Quando qualcuno domanda a Yasunori ‘Ma allora, tra te e
haido…’, Sakurazawa sorride o ride di gusto, compie un ampio gesto con il
braccio – quasi una specie di inchino teatrale – e risponde: ‘Tu cosa ne
dici?’, ed è il Tu cosa ne dici? più divertito del mondo; la risposta
di un uomo che è ormai alle soglie dei quarant’anni e, anche se gioca a fare il
bambinone, è quasi vecchio. Come siamo un po’ tutti. Com’è anche haido, padre di
un bambino che gli somiglia molto più di quanto vorrebbe. Eppure, fosse solo per
il fatto che siamo quel che siamo, sembra quasi che non ci venga neppure
riconosciuto il diritto di crescere, di imparare dai nostri errori e di
lasciarci alle spalle il passato.
A Sakura e haido è successo questo; sono due amici che se
vogliono vedersi o fare una bevuta insieme, devo nascondersi o camuffarsi o
incontrarsi là dove nessuno potrebbe registrare la loro presenza, sbatterli su
un giornaletto e confezionarci sopra la favola gay.
Per Yasunori parlare della propria tossicodipendenza e del
carcere, a tratti, sembra quasi più facile che non affrontare il passato dei
Laruku, quand’era un batterista famosissimo, un ragazzo dalla bellezza quasi
imbarazzante tanto era sfacciata, e, soprattutto, quand’era la metà inseparabile
di haido.
Nessuno conosce la verità autentica. Nessuno sa perché quell’amicizia
così stretta e così ambigua tacque per quasi un lustro di reciproca
indifferenza. Non lo sa neppure Ken, ch’era abbastanza in confidenza con Yacchan
da poter immaginare i non detti. Come suppongo non lo sappia tetsu, che per
certo ha letto nel degrado progressivo di Hideto i segni della verità. A volte
mi viene da pensare che sia stata proprio l’intensità di quello che hanno
vissuto a imporre una pausa: solo agendo in tal modo hanno potuto raccogliere i
pezzi di un’identità che avevano fuso e ricostruirsi come individui.
Cinque anni di disintossicazione e poi di nuovo l’uno davanti
all’altro: più adulti, più forti, più consapevoli, meno spaventati. Hideto ora
aveva le sue radici in Megumi e Yacchan la sua libertà; quelle ombre e quei
fantasmi che, perseguitandoli tacitamente, avevano concorso pure a legarli in
modo indissolubile, si erano dissolti.
Finalmente v’erano i presupposti di un’amicizia matura.
Eppure, come ho già detto, a noi non è concesso cambiare; se
Hideto e Yasunori siedono vicini, tutti ripensano solo a com’erano nel giugno
del millenovecentonovantacinque. O nel maggio di un anno dopo, alle prese con un
flirt così ambiguo da rendere difficile pensare fosse solo una finzione.
Cosa c’è di vero? Cosa c’è di falso?
Mi chiedo se haido non abbia scritto Lies and Truth
anche – se non soprattutto – pensando a quel che restava del suo mondo
affettivo.
Oggi essere gay è quasi una moda. Ci si sposa e si professa
persino l’orgoglio di essere omosessuali. Dieci anni fa non era affatto così.
Sospetto che in Giappone non valga neppure ora. O meglio, va bene finché si
dice, finché si mima e finché si mormora. Poi, se hai la sfortuna di innamorarti
sul serio, preferisci fare quello che migliaia di ragazzi qui fanno ogni giorno:
ti butti sulle rotaie della Yamanote, dal tetto della scuola, ti tagli i polsi.
Ti togli di mezzo.
Sai da solo che hai violato il sistema e che il sistema non
perdona.
Semplice. Pulito. Lineare. Giapponese.
Tutto questo non implica affatto sia vero che Yacchan e haido
siano stati amanti come dicevano – e volevano – tutti. Era voce comune che anche
Sakura avesse un sacco di amiche e pure Hideto, al di là di quel faccino
innocente, era uno che poteva portarsi a letto chiunque. Intendo dire che se
anche i loro sentimenti fossero stati del tutto puliti, era il contesto in cui
vivevano a sporcarli. E poi c’erano troppo lavoro e tanta solitudine; non tutti
sono in grado di venirne a capo. Ken aveva avuto quattro anni di università e
vita indipendente ad addestrarlo. tetsu era uno che si bastava da solo e spesso
persino la sua ombra era di troppo. Sakura aveva bisogno degli altri, perché
riusciva a divertirsi e rilassarsi solo così. Hideto aveva bisogno di qualcuno
che si occupasse di lui, perché non era autonomo nell’unica cosa che i soldi e
la fama non possano comprare: la sicurezza di esistere e valere più dei
settecento yen di una rivista.
È così che si sono trovati: io penso a te - tu
pensi a me. Non credo che sia difficile immaginarli allora, due ragazzi che
cavalcano l’onda del successo. Sono giovani, sono belli, sono sulle copertine di
ogni rivista. Sono sulla bocca di tutti. Sono pieni di ragazze che farebbero
follie anche solo per sfiorarli, perché – e Ken e tetsu non hanno problemi ad
ammetterlo – sono quelli che spiccano con maggiore evidenza. Tutto questo in
superficie; in sostanza non hanno quasi il tempo di respirare, perché tutta la
loro vita si consuma tra set e sessioni di registrazione. Prima che riescano a
realizzarlo, vivono insieme tutto il giorno.
Sakura sa che il formidabile tenore di un palco illuminato da
faretti dozzinali nel privato è timido come un coniglietto. Hideto sa che il
cattivo ragazzo dei PV, il maschio maledetto e kakkoi, è in verità un
bambinone attaccato alle gonne di sua sorella Yuki e un figlio di mamma non meno
coccolato di quanto non sia stato per primo.
Sakura sa che Hideto è allergico al pelo del gatto e si
raffredda con niente. Hideto sa che Sakura soffre d’insonnia cronica e non beve
caffè per questo stesso motivo.
Sakura sa che il piatto preferito di Hideto è il riso al
curry. Hideto sa che a Sakura fa schifo il latte.
Tanti piccoli dettagli, che si sommano l’uno all’altro e
cominciano a congiungersi come piccoli, robusti anelli di una strana catena di
circostanze. Diventano amici. Poi qualcosa in più. Poi, forse proprio durante il
lunghissimo tour dell’estate del millenovecentonovantacinque, una sera bevono
troppo.
Completamente sbronzi tornano in camera, ma l’alcool in
circolo impedisce a entrambi di prendere sonno. Fa caldo. Sakura va a farsi una
doccia. Il bagno resta aperto, perché i fratelli non hanno pudori, ed è così che
si sentono reciprocamente. Fratelli.
Fino a quel momento, almeno, lo sono stati.
haido si spoglia come un sonnambulo, lo raggiunge e lo
abbraccia come fa sempre. Si bagnano, ridacchiano e giocano. Si eccitano l’uno
con l’altro. haido ha capelli sanguigni che gli scivolano fino ai fianchi. Per
la prima volta Yasunori realizza che è vero, che non sembra un maschio. Che ha
un viso bellissimo.
Forse Hideto lo provoca. ‘Vuoi baciarmi, Yacchan?’
Accade.
Lo vogliono e non lo vorrebbero al contempo, ma accade. Forse
è persino bello, perché anche l’affetto è una specie di amore.
Quando sono abbastanza lucidi da realizzare quel che è
accaduto, è troppo tardi: hanno saltato il fosso.
È shockante, imbarazzante, quasi deprimente; sono due ragazzi
eterosessuali in cui si insinua il tarlo del dubbio. Hideto è più coraggioso,
non ha paura dei propri sentimenti.
È cresciuto con i Beatles e i baronetti gli hanno insegnato
che All you need is love. Quale importanza può avere il sesso?
Sakura no; magari, da buon buddista, si chiede quale sia
l’antico tumore del suo karma, se l’ha sviato ancora una volta.
Forse resta un episodio isolato, di cui non parlano mai.
Forse si ripete. haido, in ogni caso, vuole dormire con lui, e questo solo basta
a far mormorare il Giappone.
Infine il tramonto. Sakura ha un problema che neppure haido
riesce a risolvere. Gli sta morendo davanti e Takarai non può fare niente.
Niente di niente. Neppure parlarne con tetsu, perché ha perso l’abitudine, da
quando è sempre incollato a Yacchan. Ogawa non recrimina, perché come sempre
pensa al gruppo. Poi c’è l’arresto, e forse chiede a haido cosa cazzo avesse in
testa, per aspettare che si arrivasse a un punto di rottura. O, probabilmente,
non dice nulla per l’ennesima volta, perché haido piange e vomita in un bagno
fino al collasso completo.
Buio.
Sono semplici illazioni, che pure si compongono in un mosaico
credibile: un mosaico in cui c’è un terzo termine che all’improvviso può
permettersi di dettare legge.
Hanno distrutto in un niente sei anni di lavoro del loro
leader; hanno distrutto la fiducia che tetsu aveva riposto in loro. haido si
sveglia lentamente, ma quando finalmente realizza, cade in preda al panico.
All’improvviso ricorda quanto sia unico e importante Tetsuya e fa di tutto per
rientrare nelle sue grazie. Niente distrazioni, niente Sakura: solo lavoro. E
poi ha paura, paura di trovarsi davanti Yasunori e vedersi costretto con le
spalle al muro, perché la prima vera prova di amicizia che doveva dargli era –
checché creda – fare la spia. Invece ha taciuto.
Ma cosa pensa davvero Tetsuya?
È curioso che nessuno si sia mai posto questa domanda. Sono
tutti talmente presi da una sceneggiata sakuhai da perdere di vista la
realtà: e la realtà è che il leader del gruppo non è Hideto e neppure Sakura. Il
leader è Ogawa, e su Ogawa cadono la merda del caso, le ritorsioni della Sony e
le conseguenze di una debolezza che non è la sua. È a partire da questo momento,
immagino, che il rapporto tra tetsu e haido cambia. Si sbilancia del tutto.
Prima la corrente della fiducia e della stima fluiva con
reciprocità. Ora Hideto è il debitore che deve trovare il mezzo per affrancarsi,
mentre Tetsuya è un creditore muto.
Nella loro storia entrai proprio in quel momento. Il mio
prima e dopo nasce da ricordi esterni, beninteso, ma penso che ci siano
buone probabilità che non sia tutto frutto della mia immaginazione. Sbaglia chi
crede che tetsu abbia tolto il saluto a haido o l’abbia perseguitato in qualche
modo. Ogawa rimase sempre molto sollecito e molto gentile. Lo pungolava con
ironia, scherzava con affabilità, lo incoraggiava prima delle uscite pubbliche.
Cos’era cambiato, dunque?
Penso che a haido rimordesse la coscienza e vedesse nel
solito Tetsuya gli interessi del leader e non quelli dell’amico. A volte capita
di odiare se stessi e dunque trasferire sugli altri il peso di sentimenti tanto
ostili; come ho già detto, siamo umani. Forse, però, era anche vero che Ogawa
non fosse perfetto e velasse appena meglio degli altri antiche recriminazioni,
le stesse che alla fine trovarono una voce.
Un bel giorno Tetsuya disse che aveva pronta una canzone per
il nuovo album. Ci fece ascoltare qualche demo della base e tutti convenimmo
fosse un ottimo lavoro. Anche Hideto, che ci aveva canticchiato sopra, disse che
non sarebbe stato difficile trovare le parole. tetsu sorrise come una Monna
Lisa, prima di menare la stoccata. ‘Le parole già ci sono. Le ho scritte io.’
Era Perfect Blue.
Qualcosa si ruppe dunque anche in Hideto, immagino, che non
era tanto stupido da non capire a chi fosse rivolto quel testo feroce, ma non
poteva neppure protestare e scoprirsi. haido sapeva di aver sbagliato, di aver
contratto un debito immenso, ma anche di non averlo fatto con calcolo e
cattiveria. Invece Tetsuya, come un vero leader, era spietato, e gli chiedeva di
cantare una canzone in cui dava del cane a Sakura e a quell’idiota di Doihachan.
Gli chiedeva, insomma, di interpretare l’atto di accusa del suo stesso processo.
Erano passati due anni dal crimine, ma per tetsu non esisteva prescrizione.
haido lo assecondò fino in fondo, poi si rifugiò in Megumi
senza chiedere il permesso a nessuno; ne aveva abbastanza di farsi prendere a
morsi il cuore dalla musica. Aveva bisogno di ossigeno. Aveva bisogno di un
amore e di una donna e di radici. Quel biennio l’aveva come prosciugato, ma era
pronto finalmente a ribellarsi.
Staccò la spina per un po’, cominciò a prendersi cura del suo
corpo, rinunciando per sempre a quegli ultimi strani residui di femminilità che
si trascinava dietro. Fece l’amore con la donna che aveva scelto. Mise su chili
di muscoli fin troppo evidenti, si tatuò sulla schiena le ali che aveva sempre
sognato. Disse ‘Mi sposo’ senza consultare neppure il manager. Cominciò a
fregarsene di Tetsuya o a fingere fosse possibile; pose le basi di una recita
che credeva fosse la realtà, insomma, forse convinto che lo sarebbe diventata.
Poi, man mano che la freddezza di tetsu verso quel suo atteggiamento più
volitivo, solipsista e ribelle si faceva evidente, cominciò forse a sentire
anche il fremito viscido della paura. Strinse i denti e lo negò. Ormai era
andato troppo avanti perché potesse tornare indietro.
Mi accorgo che il racconto è ellittico, confuso, pieno di
passato e di presente insieme; il problema è che il tempo negli affetti non
esiste. Non c’è neppure causa-effetto: devi seguire il buonsenso, l’ispirazione
e la fiducia nel tuo istinto.
Parlavo del duemiladue, citando i grandi successi di tetsu.
Ma il duemiladue fu anche l’anno di Moon Child. Il film non è un
capolavoro di quelli che diresti indimenticabili, perché è evidente ch’è
destinato a fanatiche dei protagonisti più che della storia, ma haido è bravo,
molto più bravo di quel che ti aspetteresti da un principiante. Soprattutto
sembra coinvolto dal complesso gioco di sentimenti in atto, forse perché gli
somigliano davvero.
Lo rividi in autunno; era abbronzato, ma più magro ancora di
quel che ricordavo. Rideva, non con lo sguardo, però. Era altrove, persino s’era
davanti ai tuoi occhi in quel medesimo istante. Era impossibile dire cosa
pensasse; forse Tetsuya, che c’era già passato, avrebbe capito che stava
scivolando di nuovo nel baratro della depressione. Aveva problemi con Megumi,
pareva. Parecchi giornali scandalistici vomitavano fango su di loro e parlavano
di un naufragio sentimentale da milioni di yen. A me non disse niente, però, e
questo mi bastava a credere fosse ancora tutto falso e cattivo. Ingiustamente
cattivo, per una persona infelice e indifesa come lui.
haido beveva molto, troppo per la sua costituzione. Mangiava
poco, non dormiva. Prendeva sonniferi e, probabilmente, aveva ricominciato con
gli antidepressivi. Il suo viso era gonfio anche se era magro come un chiodo. Il
suo umore era un’altalena di euforie malate e tetraggini inquietanti. Senza
rendersene conto parlava spesso di morte. Credo che Megumi fosse spaventata e
non sapesse come affrontare il discorso, né come aiutarlo; Hideto, del resto,
non era quasi mai in casa. Se c’era, disegnava o dormiva. A volte poteva farlo
per un giorno intero, scivolando in stati di apatia totale, ch’era però
difficile comprendere quanto fossero legati al suo umore e quanto
all’inevitabile stanchezza di ritmi infernali. Mandava avanti la casa di
produzione, si sforzava di perfezionare il proprio inglese, faceva su e giù con
Londra. Forse il Giappone era il luogo in cui si sentiva meno a casa, o forse,
come aveva già fatto, fuggiva e basta.
Da tutto.
È in questo periodo che Sakura tornò nella sua vita,
salvandolo da qualche gesto sconsiderato. Yasunori aveva toccato il fondo e
credo sapesse riconoscere a pelle le avvisaglie. Con cautela e intelligenza, ma
anche con la forza di una vecchia amicizia, fece stavolta le veci di tetsu e lo
tenne a galla. Senza fanatismi e senza sbilanciarsi troppo: piccole offerte, la
certezza di una presenza calda e nessun giudizio. Gli permise di fare quel che
già si era detto, cantare insieme anche senza il gruppo. Ritrovarci su un palco
e divertirci come non capitava da un secolo.
Una sera, in albergo, durante il Bubble Festival,
però, Sakura mi cercò e me lo chiese senza mezzi termini: ‘Che sta
succedendo?’
Era evidente fosse arrivato da solo alle conclusioni e non
riuscisse a capacitarsene; conveniva con la circostanza che tetsu potesse
odiarlo, ma che c’entrava haido?
La verità era che non ci fossero fronti, né buoni, né
cattivi, era qualcosa che trascendeva tutto perché era solo loro. Apparteneva al
miracolo e al mistero della loro amicizia. Al più potevamo guardare o salvare il
salvabile.
Megumi rimase incinta. haido alternava momenti di entusiasmo
a silenzi che lasciavano intendere se la stesse facendo addosso, perché doveva
ancora imparare per sé il gioco della vita e non si sentiva pronto a insegnarla
a nessuno. Non era più il ragazzo di ventiquattro anni che si immaginava una
bella famigliola felice, la realtà l’aveva tempestato di colpi e gli aveva
inoculato il sospetto e la paura. In tutti quei mesi, tetsu non gli fece neppure
una telefonata: suppongo che haido avesse persino smesso di aspettarla.
I Laruku erano morti, poco da fare. Tutto lo spirito con cui
si erano tenuti a galla sino ad allora era scomparso, inghiottito da non so
cosa, forse proprio l’ineluttabilità della vita. Con l’amicizia di haido e tetsu
si era anche spezzato l’invisibile filo rosso che ci aveva sempre tenuti uniti:
ora potevamo far leva unicamente sulla nostra volontà. Darci la mano come in un
carosello da bambini, e solo se lo desideravamo.
In apparenza haido era come l’avevo sempre visto e
conosciuto: silenzioso, rispettoso, timido, affettuoso e molto fisico nel
mostrare affetto ai volti noti. Dentro, però, qualcosa si era come interrotto.
L’impressione era quella di vederlo recitare sempre, non più solo sul palco, ma
anche nella vita. Come se Hideto – i suoi sentimenti, i suoi scazzi – non
contassero più nulla. La gente si aspettava sorridesse, dunque lo faceva.
Fu la Sony a volerci di nuovo insieme per l’estate. Anzi, a
organizzare i tempi per otto concerti e persino le tappe obbligate delle nuove
pubblicazioni, due o tre singoli e un nuovo album per il nuovo anno. Semplice
no?
Tanto ormai vendereste pure merda.
La sostanza era quella.
L’assurdo di quell’incontro fu la tranquillità con cui tetsu
ci accolse insieme al resto dei dirigenti della Ki/oon: un bel sorriso, abiti
informali, l’espressione serena e rilassata di chi guarda ai vecchi amici con
indulgente distacco.
‘Certo che ti fa proprio bene stare lontano da noi, eh?’
gli disse Ken ridendo, ma so per certo che Kitamura tentasse solo di fargli
capire quale fosse la situazione dall’altro capo della barricata.
Durante la lavorazione di Smile, poco alla volta,
haido e Tetsuya si riavvicinarono. Giorno per giorno, lavorando insieme, il
feeling sommerso tornò in superficie. Era qualcosa di piacevole e consolante,
perché anche se nessuno doveva o chiedeva perdono, sembrava che la ferita si
fosse richiusa. Eppure era difficile dire dove finisse l’amico e cominciasse il
leader, visto che non era un mistero per nessuno bisognasse tamponare in qualche
modo il crollo di Hideto.
L’ho detto, siamo umani. Non carta e non macchine.
A trentaquattro anni, il corpo di haido era quello di un uomo
con il doppio della sua età. Era sempre stato delicato, ma negli ultimi due anni
l’iperlavoro e l’abuso di alcool – forse anche di altro, ma di certo non era
nulla di pubblico – l’avevano massacrato. A gennaio aveva avuto una bronchite da
cui non si era più del tutto ripreso. Di fatto la voce gli si era abbassata e
certi falsetti che un tempo gli venivano naturali erano diventati un ricordo.
Anche i testi erano qualitativamente inferiori a quelli che sapeva scrivere, ma
era quasi per primo sapesse ormai come i Laruku non fossero che una macchina per
produrre soldi. Non emozioni.
Persino le sue ne erano state divorate.
Smile non è un album di grande spessore. È accattivante e
le vendite furono strepitose, ma non vibrava in profondità come sapevo fosse
possibile. Somigliava davvero a uno zombie, qualcosa di morto che finge
di essere vivo.
Un po’ come il gruppo.
Del resto era pur vero, ciascuno per contro proprio,
pensassimo ancora alle carriere soliste; se non altro suonavi con la
soddisfazione di sentirti qualcosa di più di un ipocrita che vende perché ha una
confezione gradevole.
haido aveva un modo molto carino per descrivere quell’esperienza:
diceva che gli era servita a capire tutta l’importanza del nostro lavoro. Come
HYDE doveva registrare in due tempi – prima la chitarra e poi la voce. Doveva
occuparsi dei testi e anche della promozione.
‘Proprio io, che come leader ho sempre fatto pena. Pensa
un po’.’
Nicchiava così, mentre la sua minuscola copia gli tirava le
guance o i capelli di nuovo lunghi. Faceva una strana impressione vederlo padre,
perché aveva ancora tutte le incertezze di un figlio. Abbandonato, per giunta.
Eppure adesso mi chiedo se anch’io non stessi sbagliando, incasellandolo nello
schema delle mie aspettative e delle mie convinzioni, facendo coincidere Hideto
con haido, senza capire che Takarai era uno che, da un giorno all’altro, si era
accorto di non poter sbagliare e di non avere neppure un amico vero. Per questo
guardava a suo figlio con un misto di rimpianto e di simpatia, sforzandosi di
ricordare com’era il mondo nei suoi occhi, prima che la vita glieli aprisse con
gli aghi di quello che acclamano come buonsenso.
E invece è una fregatura chiamata disillusione.
È per questo, forse, che voleva morire a trent’anni: preferiva tenersi
stretti tutti i suoi sogni.