sua mano corse verso la tasca e prese qualcosa che si portò sotto la cascata di morbidi ricci. Dopo un po’ di tempo, quando finalmente Melody rialzò la testa, aveva la voce rotta e gli occhi pieni di lacrime «Sono scappata. Non ce la facevo più. Ero così…» la sua voce si ruppe e la bambina portandosi le mani al volto proruppe in piccoli singhiozzi acuti. Senza togliere le mani dal viso, lo implorò «Tienimi con te! Non farmi torn-nare lì! ».

Adolf, confuso, si sentiva stranamente imbarazzato. Mormorò un «Si, forse va bene» e Melody, con il volto coperto, riuscì a mascherare il suo sorriso di trionfo, malizioso. Ringraziò più volte l’entità sconosciuta in cielo e sorrise di nuovo pensando alla cipolla in tasca che aveva appena riposto con cura. Si sfregò le mani sul viso per farlo apparire rosso e diminuì il suo sorriso talmente tanto da farlo apparire un piccolo sorriso rassicurante per far capire che si era calmata. Si tolse finalmente le mani dalla faccia, pronta.

Notando lo strano aspetto di Adolf che, bhè, assomigliava ad Adolf, aggiunse, non potendo fare a meno di assumere un’espressione di malizia e felicità «Ti prometto che non farò l’ebrea. Sarò una bambina buona e gentile…»

“…che farà un sacco di soldi!” aggiunse mentalmente considerando che aveva appena trovato un tizio che era spiccicato al dittatore e si chiamava Adolf Hitler! Forse lo avrebbero voluto come attore per fare un film, e lei lo avrebbe usato e si sarebbe presa tutti i soldi!

L’idea era allettante. Sfiorò la tasca rigonfia con la mano. Si… ce l’avrebbe fatta.

La storiella che aveva detto ad Adolf era, si, la storia della sua vita, o perlomeno della sua vita dopo che i suoi genitori erano stati spiaccicati da un camion, con qualche differenza. Per esempio il fatto che la trattavano male non era assolutamente vero. Era solo tutto molto noioso, una routine senza fine che faceva venire solo voglia a quelli che come lei cercavano l’avventura di buttarsi dal primo grattacielo che trovavano. Per questo se ne era andata. E se per lei la situazione si fosse messa male poteva sempre raccontare che Adolf l’aveva rapita e lo shock le impediva di raccontare il resto. Avrebbe evitato per un po’ di tempo l’orfanotrofio, almeno.

Stettero un po’ in silenzio persi ognuno nelle proprie congetture, quando finalmente la bambina soggiunse «Ehi, non incantiamoci! Hai detto che ti posso venire dietro, oppure sto io avanti e tu mi segui?»

Hitler, in effetti, non sapeva assolutamente niente, né il posto in cui lo avevano lasciato né la sua meta, ma non gli andava proprio giù di farsi comandare a bacchetta a una bambinetta incontrata per strada, “Melody”.

«Faccio io strada!» esclamò, anche se non sapeva neppure lui perché avesse alzato la voce.

«Io» propose la bambina, socchiudendo gli occhi «Credo proprio di sapere la strada. E comunque si dice sempre prima le signore, no?» I suoi occhi erano ormai due fessure.

Hitler non si mosse di un centimetro.

«Bene. Dalle mie parti si dice sempre… ehm, ehm» si schiarì la voce, poi disse, con un aria solenne da, guarda un po’, dittatrice «Chi tace acconsente. Bene, allora seguimi!».

Prese per mano Adolf e passò saltellando avanti, letteralmente trascinandoselo dietro. Hitler maledisse il fatto di essere piccolo, debole e fin troppo leggero. O almeno di sentirsi così.

Ad alta voce, Melody iniziò a canticchiare «Soldi, soldi, soldi, un toccasana!Un toccasana!Chi ha tanti soldi vive come un pascià!Come un PASCIÀ!!» concluse, urlando. Era la canzone più corta che avesse cantato in vita sua.

Melody finalmente mollò la mano di Adolf, senza però smettere di saltellare allegramente facendo strada.

Hitler si convinse, seppur frustrato a seguirla.

Melody lo guidava per la città. Non sapeva realmente dove andare, o ameno non lei, ma fin da quando era piccolissima aveva sempre sentito quella che lei chiamava la sua “Voce Interiore”, quella voce potente e benevola nella sua testa che sembrava volerla sempre aiutare, senza sbagliare mai, nei momenti maggiori di difficoltà. Adesso non era in pericolo eppure la voce, femminile e melliflua la guidava “Continua fino alla cartolibreria. Svolta a sinistra…”.

Lei pensava che tutti avessero la Vocina Interiore. Melody si era costruita una teoria tutta sua: la Voce Interiore non era altro che il proprio Io allo stato puro, senza condizionamenti, la parte del cervello che non era stata infettata dalle scemenze che raccontano al giorno d’oggi, la Voce Interiore siamo i veri noi.

A volte la vocina però era fastidiosa. All’improvviso la “Vera Melody” aggrediva il corpo e ne prendeva il controllo parlando al posto suo e, cosa che la faceva andare in bestia, diceva cose senza senso in rima. Però era orgogliosa che la “Vera Sé” fosse così forte da aggredire e sopraffare la “Sé Condizionata”, la faceva sentire potente.

Guidata da quella strana forza psichica guidava a sua volta Adolf e il poveretto non guidava nessuno.

Sembrava una catena alimentare.

L‘ambiente iniziò a cambiare a poco a poco. Iniziarono a sparire i segni della civilizzazione e la vegetazione  si infoltì.

Una volta videro una piccola cosa pelosa correre davanti a loro. Melody non sapeva che pensare con Hitler che ringhiava alla cosina e pestava i piedi.

La “cosina” si rivelò un gattino di al massimo un mese, piccolo, tenero e dal manto pulito e rossiccio. Li osservò con due occhioni grandi e verdi, sgranati dalla sorpresa e al contempo spaventati. Il corpo minuto iniziò a tremare mentre Hitler gli si avviava contro ringhiando come un cane e ingobbendosi.

Melody, intenerita, sorpassò Adolf spingendolo via e si chinò lentamente verso il micino.

«Ciao» sussurrò, sorridendo. Il gattino la guardò, e per un attimo smise di tremare. Certo, Melody non lo poteva sapere, ma il gatto vedeva in lei molto più che una bambina affettuosa. Vedeva qualcosa che andava oltre ogni possibilità umana, che aveva governato dall’inizio dei tempi e continuava tutt’ora. Aveva visto quella che la bambina definiva la “Vera sé”.

Il felino, socchiudendo gli occhi, si avvicinò a Melody, all’apparenza voglioso di coccole.

«Oh…non è adorabile?» chiese, mentre prendeva il braccio il micetto che continuava a fare le fusa osservandola con occhi quasi sorridenti

«No» ringhiò il tedesco

«Bastiancontrario» commentò lei, con una scrollata di spalle, continuando a cullare il gattino e solleticandogli di tanto in tanto la pancia o i baffi

«Andiamo?!» urlò lui, irritato, pestando i piedi dalla collera

«Bimba?» una voce acerba, sottile seppur si capisse che era di un maschio, sicuramente di un bambino di non più di sette anni. Quando i due si girarono videro un ragazzino con i capelli di un castano così scuro da sembrare nero, due occhi di un vivace castano chiaro, le labbra sottili curavate in un timido sorriso e il volto pieno, con guance rosee. In pratica, era un bimbo che scoppiava di salute

«Si, bimbo?» gli fece Melody, senza smettere di accarezzare il cucciolo dal manto rossiccio che protendeva il musetto verso di lei

«Bimba, quello è il mio gattino»

«Chi me lo garantisce?» La ragazza socchiuse gli occhi, sospettosa

«Io. E poi so il suo nome. Vedi che ha il collare?» indicò il collo del gatto

«Questo non spiega nulla. Io, voglio sapere il tuo, di nome»

«Il … mio?» si indicò il petto con un dito «Okay … io sono Daniel, anche se in realtà non sono inglese o americano. Sono … ebreo» fece un largo sorriso, tendendo le mani come se si aspettasse che a questa rivelazione Melody gli avrebbe ceduto il micetto

«Ebreo?Oh … Ma scusa ebreo di dove?Mica sei un ebreo così campato in aria!Da dove vieni, eh?»

«Io vengo … ahh!» fece un salto indietro, dopo il tentativo di Adolf di morderlo.

«Scusi, signore, ma che le ho fatto io?» piagnucolò Daniel portandosi le mani davanti alla faccia, come se potessero fargli da scudo

«Piccolo, sudicio, brutto, schifoso, inferiore, bastardo, pulcioso, lordo, sporco …» non riusciva a trovare una parola che definisse bene ciò che pensava di quei piccoli e sporchi ebrei, così lasciò la frase ad aleggiare nell’aria, avanzando con fare minaccioso verso il bimbetto

«Ehi!Addy!» lo richiamò Melody, ma quello, come sordo, continuava ad avanzare «Ti caccerai nei guai!Uomo avvisato mezzo salvato!» ma i suoi proverbi e i suoi avvertimenti non valsero a nulla, o perlomeno non fecero in modo che Adolf  non prendesse per il bavero il ragazzino e lo alzasse, con una smorfia di rabbia in faccia. Si sentiva irato, irato con tutti in quella strana nazione in cui si trovava e non riusciva a sfogarsi. Ma adesso si che avrebbe potuto sfogarsi su quel piccolo mero esserino inferiore … Melody faceva sorgere in lui strani istinti protettivi, nonostante non avesse occhi azzurri e capelli biondi, e si sentiva in dovere di istruirla riguardo ai pericoli di mischiarsi con le razze inferiori. I bambini, per lui, andavano istruiti alla diversità sin da piccolissimi … idee che in un paese libero avrebbero fatto non solo scalpore, ma avrebbero suscitato odio nei confronti di chi le ha dette.

Pulizia etnica? Lo avrebbero chiamato razzismo sfrenato e fanatico, una cosa da tagliare, da estirpare alla radice.

«Si-signore!» singhiozzò Daniel, incapace di fare altro che non fosse implorare con le mani giunte “il signore”«L-la pre-prego, signore!» esclamò, disperato,  con le guance già rigate di calde lacrime che gli bagnavano il volto.

Era uno spettacolo che faceva davvero pietà, specie quando il bambino ebreo scoppiò in un pianto straziante che però non intenerì affatto Adolf, ma accrebbe a dismisura il suo disgusto, tanto da spingerlo a picchiare il ragazzino. Lo buttò a terra, poi iniziò a prenderlo a calci, ripetutamente, senza pietà.

Una donna, attirata dai pianti e preoccupata, si affacciò dalla finestra del suo piano, lasciando penzolare nel vuoto i lunghi capelli neri, lucidi e morbidi.

Poi, alla vista di quello spettacolo, i suoi tratti delicati assunsero un’espressione impaurita e corse dentro, correndo e affrettandosi verso il telefono.

Nel frattempo, in strada, Melody continuava a tentare di portare via Hitler dal povero ragazzo che gemeva e piangeva per terra, lanciando brevi urla di dolore «Hitler, non fare il grosso testa di…»

Prima che la bimba potesse completare la frase Adolf le ringhiò contro, voltandosi verso di lei «Lo sapevo che mi avresti prestato attenzione se minacciavo di dirti le parolacce!» sorridendo, la ragazza gli fece la linguaccia

«Brutta…» iniziò, per essere subito dopo interrotto

«Ah ah ah!No, no, no, no! NO! Non si fa Addy!Andiamo via e lascialo stare!» nonostante continuasse a rimproverarlo e a spronarlo ad andarsene, la sua “Vera Melody” continuava a dirle “Lasciagli il tempo di vederlo”

“Vedere chi?” sbottò, esasperata

“Che vedano Adolf”

“Chi dovrebbe vederlo?”

“La polizia!”

“Chi … chi cavolo ha chiamato la polizia?”

Come se la sua Voce Interiore gliela continuasse a indicare, Melody individuò il balcone della palazzina del piano in cui viveva la donna dai capelli neri

“Ci ha visti?”

“Si, ci ha visti”

“E ha chiamato la polizia …”

“Si. Ma adesso ascoltami: devi far vedere Adolf alla polizia”

“Perché?”

“Fai come ti dico. Ti farà diventare ricca”

“RICCA!” urlò mentalmente, eccitata “E dopo che si fa?”

“Scappa con lui. Trovagli un nascondiglio decente e portatelo dietro, aiutalo a sopravvivere in questa grande giungla di metallo e vetro, dove molte sono le insidie e grandi le sven…”

“No!No, non iniziare!”esclamò. Quando la “Vera Lei” stava per prendere quell’aria mistica e la sua voce iniziava a essere di una strana intonazione, le faceva sempre perdere il controllo del suo corpo. L’ultima volta che era successo era stato all’orfanotrofio, ed era impreparata. Il suo corpo, senza più una mente conscia che lo guidava, era caduto come un sacco di patate, e le ci erano voluti molto tempo e fatica per risalire dal suo subconscio, quasi fosse intrappolato in una melma densa e scura. Circa … quattro giorni.

Non era come quando voleva appropriarsene, nel frattempo lei era sveglia e vigile, e finite le sue profezie, gli restituiva il corpo aggiungendo un “grazie” sincero. No … era come se la sua voce fosse un potente sonnifero che faceva assopire la sua conoscenza e la faceva sprofondare nelle sabbie mobili. A volte, aveva paura di non riuscire a risalirne.

Un rumore altalenante e inconfondibile squarciò le sue riflessioni come farebbe una lama affilata con un pezzo di sottile carta. La sirena.

Quella si che la conosceva, eccome!

Eppure non c’era stata una volta sola che la vocina le avesse fatto fare cose che le avrebbero procurato guai. Se far vedere per un attimo Adolf che picchiava il bambino alla polizia equivaleva a essere ricca, tanto valeva diventare miliardaria.

Rimase rigida e Hitler e scattò in piedi, con un brutto presentimento

«È per noi?» chiese, alzando un sopracciglio.

«Ehm…» se glielo avesse detto, sarebbe fuggito?E se non glielo avesse detto, non sarebbe fuggito quando era il momento giusto per filarsela? « Ehm … ni … »

«Cosa? Cos’è “ni”?»

«Ni…è…» voleva prendere tempo, per fare arrivare le forze dell’ordine  «Un modo … per dire che è … un po’ no...» la sirena si spense e il rumore delle portiere si udì nelle strada chiaramente «e … bhè …» passi, passi che venivano verso di loro «un po’…» i passi si avvicinavano. Dall’angolo sbucarono dei poliziotti, con la loro divisa e uno sguardo severo.

Un flash.

«SI!» Melody lo prese per il braccio e lo incitò a correre con un continuo «Dai, dai, dai, dai!».

Filarono per la strada intontiti da alcuni flash che arrivavano all’improvviso.

Lasciò spazio per comandare il corpo alla sua “Vera Sé” che li guidò in un posto sicuro.

Il “posto sicuro” era, teoricamente (anche se Melody stessa ne dubitava), una specie di piccola grotta rocciosa proprio di lato alla prigione. Fu allora che Melody si accorse delle mani di Adolf, macchiate di sangue.

«Che cosa hai fatto?» Gridò «Che cosa hai fatto?»

«Ho ucciso quello stupido gatto dello stupido ebreo» ansimò Hitler, stanco dopo la corsa «Sono riuscito a staccargli la testa prima di venire via».

Quello era senza dubbio pazzo … ma che cosa gli aveva fatto il gattino? 

Quando il bambino aveva lasciato andare il gatto, questi era atterrato sulle zampe e aveva soffiato.

Per qualche strana ragione, questo irritò Hitler molto di più di un bambino ebreo che si comportava da padrone e lo indusse a prendersela con il piccolo animale, rompendogli la spina dorsale e strappandogli la testa in preda ad una furia omicida. Questa sequenza, abbastanza rapida, era avvenuta quando Melody aveva avuto la sua “conversazione interiore”.

Dentro quel dittatore con i baffetti c’era qualcosa di canino, ferale, e i gatti lo risvegliavano irrimediabilmente.

Melody deglutì e guardo l’uomo di fronte a lei

«Tu sei senza dubbio un pazzo spietato. Ma sono quelli come te che riescono a riempirsi di soldi».

  
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