Capitolo 4
“Incontri”
La fitta lancinante dominò istantaneamente i suoi sensi, ma
s’impose di trattenere il minimo lamento. Non avrebbe fornito
a nessuno un ulteriore motivo di scherno.
Sforzandosi di non pensare al dolore, si trovò tuttavia a
considerare che semplicemente questo non
poteva, non doveva accadere
a lui.
Visualizzando con la mente il distensivo orizzonte dei monti e lo
spazio di azione ben meno angusto dei campi della propria terra natale,
Mousse recuperò con rapidità
l’equilibrio che quella maledetta gamba del tavolo gli aveva
fatto perdere pochi attimi prima.
Non gli era rimasto a disposizione il tempo materiale di alzare lo
sguardo ma era cosciente che, cadutigli e frantumatisi gli occhiali
nell’urto, per lui quel gesto sarebbe stato comunque inutile.
Acuì l’udito, invece, e intercettò
l’oscillazione del piatto che stava precipitando nel vuoto.
Distribuì il peso sulle ginocchia ancora inarcate a terra e
allungò il braccio che aveva a minor distanza: infine, con
una presa sicura afferrò all’ultimo proverbiale
secondo contenitore e contenuto, certo di non aver rovesciato nemmeno
una goccia di brodo né alcun pezzo di carne o verdura.
Ciò non fu sufficiente a evitargli un accenno divertito di
applauso da parte di uno dei clienti del suo tavolo e, ancora peggio,
diverse risatine dei consumatori dei tavoli vicini. Mousse si
levò lentamente in posizione eretta, questa volta non
ignorando affatto il dolore del ginocchio, che non voleva saperne di
placarsi. Conscio di aver deformato i lineamenti del viso in una
smorfia di insofferenza, non se ne curò e mantenendo
quell’espressione servì la pietanza ancora calda
al tizio che l’aveva applaudito, senza badare se si trattasse
o no della stessa persona che aveva ordinato i ramen in brodo.
Raccolse da terra i resti delle stanghette, estrasse dalle maniche
della veste l’ennesimo nuovo paio di occhiali e, infilati
attentamente, tornò sui propri passi. No. Questo non doveva
accadere a lui.
Lui non era come quei ragazzini che affollavano il locale. Tra la sua
gente, lui era il fiero Mousse – Mu
Si, accidenti, Mu
Si! Possibile
che si stesse abituando a quella ridicola pronuncia?! – ed
era un artista marziale. Inciampare di per sé era lecito,
anche senza che la sua miopia dovesse in qualche modo giustificarlo: ma
raggomitolarsi, carambolare sulle proprie ginocchia, perdere in un modo
così goffo la padronanza del suo corpo, ciò non
gli era concesso. Non doveva succedergli una cosa del genere, tra
l’altro per un incidente talmente stupido.
Di tanto in tanto, avvertiva la terribile sensazione che molta gente
cenasse al Nekohanten apposta per vedere lui: osservarlo dare
spettacolo di sé, ridere della sua ennesima umiliazione. Era
una cosa impossibile, lo ammoniva con prontezza la voce della ragione,
eppure non poteva evitare di perdersi in simili fantasticherie.
Anche adesso qualche ulteriore risatina s’insinuò
nelle sue orecchie, e non fu in grado di constatare se fosse reale o
solo frutto del proprio nervosismo. Giunto davanti alla cucina, per
poco non mancò la porta nonostante l’avesse vista
benissimo. La vecchia mummia non dimostrò di essersene
accorta e gli lanciò tra le mani una nuova pila di piatti e
tazzine con la solita agilità.
Non era colpa sua, si giustificò senza aprire bocca. Lui,
appunto, era un artista marziale, non uno sguattero tuttofare o, come
si stava improvvisando in quel momento, un cameriere. E poi
quest’ultima, in tanti mesi, non aveva mai fatto parte delle
proprie mansioni. Il suo era un arrangiarsi come meglio poteva.
La vecchia tossì rumorosamente.
“Come puoi vedere,
l’ultimo vassoio che ti ho dato è chawanmushi.”
Gli disse. “Se cadi di nuovo, la crema bollente non ti
consentirà di essere fortunato come prima.”
Lui non ribatté nulla, ma si avviò.
Quella dannata megera! Allora non le era sfuggito alcun particolare! Mu
Si non comprendeva come avesse fatto: forse tra le sue innumerevoli
abilità c’era quella di guardare attraverso i
muri, anche se si meravigliava che quella strega ultracentenaria i muri
non li trapassasse già da tempo sotto forma di fantasma.
Ora basta, calmati un maledetto istante,
s’impose con la poca lucidità che gli era rimasta.
Non aveva senso prendersela con la vecchia, che dopotutto non lo aveva
né rimproverato, né deriso apertamente. La
verità, confessò Mu Si, era che ce
l’aveva con se stesso.
Non gli era mai importato del giudizio degli altri, non gli era mai
importato del mondo. Shan Pu era il suo mondo e ciò gli
bastava. Tuttavia senza di lei – con quel saperla tanto
lontana – era costretto a percepire anche il
resto… e di conseguenza la propria solitudine. E
l’assenza di Shan Pu era unicamente colpa sua.
Rientrò nella sala principale del ristorante e, tenendo
piatti e tazzine con entrambe le braccia, lui che avrebbe potuto
reggerli in equilibrio tutti insieme in pila con la pressione del solo
dito mignolo, si sforzò di concentrarsi per non provocare il
disastro predetto dalla vecchia.
Dopo pochi secondi, fu costretto ad ammettere che non era
così facile. Non erano certo i suoi riflessi a essersi
appannati, in quell’ultimo periodo. Semplicemente, come in
questo preciso momento, gli si sovrapponevano in continuazione le
immagini della donna amata, e con tutti gli occhiali non vedeva
più altro.
Quando sarebbe tornata dal loro villaggio in Cina? Contava i giorni, le
ore, i minuti, in attesa del suo arrivo o di una telefonata o almeno
una risposta alle lettere che le scriveva quotidianamente. E si era
rimproverato un’infinità di volte per non aver
mostrato maggiore coraggio ed esserle rimasto accanto, in un momento
per lei così doloroso. Naturalmente Shan Pu, da parte sua,
l’aveva mandato via senza esitazioni e a male parole,
urlandogli che uno stupido papero come lui sarebbe stato buono
solamente come manodopera al Nekohanten. Forse avrebbe potuto
ribatterle qualcosa.
Invece si era lasciato sconfiggere, per l’ennesima volta, dal
suo sguardo.
O forse si era solo messo nei suoi panni per un istante.
Cos’avrebbe fatto Mu Si se a Jusendo avesse visto morire ad
esempio… Ranma Saotome, per poi assistere impotente alle
lacrime di disperazione di una Shan Pu che supplicava invano il suo
consorte di tornare da lei? Non riuscendo a trovare risposta a una
simile domanda, ma lasciandosi sopraffare dal dolore che quella sola
idea gli comportava, l’aveva lasciata andare. Suo padre e le
amazzoni amiche d’infanzia avrebbero potuto confortarla come
lui non sarebbe mai stato in grado di fare, si era detto.
Eppure, adesso, si sentiva solamente un povero idiota.
Certo che… Shan Pu avrebbe potuto comunque farsi viva. Non
necessariamente per lui. Almeno una telefonata per rassicurare la
propria bisnonna, no? Non che la vecchia paresse minimamente in ansia
per la parente più stretta che le era rimasta.
C’era qualcosa di strano, qualcosa che…
Un fracasso assordante di piatti frantumati riscosse
l’attenzione di Mousse,
che finalmente realizzò di essersi di nuovo estraniato dalla
realtà. Si arrestò e
s’irrigidì, consapevole di aver dato ancora
spettacolo e di essersi appena guadagnato qualche ora notturna di
straordinari.
Deglutendo nervosamente e aprendo le palpebre, vide tuttavia davanti a
sé gli stessi piatti e tazze che stava reggendo fino a
qualche momento prima. Allargò lo sguardo e
individuò la vera fonte del frastuono.
“Scu-scusatemi! Sono desolato! Davvero!”
Rantolò una voce maschile, ma acuta e spaurita, mentre il
corpo da cui proveniva si prodigava in inchini e gesticolii vari.
Mu Si sospirò, sollevato. C’era ancora qualcuno
più imbranato di lui. E che gli aveva indubbiamente rubato
la scena per il resto di quella serata.
Posò il suo carico e si avvicinò al tavolo
incriminato, dove non era rimasta più nemmeno la tovaglia:
il cliente, in piedi, ne stringeva addirittura in mano un lembo, segno
che probabilmente si era alzato dalla sedia trascinandola con
sé in uno dei gesti più maldestri che potesse
concepire, rovesciando ogni piatto e posata. Era una fortuna che non si
fosse rovesciato lo stesso tavolo.
“Mi dispiace! Mi dispiace!” Ripeté il
ragazzo, rivolgendo ora gli inchini verso di lui.
Mu Si lo scrutò rapidamente. A destare il suo interesse
furono gli occhiali che indossava, dalle lenti molto spesse e che gli
permisero di immedesimarsi in quel poveretto.
“Non fa nulla, non si preoccupi. Ci penso io.” Gli
disse, cercando di nascondere uno strano sentimento di simpatia mista a
gratitudine e considerando di dover prendere scopa e paletta. Corse nel
ripostiglio, dove nella foga urtò, proprio con il ginocchio
dolorante, quelle dannate damigiane che la vecchia non voleva decidersi
a buttare – a cosa servivano più, adesso?
– prima di trovare ciò che cercava. Non fece
però in tempo a richiudere la porta che un altro frastuono
lo richiamò nel salone.
“Io… n-non so come sia potuto accadere!”
Balbettò il brunetto. “Volevo aiutare a
raccogliere i cocci ma… n-non so come, temo di aver dato una
gomitata a quella bottiglia e…”
“Le avevo detto che qui ci avrei pensato io!” Lo
interruppe. Mu Si fissò di sfuggita l’abito ora
del tutto macchiato e i lunghi capelli scompigliati. “Adesso
si sieda a quel tavolo ancora libero e mi lasci fare. Anzi, prima vada
in bagno a ripulirsi, non vede come si è conciato? La prima
porta sulla destra.”
“G-grazie mill…” Il nuovo inchino del
cliente, pericolosamente vicino, si tradusse in una violenta capocciata
tra i due. Mu Si, il cui umore era nuovamente peggiorato,
bofonchiò alcuni improperi in madrelingua, mentre
l’altro ricominciava a scusarsi.
Nuove risate si diffusero per il locale. Con la coda
dell’occhio, poté scorgere perfino la vecchia
mummia affacciarsi e sogghignare assai divertita.
Trattenne a stento un risolino nervoso. Molto nervoso.
Proprio quell’idiota. E proprio adesso.
Avrebbe voluto evitare di affrontarlo, ma era stato Tatewaki a deviare
per primo dal suo cammino, parandosi davanti a lui sotto la luce
altalenante di un lampione mezzo guasto e cominciando a scrutarlo con
occhi penetranti ma oscuri.
Ranma non si era ribellato subito, in quanto l’irritazione
dovuta al fatto di trovare un ostacolo alquanto indesiderato sulla
propria strada era superata dal disagio che lo sguardo gli procurava. A
quello di Kuno si sovrapposero in rapida successione molti altri volti.
Papà e Ucchan e sua madre e il signor Tendo e Nabiki e
Kasumi. Tutti. Perché lo fissavano sempre in quel modo?!
(“Non sono… no… Stupida! Non
sono… come…!”)
Si scosse e si decise finalmente a distanziarlo, ma Tatewaki si
frappose ancora, sguainando verso di lui l’immancabile arma:
non il solito bokken di
legno, esaminò rapidamente Ranma, ma una katana con
l’elsa, identica a quella che sua madre portava
incessantemente con sé.
Non che ciò cambiasse qualcosa. Ranma piantò
saldamente i piedi per terra e accennò la posizione da
combattimento imminente. Questo era il
linguaggio che preferiva.
Eppure ancora non gli bastava. Mancava la scusa che gli consentisse di
sfogarsi su Kuno, di scaricare su di lui almeno un poco della sua
rabbia. Conoscendo il suo opponente, non sarebbe stato così
difficile trovarla. Ma un filo di provocazione non avrebbe comunque
guastato.
“Allora… si può sapere che diamine
vuoi, senpai?! Avanti, parla, prima che sia costretto a darti la solita
lezione!” Gli disse fiero e sprezzante come non si sentiva da
tempo, e forse a dirla tutta nemmeno in quel momento.
Kuno, con sua grande sorpresa, non si scagliò contro di lui
farneticando le solite sciocchezze. Si limitò ad annuire,
riponendo lentamente l’arma.
Poi, sorrise.
E, no, Ranma non si aspettava nemmeno questo.
Infine, come se avesse avvertito la sua confusione, si decise ad aprir
bocca.
“Gli spiriti non interrogano, vanno interrogati.”
Disse con calma, quasi che per assurdo si trattasse di una spiegazione
scontata ma inevitabile. “E io mi sto semplicemente
esercitando, Saotome Ranma, nell’attesa di raggiungere il
luogo dove l’amata Akane mi ha dato testé
appuntamento, attendendo struggente il mio arrivo.”
Sentendo quel nome, Ranma sussultò.
“Vuoi dire che… l’hai
vista? L’hai incontrata? Le hai
parlato?!”
Tatewaki non si scompose.
“Naturalmente. L’ho vista. L’ho
incontrata. Le ho parlato.” Confermò.
“Ella viene da me tutte le notti, ogni qualvolta chiudo le
palpebre. L’adorato angelo con il codino
l’accompagna… ed entrambe consolano la mia
mestizia assicurandomi che la forza del nostro amore
riuscirà infine a sconfiggere anche questo Fato sadico e
crudele. Esso ci ha divisi, ma non si tratta che di una separazione
temporanea. Solo un’ultima prova,
che il nostro indissolubile legame riuscirà a superare senza
tema alcuna.”
Tatewaki proseguì, ma Ranma non lo ascoltava più.
Dopo le prime parole aveva già compreso. Per pura
associazione di idee ricordò che Nabiki aveva recentemente
cercato di stuzzicarlo, facendogli notare la strana similitudine:
ostinandosi a ‘marinare’ la scuola da ormai diversi
giorni si stava comportando proprio come Kuno, che non si vedeva
più in giro da altrettanto tempo. Voleva per caso essere
come lui?
(“Stupida! Non sono… come…!
Io non sono… come lui!”)
Sentì il respiro farsi sempre più difficile. Il
cuore gli pulsava forte e d’un tratto aveva perso ogni voglia
di combattere. Avverti un bisogno più urgente di andar via:
da qualunque altra parte e dove fosse finalmente in grado di
raccogliere fiato. Senza dire niente si girò e
accennò una rincorsa, per poi balzare via.
Tuttavia, prima che potesse spiccare il primo salto, la voce sicura di
Tatewaki dietro di lui pronunciò: “Ricordati,
Saotome Ranma… ‘Come
il sole se ne va passeggiando per il mondo, e non
c’è luogo dove non risplenda’.”
Per qualche assurdo motivo udì nitidamente ogni singola
parola. Qualcosa dentro di lui lo portò a bloccarsi e a
voltarsi ancora in direzione del cono di luce del lampione. Ma Kuno era
svanito nuovamente nell’ombra, né Ranma ne
avvertiva più la presenza.
Si domandò se non avesse commesso un errore a perderlo di
vista, ridotto in quelle condizioni così pietose perfino per
i suoi canoni. Scacciò quel dubbio. Sapeva soltanto che, con
la scomparsa del suo senpai, si era sentito subito più
rilassato. Piuttosto, in una sorta di esercizio mentale, volle
ripetersi un paio di volte l’ultima frase e provare ad
afferrarne il significato, ma non vi riuscì.
Pochi secondi più tardi, ogni più piccola traccia
di quelle parole si era dissolta completamente dalla sua memoria.
Balzando di tetto in tetto, e assaporando l’aria fresca che
gli schiaffeggiava la pelle, si lasciava inebriare dal movimento e
riusciva quasi a non pensare.
Tuttavia quella sensazione non era sufficiente. Il sollievo del pianto
della notte precedente aveva ormai esaurito del tutto il proprio
effetto. Aveva bisogno al più presto di trovare
un’altra via di sfogo, o sapeva che sarebbe sicuramente
scoppiato.
Era in ansia.
Era abituata a quella sensazione: ci aveva convissuto giorno dopo
giorno fin da quando Genma le aveva portato via il suo unico figlio.
Gli anni le avevano insegnato solamente a quietarla, a chiuderla in un
cantuccio del proprio cuore, a celarne i segni esteriori davanti alle
altre persone. E ad accettarla. Dopotutto sapeva benissimo a cosa
andasse incontro, sposando un artista marziale.
Tuttavia, esserci abituata non voleva dire che non la facesse
più soffrire.
E se fino a pochi mesi prima la coscienza che Ranma e Genma fossero
irraggiungibili, e che lei non avrebbe dovuto vanificare in alcun modo
il loro sacrificio,
riusciva in qualche modo a consolarla e a rasserenarla, il fatto di
essersi finalmente ricongiunta al proprio bambino le toglieva anche
questo.
Perché non avrebbe mai sopportato il pensiero di aver
ritrovato suo figlio per poi perderlo di nuovo.
“Zia Nodoka, vuole che moderiamo un poco il passo?”
Si accorse di essere rimasta un po’ indietro e sorrise
benevola a Kasumi, che si era gentilmente fermata ad aspettarla.
“Ti ringrazio, cara, ma non è il caso.”
Nodoka chinò educatamente il capo in segno di riconoscenza.
“Mi ero semplicemente distratta, ma non è un
problema per me andare più veloce. Dopotutto sono la moglie
di un artista marziale.”
Inoltre, annotò mentalmente, a quest’ora gli altri
gruppetti dovevano aver già raggiunto il punto di ritrovo e
Nodoka sperava fervidamente che le loro ricerche avessero dato miglior
esito. In ogni caso, convenne che Nabiki aveva avuto una buona idea
proponendo loro di dividersi. Il signor Tendo e il dottor Tofu avevano
indubbiamente la possibilità di setacciare le porzioni
più ampie del vicinato, e non era saggio rallentarli.
Accelerò l’andatura e riprese a gridare con Kasumi
il nome di Ranma. Si sentiva in realtà un poco affaticata,
ma non era nulla in confronto al vero affanno che le stringeva il
petto. Pensò per la prima volta di aver fatto bene a
lasciare a casa la katana di famiglia, che l’avrebbe soltanto
intralciata ulteriormente: e poi erano finiti i tempi in cui avrebbe
considerato poco
virile la
fuga di suo figlio.
Già la notte scorsa, vedendolo entrare in quello stato nella
sua stanza da letto – dopo averne messo a soqquadro almeno la
metà, a giudicare dai rumori, mentre cercava
l’interruttore – aveva smesso di pensare ai
giuramenti, all’onore e al seppuku.
Ora tutto quel che desiderava era riaverlo indietro.
Era giunta quasi la mezzanotte quando una colonna di luce
rischiarò il cielo come se fosse pieno giorno. La fissarono
in silenzio per diversi secondi, affascinati e spaventati al tempo
stesso da quel fenomeno tanto inusuale. Per lui, in particolare: era la
prima volta che vi assisteva di persona. Il fragore tardivo della
violenta detonazione li riscosse, facendo tentennare per un attimo le
loro posture erette sul cornicione.
Tofu provò a passare rapidamente in rassegna ciò
che ricordava di quella tecnica. La memoria gli restituì
allora, in modo incredibilmente vivido, lo stupore che
l’aveva assalito e turbato nel momento in cui aveva scoperto
che dietro quel colpo letale non si celavano segreti di antichi
guerrieri, arti millenarie levigate dalle generazioni e perdute nel
flusso della storia. La realtà era molto meno romantica:
l’origine di tutto andava rintracciata nell’istinto
di sopravvivenza di umili operai costretti a lottare contro la terra e
contro la roccia per la vita stessa.
All’epoca era solo un ragazzino che studiava con impegno ma
non sapeva ancora cosa avrebbe fatto della sua vita. Tuttavia, quel
giorno, l’insegnante e le figure ingiallite di tomi consunti
dal tempo non erano riusciti a tranquillizzarlo.
Un interrogativo sottile quanto subdolo si era insinuato nel suo animo,
e Tofu, non riuscendo in alcun modo a scacciarlo da sé, si
era trovato per la prima volta a interrompere la spiegazione del
vecchio maestro e a esprimerlo a voce.
Come poteva un simile potere, gli aveva domandato, essersi trovato a
disposizione di mani tanto ingenue e ignoranti? Cosa avrebbe impedito
loro di finire per abusarne? Tofu si era arrestato, acquistando a poco
a poco consapevolezza della propria mancanza di rispetto. Ma
inaspettatamente il maestro non si era adirato.
L’aveva guardato con aria mansueta e comprensiva, per poi
rispondere al suo dubbio con fare calmo e insieme estremamente serio.
Tofu non avrebbe mai più scordato quelle parole.
“Giovane Ono”, gli aveva
detto, “nessun essere umano è a priori
adatto o inadatto a un potere più grande di lui. Anche un
guerriero disarmato, in un moto di collera, potrebbe abusare della
propria mano chiusa a pugno per far male all’amico a lui
sommamente caro. Per questo, lo studio delle arti marziali è
innanzitutto una continua disciplina di autocontrollo, un percorso che
guida a una progressiva presa di coscienza della propria forza e dei
propri limiti, e del dovere di imporsi questi ultimi. Oggi tu hai
compiuto il primo passo verso quel sentiero.”
Tuttavia, non avrebbe proseguito a lungo detto cammino. Quel giorno,
forse, aveva costituito un crocevia: la paura di non saper gestire una
simile responsabilità era stata più forte di lui,
e il desiderio di usare le sue conoscenze soprattutto a fin di bene
aveva indirizzato infine i suoi sforzi verso lo studio delle pratiche
terapeutiche.
Adesso, Tofu stava probabilmente assistendo alla realizzazione dei suoi
timori. Non ultimo, il fatto che dopo anni avrebbe forse dovuto tornare
a far ricorso alle arti marziali, per impedire il verificarsi di
conseguenze ancora più gravi.
Lo studio delle arti marziali è una continua
disciplina di autocontrollo… invece
quell’aura…
Il panorama era tornato ad ammantarsi di oscurità. Diversi
allarmi delle automobili del vicinato squillarono
all’unisono, presto accompagnati da numerosi latrati. Questi
suoni riscossero sia Tofu sia il suo vicino, riportandoli
definitivamente al mondo reale ma confermando anche che
l’esplosione di prima non era frutto della loro immaginazione.
Si fissarono negli occhi e, avvertendo la propria bocca
inaspettatamente asciutta, lasciò che Soun parlasse per
primo.
“Era lo Shishi
Hokodan.” La sua non era una domanda.
“Dunque si tratta di Ryoga.”
Ono si aggiustò gli occhiali, prima di scuotere la testa e
ritrovare un po’ di salivazione.
“Oppure di Ranma.” Si decise infine a precisare.
“Allora, ci avviamo?”