I Dead End erano nati tra Nagoya e Osaka, ma avevano fatto
sognare anche Tokyo. La voce profonda e modulatissima di Morrie – capelli neri,
tenebroso, attraente – e gli arpeggi di quel loro chitarrista fenomenale – erano
gli Iron Maiden del Sol Levante? Non sembrava un confronto azzardato –
riecheggiavano nell’aria persino a tre anni dal loro scioglimento. Tetsuya
l’aveva accolto con l’incredulità addolorata del fanatico – li seguiva da
sempre, lui. Da quando erano indie e Ogawa un ragazzino delle medie
malato di musica – consolandosi forse quando aveva scoperto che Morrie non aveva
deposto il microfono, ma continuato da solo ad alimentare il proprio mito. La
verità era che tutti ascoltavano Morrie. Lo faceva Kiyoji Mori, prima ancora di
diventare Kiyoharu dei Kuroyume, altro simbolo sonoro e sessuale insieme. Lo
faceva un chitarrista talmente bello da sembrare davvero scendesse dalla Luna
che aveva rubato per il suo gruppo, quel Sugizo che avrebbero chiamato
Wolking Porn e identificato con un’icona quasi blasfema. Lo faceva una
piccola bambola dagli occhi grandi e dalla voce profonda, accoccolata in un
angolo della camera di Ogawa, a fissare nel vuoto ombre che solo il suo cuore
riusciva a leggere. Valeva davvero la pena di abbandonare tutto per un pugno di
illusioni? Non ne era del tutto convinto. Per la prima volta, anzi, le parole di
suo padre somigliavano davvero a un oracolo cui prestare fede.
Il mondo là fuori faceva paura.
La solitudine, poi, era uno spettro ancora più doloroso.
“Ha detto che non gli interessa,” aveva scandito senza troppo
sentimento, in replica all’unica domanda si ponessero da tre giorni almeno e che
era stata pure il refrain con cui quel millenovecentonovantatre si era
inaugurato.
Un ritornello inevitabile, in fin dei conti, considerando che
Pero li avesse abbandonati proprio il trenta dicembre, dopo un live memorabile.
Perché?
Hideto lo conosceva da un arco di tempo sufficiente ad
alimentare dubbi amletici; era rimasto al suo fianco quando il gruppo sguazzava
in una pozza di pochi centimetri e lo abbandonava ora che erano a un passo dalla
registrazione di un album vero.
Indie, d’accordo, ma dieci tracce autentiche.
Aveva tentato di lusingarlo e blandirlo e allettarlo con
promesse che sapeva per primo quanto suonassero inverosimili, ma era stato
irremovibile: gli aveva battuto piano sulla spalla e forse detto la verità.
“Non ho niente contro di te, Hideto. Sei fantastico e sono
sicuro che diventerai qualcuno. Ma non chiedermi di sopportare il tuo Tetchan.
Quelli come Ogawa non mi piacciono. Non voglio trasformarmi in un ingranaggio
alle sue dipendenze.”
Hideto non aveva capito. Si era detto fosse probabilmente
troppo stupido o troppo egoista per indossare i panni di un altro, ma non
avrebbe mai potuto lamentarsi di Tetsuya, persino quando lo costringeva a fumare
in veranda. Ogawa lavorava per tutti e risolveva ogni problema.
Quando erano stati sull’orlo del baratro per il lancio del
primo singolo non aveva dormito per settimane, ma se l’era cavata da solo,
rendendo nota la situazione solo quando il futuro era già sgombro di nubi. Era
quello che aveva sempre desiderato, in fondo, eppure c’era chi non la pensava
allo stesso modo.
Ken aveva tratto un profondo sospiro e aveva portato lo
sguardo su Tetsuya, che strimpellava il proprio basso seduto in terra, i capelli
troppo lunghi raccolti alla base della nuca.
“Siamo nella merda un’altra volta, Tetchan. Non sarà che il
tuo nome del cazzo porta pure sfiga?”
Hideto non aveva detto nulla, chiuso nel disagio sordo di una
responsabilità inesistente, eppure pienamente avvertita. Pero era una cellula
del suo passato e si era ribellata. Aveva avuto l’opportunità di rendersi utile
in qualche modo, ma non c’era riuscito. I sogni per cui aveva sacrificato il suo
cuore erano in agonia e neppure riusciva ad avvertire il minimo coinvolgimento.
Peggio, era quasi felice di possedere una scusa per tornare da lei,
tornare al sicuro in una quotidianità senza trucco e senza luci.
Tetsuya aveva fatto il gesto di lanciare il basso a Kitamura,
prima di squadrarli in silenzio e tirar fuori l’ennesima soluzione.
Hideto a volte pensava che a Ogawa avrebbe donato un
cilindro, perché come un mago materializzava dal nulla la risposta a tutto.
“Quando sono stato a Tokyo l’ultima volta, ho incontrato un
tipo molto interessante. Un batterista davvero bravo.”
Ken aveva fatto per accendersi una sigaretta, salvo riporla
sotto lo sguardo carico d’odio del bassista.
“Sarebbe?”
“Sakurazawa. Yasunori Sakurazawa.”
“Mai sentito,” aveva commentato Ken.
“Perché sei ignorante. O distratto. O stupido. Ha già inciso,
s’è per questo. E ha lavorato con i Dead End.”
Tetsuya aveva un modo tutto suo di catturare l’attenzione:
poche frasi. Secche. All’improvviso un sorriso strano, a tratti freddo, degno di
chi possiede una verità essenziale e ha poca voglia di dividerla con gli
stupidi.
“E ha la nostra età,” aveva aggiunto dopo una piccola pausa,
fissandoli poi come per valutare l’effetto.
Ken aveva esclamato un ‘cazzo’ molto partecipe. Hideto
aveva sollevato lo sguardo e mormorato distratto: “D’accordo. Ma a noi cosa
importa?”
Ogawa lo detestava in momenti come quelli, lo sapeva. Odiava
la sua vacuità improvvisa, l’apatia pigra e indifferente che lo attraversava a
tratti. Non l’aveva ancora mai visto perdere davvero la pazienza, però, forse
perché i suoi sogni gli rubavano una quota di energie ben più significativa.
“Gli ho già inviato le nostre demo, e l’ho invitato a provare
con noi. Mi è sembrato piuttosto incuriosito. Potrebbe diventare il nostro nuovo
batterista.”
Ken era esploso in un urletto felice e aveva lanciato a
Tetsuya un bacio di apprezzamento autentico. Hideto era rimasto immobile, con
gli occhi sgranati, sospeso tra sollievo e desolazione. Non c’erano più scuse
valide per smettere: per l’ennesima volta esisteva qualcosa che decideva al suo
posto, una rete che lo avviluppava e lo trascinava in un sogno che non aveva
elaborato, senza che potesse opporsi o tradurvi le proprie illusioni.
“Ma è del Kanto?”
“E allora? Tanto è evidente che qui non possiamo restare.
Prima o poi dovremo trasferirci a Tokyo. Tanto vale cominciare dalle basi.”
“No!” aveva quasi gridato Hideto, alzandosi di scatto e
percependo come un’onda lontana il rinculo dell’imbarazzo.
No a cosa? Alla musica, al gruppo, a Tokyo? No
all’acquiescenza con cui aveva lasciato naufragare persino la storia d’amore
della sua vita? No alla scelta dolorosa e inevitabile di una crescita che
implicava anche scelte di campo?
Era il primo a non saper qualificare la propria ansia, ma a
esserne attraversato in onde successive di ansia e incredulità.
Se n’era andato senza dare spiegazioni, rifugiandosi in un
brutto blocco che ancora conservava l’odore di una vecchia felicità e l’impronta
fuggevole di un amore abortito.
“Hideto, noi siamo una squadra. E siamo appena all’inizio.
Possiamo diventare abbastanza importanti da dettare le regole, ma per cominciare
dobbiamo adattarci. Si tratta solo di stringere i denti per un po’. Possiamo
farlo. So che lo vuoi anche tu.”
Tetsuya era tornato a cercarlo; poche parole, almeno in
apparenza, gli erano state sufficienti per suturare la crepa con cui
l’insicurezza gli aveva leso il cuore. Poche parole, in fin dei conti, bastavano
sempre a comprarlo.
Aveva accettato di incontrare Sakurazawa. Aveva cantato al
meglio delle proprie capacità, forse godendo in fondo al cuore di quello sguardo
impenetrabile che si faceva via via più acuto e non lo abbandonava. Si era
sentito appagato e grato per l’abbraccio con cui tetsu l’aveva stretto poi,
sussurrandogli un ‘Ce l’abbiamo fatta’ che suonava più caldo di un
semplice ‘Grazie’. Poi, poco prima che salisse sullo Shinkansen per Tokyo
– un borsone con pochi abiti, perché in sala di registrazione era inutile
portare haido la bambola – lei si era fatta trovare sulla banchina della
stazione, con il suo bel sorriso e una candida sciarpa bianca.
Gliel’aveva avvolta attorno al viso con la tenerezza di
sempre, sussurrandogli qualcosa che l’aveva incoraggiato più degli yen di un
qualunque ingaggio. “Tokyo è fredda. Ma pensa che ti aspetto,” gli aveva detto.
L’aveva baciata tanto a lungo e con un trasporto così assoluto che aveva quasi
perso il treno.
Kitamura l’aveva agganciato al collo e trascinato dentro,
sogghignando per quell’espressione un po’ ebete e un po’ offesa con cui era
rimasto incollato al vetro, a cercare una mano e il filo rosso di un destino che
non voleva dimenticare.
Hideto non poteva fare a meno di pensare a quel giorno; alla
speranza che si era riaccesa all’improvviso solo per spegnersi altrettanto
repentinamente e fargli ancora più male. Gola spiegata in gorgheggi virtuosi,
ore e ore di prove, senza il minimo errore, solo stringendo nel cuore l’ansia di
riabbracciarla e raccontarle tutto: di quanto fredda davvero e sporca e
spaventosa fosse Tokyo, stronza e snob la gente che vi viveva, false le luci e
desolante la solitudine che ti stringeva sino a farti male.
Ma quando appena una settimana dopo era tornato a casa, il
niente era di nuovo ad aspettarlo, assieme a una lettera che era solo un addio.
‘Scusami se sono stata tanto vigliacca. Volevo dirtelo
quel giorno, ma non mi sembrava giusto per te. O forse avevo solo paura. Mi
sposo, con un ragazzo scelto dai miei genitori. Mi vuole bene e mi rispetta.
Forse non sono fatta per le stelle. Quelle le lascio a te.’
Le aveva spente tutte, invece, per accendergli dentro una
rabbia inumana, mutata in quella freddezza codarda con cui un cuore ferito si
chiude all’esterno e non dimentica.
Colmo d’odio, sì, e di risentimento purissimo: nei confronti
di tetsu che anelava solo a Tokyo, di Ken che non aveva legami e non aveva
incubi ed era tanto bravo a suonare e comporre che nessuno gli avrebbe mai
imposto di piazzarsi davanti a un microfono e dimenticare l’emozione di un riff.
Soprattutto ce l’aveva con quel Sakurazawa, alto, bravo, bello e figlio della
città maledetta che gli aveva tolto tutto, senza offrirgli in cambio altro che
quello stupido kawaii destinato a un haido che non era lui. Un haido
stupido e odioso come il suo riflesso di bambola nello specchio.
Aveva stretto tra le labbra la forcina, strattonando tra le
dita i capelli sempre più lunghi, tinti di un rosso chiaro, che conferiva
qualcosa di volpino al suo mantello d’ebano. Un giro e un altro giro, per
appuntare la prima ciocca. Poi seguiva un largo velo di chiffon bianco, intonato
all’abito e ai guanti. Li avrebbe infilati con cautela, ben attento aderissero e
non sfiorassero il viso imbiancato dalla cipria. haido nasceva lentamente contro
la superficie riflettente, bello di quel suo splendore ambiguo e corrotto, che
cozzava con il candore delle sue spoglie più superficiali.
Alla fine di quel rito che officiava solo avrebbe evitato
l’ultimo sguardo, per impedire a se stesso di identificarsi con la sposa troppo
bella che l’avrebbe irriso dall’altra parte. Una sposa ch’era lui e forse una
senpai che ne aveva ragioni ben più consistenti ed emozioni senz’altro più
pulite di quelle di un palco in cui chiunque sembrava attendere solo che
cambiasse sesso.
Ecco Tokyo: aveva rinunciato all’amore e ora anche al diritto
di essere un uomo.
Lungo il vestibolo che l’avrebbe condotto sul palco
dell’ennesimo club qualche sguardo obliquo lo raggiungeva sorpreso. Camminava a
testa bassa, intimidito, scontroso, muto. Persino tetsu l’aveva rimproverato per
quei silenzi esasperanti, le distrazioni studiate e le frecciate che stoccava a
Sakura, quasi facesse il possibile per provocarlo, o per definire un fossato che
lo isolasse da tutto, persino dai compagni di squadra. Gli aveva risposto con
distanza studiata, quasi sgarbata, come mai sino a quel momento. Gli aveva
chiesto di fare il leader e non lo psicologo, come faceva il cantante, non
l’amico.
Poi, quando srotolava il futon nei pochi metri quadri di un
alloggio temporaneo, contava le lacrime che cadevano in terra senza che nessuno
potesse raccoglierle, vederle o consolarle, come se fossero altrettanti
frammenti di identità e sicurezza e futuro che vedeva stemperarsi nel nulla.
Dune aveva sbancato. Il primo tour era andato tanto bene
che ne era stato finanziato subito un altro. Era stato costretto a trasferirsi
davvero: una vita in poche scatole e un brutto alloggio a poco prezzo, in una
città che continuava a inghiottirlo senza dargli nulla.
Nei corridoi della Danger Crue ora lo conoscevano tutti: era
haido. Un grande cantante. Una promessa mantenuta.
Oppure haido-la-sposa. haido-la-troia.
haido-davvero-minuscolo. haido-sarà-davvero-un-uomo.
Forse non sapevano neppure che si chiamava Hideto, che moriva
di nostalgia ogni giorno, che odiava quel viso così bello che chiunque avrebbe
desiderato baciare – non possedere, no. Non era piacevole somigliare ad una
donna. Un giorno – era ormai novembre e Tokyo si preparava a una di quelle
nevicate squallide con cui si annuncia l’inverno – aveva sfiorato
inavvertitamente un’ombra che sapeva di passato e di futuro insieme.
Morrie gli aveva regalato un sorriso enigmatico, quasi
animato da un riconoscimento del tutto consapevole, prima di oltrepassarlo e
curare le proprie registrazioni. Si era sentito ancora più fuori fuoco e mal
centrato in una cornice in cui sembrava il pezzo d’arredo sbagliato, infilato
con forza in un’armonia di forme che la sua stessa esistenza spezzava. Volava
sotto brutti faretti di luci dozzinali, ma la verità era fosse del tutto privo
di equilibrio. Del palco sposava la comoda menzogna di essere diverso, poi si
ritrovava sulle scale di un orrendo blocco a guardare il cielo plumbeo e a
chiedersi se stava davvero assecondando il destino, oppure tradendo la propria
felicità.
Non c’erano risposte; solo una routine fatta di incontri
casuali e contatti di comodo e lunghi silenzi. Era arrivato ad amare quasi gli
infernali ritmi di prova e registrazione, perché implicavano almeno vedesse
qualcosa di diverso da quattro pareti imbiancate e opache come le sue emozioni.
In modo intollerabile.
Dita lunghe avevano accarezzato il suo collo per qualche
istante, prima di ritrarsi dopo un suo gesto insofferente.
“Scusa?” aveva sibilato polemico. Sakura era indietreggiato
di un paio di passi, per quanto fosse evidente che non avesse ragioni per
sentirsi minacciato. Non si era mai lamentato con tetsu; al più era stato Ogawa
a fargli la morale, a chiedergli d’essere un po’ più gentile e collaborativo,
visto che essere compagni di squadra si risolveva in accenti più cordiali
dell’indiscutibile ostilità con cui guardava al batterista.
Per quale motivo, poi?
A quel punto Hideto scrollava sempre il capo e negava. Negava
sempre. Gli diceva che era una sua impressione. Che non tutti avevano la faccia
come il culo di sentirsi subito amichetti. Che aveva problemi ad arrivare alla
fine del mese, a non morire di fame.
E di solitudine, ma quello non l’avrebbe mai ammesso.
In ogni caso Sakura non aveva alcun diritto di toccarlo, né
di essere gentile, né di provare a fare amicizia. Tanto sapeva cosa pensasse di
lui: poteva leggerlo in quegli occhi troppo scuri, di un maschio maschio,
senz’altro sorpreso e ilare all’idea di accompagnare la sposa fino
all’uscita.
“La cerniera. È solo a metà,” aveva detto senza troppo
coinvolgimento. Hideto aveva fatto scorrere le dita lungo la propria schiena,
lasciando sfilare il cursore con violenza quasi rabbiosa.
“I vestiti da donna sono una bella seccatura,” aveva detto
Sakura con un mezzo sorriso.
“Tanto sono io a metterli, no?” aveva replicato con un tono
meno neutro di quello che gli sarebbe piaciuto. In fin dei conti non gli
interessava mantenere nulla, non la forma e neppure il minimo sindacabile che la
civiltà avrebbe richiesto.
Il successo era la sua umiliazione definitiva; la sua
maschera, in fin dei conti, il simulacro di una condanna già data.
L’ansia si era stemperata al primo attacco. Aveva seguito il
basso di tetsu con gli occhi chiusi, fingendo di ignorare i risolini offensivi
con cui stupide ragazzine credevano di omaggiare la sua essenza, negandola
piuttosto fin dalla radice. Il canto era doloroso come un orgasmo: un turbine di
sensazioni incoerenti, montate sull’onda trascinante di una passione combusta
nel suo zenit.
Hideto annegava nel liquido amniotico in cui haido cresceva
più forte e più crudele, fino a spegnere ogni sua sensazione. Fino a estinguersi
debolmente: neppure ridotto a pura voce.
Quella, in fin dei conti, era ancora haido.
A Hideto restava un cielo nero, di stelle spente e soluzioni
abortite: era la sposa delusa, candida e bella, che accendeva una cherokee sul
gradino di una brutta live-house, soffiando nella notte le ultime illusioni.