Fanfic su artisti musicali > L'arc en ciel (band/solo)
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Autore: Callie_Stephanides    20/11/2010    0 recensioni
Hideto/haido: il poeta e la sua maschera più collaudata, gli anni duri di Tokyo, le solitudini assassine di una città senza cielo, e un amore svanito nel vento per amore di una voce.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: hyde, Ken, Pero, Sakura, Tetsuya
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Fictional Dream © 2006 (4 luglio 2006)
I L’Arc~en~ciel (nella prima formazione major, Tetsuya Ogawa, Ken Kitamura, Hideto Takarai e Yasunori Sakurazawa, poi Yukihiro Awaji in luogo di quest’ultimo) sono uno dei più celebri gruppi di musica rock-pop giapponese.
L’autrice non intrattiene con i succitati artisti alcuna relazione di tipo economico-collaborativo.
Questo testo narra eventi di pura fantasia, destinati al diletto ed all’intrattenimento di altri fans: non persegue alcun intento diffamatorio (né pretende di dare informazioni veritiere sulle persone di cui tratta) o finalità lucrativa.
Nessuna violazione dei diritti legalmente tutelati in merito alla musica ed alla personalità degli artisti succitati si ritiene intesa.
L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright dell’autrice (Callie Stephanides - http://fictionaldream.iobloggo.com). Non ne è ammessa altrove la citazione totale né parziale, a meno che non sia stata autorizzata dalla stessa tramite permesso scritto.

*****

L’aveva conosciuta ai tempi dell’Iwaki. La chiamava senpai, perché aveva tre o quattro anni più del ventenne sconclusionato che era. Nessuno avrebbe detto fosse bella: aveva un viso largo e occhi piccoli. L’unica nota davvero attraente di quel viso anonimo era il sorriso. Per questo forse, senza ascoltare davvero nessuno, Hideto aveva deciso di innamorarsene.
Aveva vent’anni, ma se non avesse esibito – a tratti con uno scatto violento e rabbia evidente – la propria patente, nessuno gli avrebbe forse permesso di lavorare, perché a Wakayama, Kansai, vive gente di campagna e sani principi. Nessuno accetta studentesse delle scuole medie con occhi da rubarti l’anima. Aveva vent’anni, i capelli lunghi di un nero intenso, mani da bambola e l’aria svanita. Voleva fare il chitarrista e smettere così di sentirsi un piccolo animaletto buffo da tenere al riparo di una teca. Sul momento poteva accontentarsi di tutto, purché non implicasse avere a che fare con pensionati e ciambelle, oppure impilare CD sulla scaffalatura più alta, perché non era piacevole fare quotidianamente i conti con un mondo fuori misura.
Hideto era davvero timido, ma in un suo modo personalissimo. Forse aveva paura del giudizio degli altri, perché gli arrivava sempre da un punto molto più in alto del suo orizzonte. Sapeva di essere troppo ingenuo, a tratti, per non sembrare stupido. Troppo spontaneo per non essere vulnerabile. Troppo ignorante – della vita e del mondo e pure culturalmente parlando – per non sembrare scemo. Era timido e dunque taceva per buona parte del tempo. Poi, se ritrovava gli amici di una vita – ragazzi come lui, con cui aveva scorrazzato in bicicletta dai tempi della Kawanishi, pattinato o campeggiato sotto le stelle –scoprivi che era un pagliaccio, che sapeva rendersi irresistibile e che era forse la persona più carina in cui ti fossi mai imbattuto, oltre le regole e gli stereotipi, non solo nell’aspetto.
Hideto non aveva paura di farsi toccare, anzi, s’era lui a vederti triste o abbattuto oppure felice, era il primo che ti stringeva, con quelle braccia da bambino e forti come quelle dell’uomo che stava diventando. Se era arrabbiato o deluso o stanco o offeso, invece, cominciava a strepitare di non toccarlo. Aveva un modo di leggere i rapporti fondato su sensi che un giapponese a modo sacrifica sempre all’educazione: il tatto, prima di tutto. Forse Hideto Takarai non era un ragazzo perfetto o un modello di stile, però sapeva rendersi unico e irresistibile con una tale evidenza ch’era impossibile ignorarlo davvero.
Aveva un viso bellissimo, malgrado le piccole cicatrici che dalla mascella s’intrecciavano sotto il mento. Lo sguardo obliquo e un po’ sfocato dei miopi che non vogliono arrendersi all’onta degli occhiali. Sorrisi spontanei, abbaglianti. Eppure non aveva mai trovato il modo di sentirsi bello, perché nessuna delle cotte che si era concesso come ogni adolescente era andata davvero a buon fine. Pensava di non piacere alle ragazze. Forse non piaceva soprattutto a se stesso. La verità era fosse troppo piccolo e carino perché lo prendessero sul serio. Aveva qualche amica, ma nessuna, a dir la verità, aveva mai provato nei suoi confronti qualcosa in più di una dolce tenerezza. Sì, era bello accarezzargli i capelli, pattinargli accanto, ascoltarlo suonare, ma Hideto era Hideto. Non era un ragazzo come gli altri.
Hideto aveva vent’anni e nello specchio trovava solo un giapponese troppo basso, non la risposta a quella sua strana aura, così attraente da lasciarlo però irrimediabilmente solo. Così, quando quella senpai che bella non era, se non nel sorriso, cominciò a salutarlo ogni mattina, mentre scivolava in volata sulla propria bicicletta – una mano sola, perché l’altra gli serviva per fumare – lungo la via principale di Wakayama, un giovane cuore cominciò a battere più forte.
Hideto era molto attratto dalla bellezza, ma la intendeva a modo suo. Quel sorriso radioso su un viso pulito e semplice rappresentava quanto di più vicino assimilasse a un ideale, forse perché somigliava a sua madre, e Hideto sapeva che oltre l’Apple era difficile trovare autentica serenità.
Lavorava in uno store a meno di un blocco dall’Iwaki. A volte si incontravano per la pausa di mezzogiorno. Hideto non tornava più a casa e si faceva durare la cherokee tra le dita, mentre passeggiava lungo la Burakuri Tei, senza curarsi d’essere tanto scoperto nei suoi sentimenti da sembrare ridicolo. Non era il tipo da curarsene; aveva più paura del silenzio e di quanto restava inespresso, non di voler bene.
Per un poco anche la musica passò in secondo piano, e Pero, che lo conosceva abbastanza da sapere con quanta intensità vivesse le proprie passioni, senza saper distinguere tra un falò e un incendio, più di una volta l’aveva richiamato all’ordine. Era il leader dei Kiddies Bombs, in fin dei conti, un gruppo che perdeva pezzi con regolarità inquietante e che non voleva saperne di occupare un posticino al sole neppure tra le indie più periferiche.
Hideto sapeva ch’era colpa sua, perché non possedeva la freddezza e il cinismo con cui la concorrenza gli soffiava i musicisti migliori e i locali più in vista. Poteva lavorare durissimo e impegnarsi come un operaio in quel che faceva, ma non aveva la mentalità dello stratega; al dunque era il primo a scoraggiarsi e a cercare un minimo di sostegno in chi aveva accanto: era sempre stato troppo coccolato per stringere gli altri nell’abbraccio della sicurezza, insomma. E poi, a dirla tutta, gli ridevano in faccia come apriva bocca, e il suo timbro tenorile, greve di inflessioni dialettali, sembrava lo scherzo divertito di una piccola fata tutta occhi e capelli. Non demordeva perché voleva dare una lezione a chi lo guardava troppo per non vederlo affatto, forse persino a quei genitori che gli avevano voluto sempre bene, ma che sembravano i primi a non riconoscergli la virilità che portava tra le gambe e nel cuore.
Lei, con il suo sorriso aperto, era una piccola luce in giorni grigi, deposti l’uno sull’altro in un tetro castello di mediocrità. Anche la vita poteva essere daltonica, si era detto, non meno dei suoi occhi: delle mille luci che aveva sognato restavano appena i faretti del terzo piano.
Al Wood Rock vendeva chitarre che avrebbe voluto suonare sino a farsi sanguinare i polpastrelli, a musicisti d’ogni caratura che gli rifilavano appena un’occhiata sbilenca, quando descriveva un modello o proponeva un pezzo conveniente. Probabilmente pensavano qualcosa sul genere: ‘Che può saperne una ragazzina di come si suona il rock?’ con quella superficialità offensiva con cui tante volte era stato liquidato. Poi, in un giorno di tarda primavera, lei era passata a trovarlo.
Un regalo, aveva detto.
Hideto aveva annuito, pensando piuttosto che il dono spettasse a lui, e gliel’avesse mandato il Dio in cui non credeva affatto, pur scimmiottandone il Figlio in quello stile un po’ hippy e un po’ profetico che faceva disperare suo padre, le rare volte in cui le loro strade s’intrecciavano ancora. Non aveva avuto il coraggio di parlare abbastanza da rendersi interessante, ma una piccola idea per rivederla, be’: quella sì.
Nel pacco essenziale che le aveva confezionato – sperando quei tabs non fossero per un fidanzato molto kakkoi e troppo geloso persino per il suo alto dan - c’era anche la locandina che invitava ad ascoltare quattro sconosciuti, in una piccola live house da sabato sera. L’aveva disegnata per proprio conto, sfruttando uno dei pochi talenti che sapeva di avere – ma monco e imperfetto come tutto, del resto.
Anche se non avesse compreso e accolto, poteva consolarsi pensando di averle lasciato qualcosa di sé: un’esca. Poteva sempre darsi scegliesse di abboccare.
Il locale era semivuoto, il vocalist aveva steccato più del previsto e anche i suoi riff non erano bastati a riempire il vuoto dell’ispirazione. L’unico elemento valido restava Pero, che non poteva escludere, prima o poi, accettasse l’offerta di un gruppo decente, perché l’amicizia non giustificava il permanere stagnante in una fossa da ranocchi.
Non era stata una buona serata: poteva solo sperare che la senpai non avesse accettato il suo invito, rendendo l’indifferenza, una volta tanto, vantaggiosa. Invece c’era, e si era divertita abbastanza da regalargli uno dei suoi sorrisi così belli da sciogliergli il cuore.
Anche mio fratello suona la chitarra,’ gli aveva detto con molta semplicità – senza sapere di averlo liberato dal fantasma della gelosia che lo perseguitava dal giorno dell’incontro all’Iwaki. ‘Sei bravo.’
Non era vero, ma per una volta era quasi comodo crederci e solleticare l’ego con una bugia che poteva somigliare a un complimento gentile.
Se una ragazza te ne fa, del resto, non deve essere del tutto senza un perché.
Si erano visti ancora. I Kiddies avevano cambiato vocalist una quantità infinita di volte, ma la senpai sembrava quasi non accorgersene: era sempre lì in prima fila. Alla fine, prendendo il suo coraggio da coniglietto a due mani, Hideto gliel’aveva chiesto, le aveva domandato obliquo e maldestro da dove nascesse tanta assiduità. E lei, sporgendosi sino a baciargli la fronte, gli aveva sussurrato che aveva un debole per i chitarristi. Poi, sorridendo in quel suo modo speciale, gli aveva pure confessato che dalla prima fila riusciva a vederlo meglio.
La senpai, nei fatti, lo staccava di almeno dieci centimetri, un po’ come ogni donna che sarebbe entrata nella sua vita. Hideto, però, non lo sapeva, perché era troppo impegnato ad abbassare lo sguardo e ad arrossire sotto il suo brutto trucco di scena per sentirsi imbarazzato da quella sproporzione forse un po’ grottesca.
Lo trovava carino. Forse era persino ricambiato e non ci sarebbero più stati San Valentino con il cuore al gelo e un vago rimpianto per un kawaii che non portava cioccolata.
Si erano trasferiti a Osaka, in un brutto blocco quasi periferico, ma non era importante. Aveva rassicurato i suoi genitori con tutto l’orgoglio del pulcino che lascia il nido; in fin dei conti, poi, era a un’ora scarsa di treno, non in un altro mondo.
Aveva continuato a fare il chitarrista e il leader maldestro di un gruppo di scartine, finché anche l’ultimo vocalist non aveva piantato in asso i Kiddies e Pero l’aveva fissato con l’intensità di chi pone davanti ad un bivio.
A questo punto ci troviamo un altro chitarrista e canti tu!’ gli aveva detto con un tono tanto brutale quanto insindacabile. Aveva quasi inghiottito la cherokee sul momento, mentre lei rideva e gli raccoglieva i capelli sulle tempie.
Perché no? Hai una bella voce,’ gli aveva sussurrato incoraggiante. Era difficile spiegare a quel punto che avrebbe dovuto rinunciare persino all’unica cosa cui si legava un po’ del suo orgoglio di musicista; non era mai stato bravo a prendere decisioni. Soprattutto, poi, si fidava di lei. Era un portafortuna, un’amica, una mamma: tiravano la cinghia con quello che guadagnava e gli introiti – magri – del gruppo. Hideto pensava che quella, in fondo, era proprio la via che avevano percorso anche i suoi genitori, dunque doveva essere il sentiero che portava al Paradiso.
Non gli importava ancora essere ricco, gli bastava sentirsi meno solo. La senpai gli ritoccava il trucco e gli acconciava i capelli. Davanti allo specchio c’erano spesso due donne, solo che la più bella aveva la voce da tenore e l’aria svanita e perplessa insieme.
Saresti stato una ragazza bellissima,’ gli diceva sempre, con un tono che sapeva di malinconia e di orgoglio insieme.
È quello che mi ha sempre detto mia madre,’ replicava con una smorfia e accendeva una cherokee. I Jerusarem’s Road, però, malgrado la sua disastrosa incompetenza organizzativa, stavano andando bene. Era difficile credere alla sostanza dei fatti: era merito suo, della sua voce, del suo corpo, del suo stile. Merito di Hideto. No. Merito di haido, la donna-uomo che costruiva con l’altra metà del suo cuore in un brutto camerino.
A volte, quando la domenica pomeriggio, ancora caldo di sonno, si volgeva nella sua direzione per abbracciare l’ombra di un’assenza in un futon ormai gelido, sapeva già di potersi aspettare qualche regalo spontaneo e grottesco insieme, per quel fantasma che nasceva sulla sua pelle e, poco a poco, si fondeva con lo scheletro da passero di uno come tanti. Per trasformarlo in un’icona perversa.
Ti ho trovato un nuovo fermaglio-un nuovo ciondolo-nuovi orecchini-una maglia aderente.’
A tratti aveva come l’impressione d’aver smesso d’essere il suo ragazzo per diventare la sua bambola. Persino mentre facevano l’amore, a dir la verità, Hideto si masturbava piuttosto con il germe del rimpianto e del dubbio. Non aveva più vent’anni – ne aveva quasi ventidue – non aveva smesso di amare il sorriso di lei, ma si sentiva di nuovo sbilanciato e fuori fuoco, privo di equilibrio come in troppi momenti di una vita segnata da orizzonti daltonici.
Forse era haido che gli toglieva la terra da sotto i suoi piedi, facendolo volare troppo in alto per un giapponese basso e senza ali. Non così sul palco, e cominciava a capirlo.
Lei, in prima fila, sorrideva e forse ne soffriva. C’era qualcosa di artificiale a tratti nelle sue labbra e persino nelle sue scelte, come se partecipare dei suoi successi fosse un modo per chiedergli di non abbandonarla, quando la porta del sogno l’avrebbe inghiottito del tutto. Amava l’haido che aveva concorso a costruire, ma rimpiangeva forse Hideto, il chitarrista e il commesso basso dell’Iwaki che si lasciava bruciare una cherokee tra le dita pur di avere una scusa per vederla.
Non ne parlava, però, forse perché era tutto sotto controllo.
I Jerusarem’s Road avevano qualche fan degno di essere chiamato tale; voci anonime dicevano che c’era pure un pezzo grosso della scena underground interessato a lui, alle potenzialità del suo timbro e al suo incredibile senso scenico, ma Hideto, una volta che riponeva con il trucco di scena il suo haido, tornava il ragazzetto di Wakayama che sognava in piccolo e desiderava la cioccolata per san Valentino. Per questo, però, quando il destino aveva bussato alla sua porta per reclutarlo, quasi non se n’era accorto. La senpai non c’era quella sera: un turno imprevisto nel negozio in cui lavorava, perché le entrate di un musicista non erano nulla di sicuro e bisognava arrangiarsi in qualche modo per pagare l’affitto.
Tetsuya Ogawa era un bassista di cui aveva sentito parlare spesso, per la sua tecnica e per ambizioni che si dicevano smisurate. A guardarlo da vicino non pareva nulla di eclatante, ma Hideto si entusiasmava facilmente e non sapeva resistere a nessuna lusinga che investisse in pieno il suo ego. E Ogawa era fin troppo abile nel capire il proprio interlocutore, perché l’aveva blandito con l’intelligenza del vero stratega, lasciandogli intravedere opportunità che le sue forze non avrebbero mai saputo del tutto concretizzare.
Possiamo diventare davvero famosi.’
Come i Dead End?
Più dei Dead End. Più di chiunque altro.’
Forse era stato allora che l’equilibrio si era rotto: quando lei aveva indovinato la presenza di un’ombra nel loro rapporto. Un’ombra ch’era al contempo un ragazzo, un amico, un diavolo tentatore, e lo spettro di un salto nel vuoto. Autentico. Questa volta non era solo la stravaganza di un ragazzo di provincia: preso per mano da Ogawa, Hideto aveva smesso di appartenere per sempre al suo passato.
Non se n’era accorto sul momento, ma parlava sempre di lui. Di Tetsuya – meglio: ora era Tetchan – del suo entusiasmo, di un gruppo dal nome impossibile, ma bellissimo, del pubblico che cresceva fino a sembrare una marea, del Kanto che era ora tanto vicino che non pareva vero, appena un pugno di mesi prima, si fosse rassegnato a ereditare un pub.
Se avesse saputo leggere davvero tra i vuoti di un’espressione desolata e sorrisi sempre più pallidi, forse avrebbe dovuto capire che lei l’avrebbe preferito: meglio l’Apple e il mare azzurro di Wakayama, che lo smog soffocante di Tokyo, ma Hideto non era mai stato sensibile alle sfumature, a quelle dei sentimenti meno che mai.
Non era poco amore, quello no. Hideto era davvero pieno di emozioni, ma Ogawa lo attraeva di più, come una luce che chiama a sé le falene per bruciarle di un falso splendore. Forse era quello che desiderava davvero, per disperdersi in una corrente di cui non avesse controllo o ragione. Un’omissione riposante, in fondo.
In quel dettaglio, forse, aveva smesso di essere un uomo per trasformarsi in qualcosa d’irrisolto e troppo ambiguo perché una senpai dal viso largo cedesse ancora alla tenerezza.
Quando erano arrivate le prime interviste e poi la Danger Crue – e il mito del Kanto; già, proprio la sporca e puzzolente Tokyo delle illusioni – si era seduta al suo fianco, sotto il tiepido kotatsu novembrino, gli aveva accarezzato come mille altre volte i capelli e poi gliel’aveva detto: ‘D’accordo. Ma io resto qui.’
Due cuori legati dalla Burakuri Tei* si scioglievano a Shibuya, assieme alla prima neve che imbiancava i lastricati di un precoce inverno.
Forse non c’era neppure abbastanza spazio per l’Arcobaleno.

 
*Si tratta della via principale di Wakayama.

   
 
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