Fictional Dream © 2006 (4 luglio 2006)
I L’Arc~en~ciel (nella prima formazione major, Tetsuya Ogawa,
Ken Kitamura, Hideto Takarai e Yasunori Sakurazawa, poi Yukihiro Awaji in luogo
di quest’ultimo) sono uno dei più celebri gruppi di musica rock-pop giapponese.
L’autrice non intrattiene con i succitati artisti alcuna
relazione di tipo economico-collaborativo.
Questo testo narra eventi di pura fantasia, destinati al
diletto ed all’intrattenimento di altri fans: non persegue alcun intento
diffamatorio (né pretende di dare informazioni veritiere sulle persone di cui
tratta) o finalità lucrativa.
Nessuna violazione dei diritti legalmente tutelati in merito alla musica ed alla
personalità degli artisti succitati si ritiene intesa.
L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright
dell’autrice (Callie Stephanides - http://fictionaldream.iobloggo.com). Non ne è ammessa
altrove la citazione totale né parziale, a meno che non sia stata autorizzata
dalla stessa tramite permesso scritto.
*****
L’aveva conosciuta ai tempi dell’Iwaki. La chiamava senpai,
perché aveva tre o quattro anni più del ventenne sconclusionato che era. Nessuno
avrebbe detto fosse bella: aveva un viso largo e occhi piccoli. L’unica nota
davvero attraente di quel viso anonimo era il sorriso. Per questo forse, senza
ascoltare davvero nessuno, Hideto aveva deciso di innamorarsene.
Aveva vent’anni, ma se non avesse esibito – a tratti con uno
scatto violento e rabbia evidente – la propria patente, nessuno gli avrebbe
forse permesso di lavorare, perché a Wakayama, Kansai, vive gente di campagna e
sani principi. Nessuno accetta studentesse delle scuole medie con occhi da
rubarti l’anima. Aveva vent’anni, i capelli lunghi di un nero intenso, mani da
bambola e l’aria svanita. Voleva fare il chitarrista e smettere così di sentirsi
un piccolo animaletto buffo da tenere al riparo di una teca. Sul momento poteva
accontentarsi di tutto, purché non implicasse avere a che fare con pensionati e
ciambelle, oppure impilare CD sulla scaffalatura più alta, perché non era
piacevole fare quotidianamente i conti con un mondo fuori misura.
Hideto era davvero timido, ma in un suo modo personalissimo.
Forse aveva paura del giudizio degli altri, perché gli arrivava sempre da un
punto molto più in alto del suo orizzonte. Sapeva di essere troppo ingenuo, a
tratti, per non sembrare stupido. Troppo spontaneo per non essere vulnerabile.
Troppo ignorante – della vita e del mondo e pure culturalmente parlando – per
non sembrare scemo. Era timido e dunque taceva per buona parte del tempo. Poi,
se ritrovava gli amici di una vita – ragazzi come lui, con cui aveva scorrazzato
in bicicletta dai tempi della Kawanishi, pattinato o campeggiato sotto le stelle
–scoprivi che era un pagliaccio, che sapeva rendersi irresistibile e che era
forse la persona più carina in cui ti fossi mai imbattuto, oltre le regole e gli
stereotipi, non solo nell’aspetto.
Hideto non aveva paura di farsi toccare, anzi, s’era lui a
vederti triste o abbattuto oppure felice, era il primo che ti stringeva, con
quelle braccia da bambino e forti come quelle dell’uomo che stava diventando. Se
era arrabbiato o deluso o stanco o offeso, invece, cominciava a strepitare di
non toccarlo. Aveva un modo di leggere i rapporti fondato su sensi che un
giapponese a modo sacrifica sempre all’educazione: il tatto, prima di tutto.
Forse Hideto Takarai non era un ragazzo perfetto o un modello di stile, però
sapeva rendersi unico e irresistibile con una tale evidenza ch’era impossibile
ignorarlo davvero.
Aveva un viso bellissimo, malgrado le piccole cicatrici che
dalla mascella s’intrecciavano sotto il mento. Lo sguardo obliquo e un po’
sfocato dei miopi che non vogliono arrendersi all’onta degli occhiali. Sorrisi
spontanei, abbaglianti. Eppure non aveva mai trovato il modo di sentirsi bello,
perché nessuna delle cotte che si era concesso come ogni adolescente era andata
davvero a buon fine. Pensava di non piacere alle ragazze. Forse non piaceva
soprattutto a se stesso. La verità era fosse troppo piccolo e carino perché lo
prendessero sul serio. Aveva qualche amica, ma nessuna, a dir la verità, aveva
mai provato nei suoi confronti qualcosa in più di una dolce tenerezza. Sì, era
bello accarezzargli i capelli, pattinargli accanto, ascoltarlo suonare, ma
Hideto era Hideto. Non era un ragazzo come gli altri.
Hideto aveva vent’anni e nello specchio trovava solo un
giapponese troppo basso, non la risposta a quella sua strana aura, così
attraente da lasciarlo però irrimediabilmente solo. Così, quando quella
senpai che bella non era, se non nel sorriso, cominciò a salutarlo ogni
mattina, mentre scivolava in volata sulla propria bicicletta – una mano sola,
perché l’altra gli serviva per fumare – lungo la via principale di Wakayama, un
giovane cuore cominciò a battere più forte.
Hideto era molto attratto dalla bellezza, ma la intendeva a
modo suo. Quel sorriso radioso su un viso pulito e semplice rappresentava quanto
di più vicino assimilasse a un ideale, forse perché somigliava a sua madre, e
Hideto sapeva che oltre l’Apple era difficile trovare autentica serenità.
Lavorava in uno store a meno di un blocco dall’Iwaki. A volte
si incontravano per la pausa di mezzogiorno. Hideto non tornava più a casa e si
faceva durare la cherokee tra le dita, mentre passeggiava lungo la Burakuri Tei,
senza curarsi d’essere tanto scoperto nei suoi sentimenti da sembrare ridicolo.
Non era il tipo da curarsene; aveva più paura del silenzio e di quanto restava
inespresso, non di voler bene.
Per un poco anche la musica passò in secondo piano, e Pero,
che lo conosceva abbastanza da sapere con quanta intensità vivesse le proprie
passioni, senza saper distinguere tra un falò e un incendio, più di una volta
l’aveva richiamato all’ordine. Era il leader dei Kiddies Bombs, in fin
dei conti, un gruppo che perdeva pezzi con regolarità inquietante e che non
voleva saperne di occupare un posticino al sole neppure tra le indie più
periferiche.
Hideto sapeva ch’era colpa sua, perché non possedeva la
freddezza e il cinismo con cui la concorrenza gli soffiava i musicisti migliori
e i locali più in vista. Poteva lavorare durissimo e impegnarsi come un operaio
in quel che faceva, ma non aveva la mentalità dello stratega; al dunque era il
primo a scoraggiarsi e a cercare un minimo di sostegno in chi aveva accanto: era
sempre stato troppo coccolato per stringere gli altri nell’abbraccio della
sicurezza, insomma. E poi, a dirla tutta, gli ridevano in faccia come apriva
bocca, e il suo timbro tenorile, greve di inflessioni dialettali, sembrava lo
scherzo divertito di una piccola fata tutta occhi e capelli. Non demordeva
perché voleva dare una lezione a chi lo guardava troppo per non vederlo affatto,
forse persino a quei genitori che gli avevano voluto sempre bene, ma che
sembravano i primi a non riconoscergli la virilità che portava tra le gambe e
nel cuore.
Lei, con il suo sorriso aperto, era una piccola luce in
giorni grigi, deposti l’uno sull’altro in un tetro castello di mediocrità. Anche
la vita poteva essere daltonica, si era detto, non meno dei suoi occhi: delle
mille luci che aveva sognato restavano appena i faretti del terzo piano.
Al Wood Rock vendeva chitarre che avrebbe voluto suonare sino
a farsi sanguinare i polpastrelli, a musicisti d’ogni caratura che gli
rifilavano appena un’occhiata sbilenca, quando descriveva un modello o proponeva
un pezzo conveniente. Probabilmente pensavano qualcosa sul genere: ‘Che può
saperne una ragazzina di come si suona il rock?’ con quella superficialità
offensiva con cui tante volte era stato liquidato. Poi, in un giorno di tarda
primavera, lei era passata a trovarlo.
Un regalo, aveva detto.
Hideto aveva annuito, pensando piuttosto che il dono
spettasse a lui, e gliel’avesse mandato il Dio in cui non credeva affatto, pur
scimmiottandone il Figlio in quello stile un po’ hippy e un po’ profetico che
faceva disperare suo padre, le rare volte in cui le loro strade s’intrecciavano
ancora. Non aveva avuto il coraggio di parlare abbastanza da rendersi
interessante, ma una piccola idea per rivederla, be’: quella sì.
Nel pacco essenziale che le aveva confezionato – sperando
quei tabs non fossero per un fidanzato molto kakkoi e troppo geloso
persino per il suo alto dan - c’era anche la locandina che invitava ad ascoltare
quattro sconosciuti, in una piccola live house da sabato sera. L’aveva
disegnata per proprio conto, sfruttando uno dei pochi talenti che sapeva di
avere – ma monco e imperfetto come tutto, del resto.
Anche se non avesse compreso e accolto, poteva consolarsi
pensando di averle lasciato qualcosa di sé: un’esca. Poteva sempre darsi
scegliesse di abboccare.
Il locale era semivuoto, il vocalist aveva steccato più del
previsto e anche i suoi riff non erano bastati a riempire il vuoto
dell’ispirazione. L’unico elemento valido restava Pero, che non poteva
escludere, prima o poi, accettasse l’offerta di un gruppo decente, perché
l’amicizia non giustificava il permanere stagnante in una fossa da ranocchi.
Non era stata una buona serata: poteva solo sperare che la
senpai non avesse accettato il suo invito, rendendo l’indifferenza, una
volta tanto, vantaggiosa. Invece c’era, e si era divertita abbastanza da
regalargli uno dei suoi sorrisi così belli da sciogliergli il cuore.
‘Anche mio fratello suona la chitarra,’ gli aveva
detto con molta semplicità – senza sapere di averlo liberato dal fantasma della
gelosia che lo perseguitava dal giorno dell’incontro all’Iwaki. ‘Sei bravo.’
Non era vero, ma per una volta era quasi comodo crederci e
solleticare l’ego con una bugia che poteva somigliare a un complimento gentile.
Se una ragazza te ne fa, del resto, non deve essere del tutto
senza un perché.
Si erano visti ancora. I Kiddies avevano cambiato
vocalist una quantità infinita di volte, ma la senpai sembrava quasi non
accorgersene: era sempre lì in prima fila. Alla fine, prendendo il suo coraggio
da coniglietto a due mani, Hideto gliel’aveva chiesto, le aveva domandato
obliquo e maldestro da dove nascesse tanta assiduità. E lei, sporgendosi sino a
baciargli la fronte, gli aveva sussurrato che aveva un debole per i chitarristi.
Poi, sorridendo in quel suo modo speciale, gli aveva pure confessato che dalla
prima fila riusciva a vederlo meglio.
La senpai, nei fatti, lo staccava di almeno dieci
centimetri, un po’ come ogni donna che sarebbe entrata nella sua vita. Hideto,
però, non lo sapeva, perché era troppo impegnato ad abbassare lo sguardo e ad
arrossire sotto il suo brutto trucco di scena per sentirsi imbarazzato da quella
sproporzione forse un po’ grottesca.
Lo trovava carino. Forse era persino ricambiato e non ci
sarebbero più stati San Valentino con il cuore al gelo e un vago rimpianto per
un kawaii che non portava cioccolata.
Si erano trasferiti a Osaka, in un brutto blocco quasi
periferico, ma non era importante. Aveva rassicurato i suoi genitori con tutto
l’orgoglio del pulcino che lascia il nido; in fin dei conti, poi, era a un’ora
scarsa di treno, non in un altro mondo.
Aveva continuato a fare il chitarrista e il leader maldestro
di un gruppo di scartine, finché anche l’ultimo vocalist non aveva piantato in
asso i Kiddies e Pero l’aveva fissato con l’intensità di chi pone davanti
ad un bivio.
‘A questo punto ci troviamo un altro chitarrista e canti
tu!’ gli aveva detto con un tono tanto brutale quanto insindacabile. Aveva
quasi inghiottito la cherokee sul momento, mentre lei rideva e gli
raccoglieva i capelli sulle tempie.
‘Perché no? Hai una bella voce,’ gli aveva sussurrato
incoraggiante. Era difficile spiegare a quel punto che avrebbe dovuto rinunciare
persino all’unica cosa cui si legava un po’ del suo orgoglio di musicista; non
era mai stato bravo a prendere decisioni. Soprattutto, poi, si fidava di lei.
Era un portafortuna, un’amica, una mamma: tiravano la cinghia con quello che
guadagnava e gli introiti – magri – del gruppo. Hideto pensava che quella, in
fondo, era proprio la via che avevano percorso anche i suoi genitori, dunque
doveva essere il sentiero che portava al Paradiso.
Non gli importava ancora essere ricco, gli bastava sentirsi
meno solo. La senpai gli ritoccava il trucco e gli acconciava i capelli.
Davanti allo specchio c’erano spesso due donne, solo che la più bella aveva la
voce da tenore e l’aria svanita e perplessa insieme.
‘Saresti stato una ragazza bellissima,’ gli diceva
sempre, con un tono che sapeva di malinconia e di orgoglio insieme.
‘È quello che mi ha sempre detto mia madre,’ replicava
con una smorfia e accendeva una cherokee. I Jerusarem’s Road, però,
malgrado la sua disastrosa incompetenza organizzativa, stavano andando bene. Era
difficile credere alla sostanza dei fatti: era merito suo, della sua voce, del
suo corpo, del suo stile. Merito di Hideto. No. Merito di haido, la donna-uomo
che costruiva con l’altra metà del suo cuore in un brutto camerino.
A volte, quando la domenica pomeriggio, ancora caldo di
sonno, si volgeva nella sua direzione per abbracciare l’ombra di un’assenza in
un futon ormai gelido, sapeva già di potersi aspettare qualche regalo spontaneo
e grottesco insieme, per quel fantasma che nasceva sulla sua pelle e, poco a
poco, si fondeva con lo scheletro da passero di uno come tanti. Per trasformarlo
in un’icona perversa.
‘Ti ho trovato un nuovo fermaglio-un nuovo ciondolo-nuovi
orecchini-una maglia aderente.’
A tratti aveva come l’impressione d’aver smesso d’essere il
suo ragazzo per diventare la sua bambola. Persino mentre facevano l’amore, a dir
la verità, Hideto si masturbava piuttosto con il germe del rimpianto e del
dubbio. Non aveva più vent’anni – ne aveva quasi ventidue – non aveva smesso di
amare il sorriso di lei, ma si sentiva di nuovo sbilanciato e fuori
fuoco, privo di equilibrio come in troppi momenti di una vita segnata da
orizzonti daltonici.
Forse era haido che gli toglieva la terra da sotto i suoi
piedi, facendolo volare troppo in alto per un giapponese basso e senza ali. Non
così sul palco, e cominciava a capirlo.
Lei, in prima fila, sorrideva e forse ne soffriva. C’era
qualcosa di artificiale a tratti nelle sue labbra e persino nelle sue scelte,
come se partecipare dei suoi successi fosse un modo per chiedergli di non
abbandonarla, quando la porta del sogno l’avrebbe inghiottito del tutto. Amava
l’haido che aveva concorso a costruire, ma rimpiangeva forse Hideto, il
chitarrista e il commesso basso dell’Iwaki che si lasciava bruciare una cherokee
tra le dita pur di avere una scusa per vederla.
Non ne parlava, però, forse perché era tutto sotto controllo.
I Jerusarem’s Road avevano qualche fan degno di essere
chiamato tale; voci anonime dicevano che c’era pure un pezzo grosso della scena
underground interessato a lui, alle potenzialità del suo timbro e al suo
incredibile senso scenico, ma Hideto, una volta che riponeva con il trucco di
scena il suo haido, tornava il ragazzetto di Wakayama che sognava in piccolo e
desiderava la cioccolata per san Valentino. Per questo, però, quando il destino
aveva bussato alla sua porta per reclutarlo, quasi non se n’era accorto. La
senpai non c’era quella sera: un turno imprevisto nel negozio in cui
lavorava, perché le entrate di un musicista non erano nulla di sicuro e
bisognava arrangiarsi in qualche modo per pagare l’affitto.
Tetsuya Ogawa era un bassista di cui aveva sentito parlare
spesso, per la sua tecnica e per ambizioni che si dicevano smisurate. A
guardarlo da vicino non pareva nulla di eclatante, ma Hideto si entusiasmava
facilmente e non sapeva resistere a nessuna lusinga che investisse in pieno il
suo ego. E Ogawa era fin troppo abile nel capire il proprio interlocutore,
perché l’aveva blandito con l’intelligenza del vero stratega, lasciandogli
intravedere opportunità che le sue forze non avrebbero mai saputo del tutto
concretizzare.
‘Possiamo diventare davvero famosi.’
‘Come i Dead End?’
‘Più dei Dead End. Più di chiunque altro.’
Forse era stato allora che l’equilibrio si era rotto: quando
lei aveva indovinato la presenza di un’ombra nel loro rapporto. Un’ombra
ch’era al contempo un ragazzo, un amico, un diavolo tentatore, e lo spettro di
un salto nel vuoto. Autentico. Questa volta non era solo la stravaganza di un
ragazzo di provincia: preso per mano da Ogawa, Hideto aveva smesso di
appartenere per sempre al suo passato.
Non se n’era accorto sul momento, ma parlava sempre di lui.
Di Tetsuya – meglio: ora era Tetchan – del suo entusiasmo, di un gruppo
dal nome impossibile, ma bellissimo, del pubblico che cresceva fino a sembrare
una marea, del Kanto che era ora tanto vicino che non pareva vero, appena un
pugno di mesi prima, si fosse rassegnato a ereditare un pub.
Se avesse saputo leggere davvero tra i vuoti di
un’espressione desolata e sorrisi sempre più pallidi, forse avrebbe dovuto
capire che lei l’avrebbe preferito: meglio l’Apple e il mare azzurro di
Wakayama, che lo smog soffocante di Tokyo, ma Hideto non era mai stato sensibile
alle sfumature, a quelle dei sentimenti meno che mai.
Non era poco amore, quello no. Hideto era davvero pieno di
emozioni, ma Ogawa lo attraeva di più, come una luce che chiama a sé le falene
per bruciarle di un falso splendore. Forse era quello che desiderava davvero,
per disperdersi in una corrente di cui non avesse controllo o ragione.
Un’omissione riposante, in fondo.
In quel dettaglio, forse, aveva smesso di essere un uomo per
trasformarsi in qualcosa d’irrisolto e troppo ambiguo perché una senpai
dal viso largo cedesse ancora alla tenerezza.
Quando erano arrivate le prime interviste e poi la Danger
Crue – e il mito del Kanto; già, proprio la sporca e puzzolente Tokyo delle
illusioni – si era seduta al suo fianco, sotto il tiepido kotatsu novembrino,
gli aveva accarezzato come mille altre volte i capelli e poi gliel’aveva detto:
‘D’accordo. Ma io resto qui.’
Due cuori legati dalla Burakuri Tei* si scioglievano a
Shibuya, assieme alla prima neve che imbiancava i lastricati di un precoce
inverno.
Forse non c’era neppure abbastanza spazio per l’Arcobaleno.
*Si tratta della via principale di Wakayama.