Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel
Segui la storia  |       
Autore: lady vampira    20/11/2010    1 recensioni
E poi… e poi ti rendi conto che è tutta una gran cavolata, che è inutile, che sei stanco e vuoi spegnere il computer, mandare il cervello in ferie, come se non avesse fatto altro tutta la vita. Decidi che è finita, che non ne vale la pena tanto non potrai mai realizzare i tuoi sogni e forse è un bene, perché se li raggiungessi ti accorgeresti che potrebbero non essere un granché, che in fondo dietro la doratura, oltre il trucco non sono poi così diversi da quello che già ti circonda; e allora scegli di occuparti di quello che già c’è e non di ciò che è lontano e non sa, non immagina nemmeno che esisti.
E poi la vita ti frega. Aspetta proprio questi momenti, per dimostrarti che ti sbagli, e poi ti pugnala facendoti scoprire che è troppo tardi per rimediare, che non hai più tempo per rimediare ai tuoi errori; che se non ti fossi arreso, sarebbe andata diversamente.
Combatti.
Non lasciarla vincere.
Mai.
E arriverai a toccare le stelle.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Lo sguardo che mi ritrovo puntato addosso è più pericoloso di un mirino al laser. Mi mordo un labbro, quando lo incrocio.
Mi scruta diffidente. E un insano terrore si appropria di me, appena mi rendo conto che con una sua sola parola, sono finita.
Vorrei evitare di fissarlo, è maleducazione e soprattutto potrebbe interpretarlo come un gesto di sfida, o magari come la spia di un disturbo mentale, ma non ci riesco. Studio i grandi occhi castani che a loro volta esaminano me, il volto da bambino, le labbra tese come in un broncio. Non è niente male, se non fosse che ha il coltello dalla parte del manico e gli basterebbe una chiamata per farmi ridurre in fettine, gli chiederei il numero di telefono.
Serena, smettila di sparare scemenze e pensa a qualcosa d’intelligente, per una volta.
Un attimo. Dov’è che ti ho già visto, a te?
Improvvisamente, mi ha investito una strana sensazione di déja-vu. Mi ha preso allo stomaco, che ora si contorce come se avessi ingoiato un’anguilla viva.
Respiro. E continuo a fissarlo, anche mentre si asciuga il volto con una spugna che ha intorno al collo, e che gli ricade sulle spalle: è parecchio ben messo, il ragazzo. Non c’è che dire. << Scusami… ti prego, non chiamare la sicurezza. Vado via tra un minuto, okay? >>.
Spero di essere stata convincente, e che questo ragazzo sia più comprensivo del vigilante. Anche se qualcosa mi dice che sbaglio di grosso.
<< Who are you? >>.
Ohhhh… merda. Pure l’anglofono ci mancava. E’ un’altra maledetta tessera che va ad incastrarsi nello scoraggiante puzzle della giornata.
Mi sembra di non farcela proprio più. Ma non posso mollare adesso. << Ehm… I go away now, okay? Do you understand what I say? >>.
Fa un cenno titubante con la testa di un bel castano chiaro, liscia e folta; è davvero carino, ma accidenti, mi ricorda qualcuno di familiare… eppure sono sicura di non averlo mai visto prima…
La porta laterale che si apre mi fa saltare. Letteralmente. Sento il cuore che mi s’impiglia nelle corde vocali e comincia a battere velocissimo, non mi lascia nemmeno respirare.
<< Gus, are you ready? What…  >>, e la domanda successiva cade. Io cado, le barriere che ancora mi tenevano in piedi cadono, e i miei neuroni organizzano un suicidio di massa “last minute”.
Non. Sta. Accadendo. No. E’ solo un’allucinazione dovuta ai ripetuti traumi subiti oggi.
Non. Sta. Accadendo.
Questo lo conosco. Eccome, se lo conosco. Non fosse altro che ha la stessa faccia sua. No, non è un’ingiuria, ma la sacrosanta verità.
E’ suo fratello. Il gemello, sì, proprio lui.
Non posso crederci… non voglio crederci.
Il Karma esiste. Devo aver commesso qualcosa di terribile, per meritarmi una simile coltellata a tradimento, dritta nello stomaco. La lama viene rigirata con grazia e destrezza dal nuovo arrivato che mi squadra con aria maliziosa, l’angolo delle labbra tirato in un mezzo sorriso sarcastico reso ancora più eloquente dal piccolo anellino argenteo. Dice qualcosa d’incomprensibile per me al suo “compare”, e l’improvviso rossore che fiorisce sulle guance del ragazzo è inequivocabile. Anche il tono secco con cui viene proferita la risposta, è inequivocabile.
Perfetto. Sta’ a vedere che mi scambiano per una di quelle matte che s’infilano nei camerini sperando in un incontro ravvicinato… ma non del terzo tipo.
Oh, Dio, perché proprio a me?
Sono troppo stravolta, esausta, arrabbiata e stordita per essere felice, o quanto meno dimostrare un po’ di… come dire? Ammirazione? Affetto? Forse riguardo, nei loro confronti. Ma non ce la faccio proprio. Sarei stata più contenta di vedere la fine di quest’ingloriosa giornata.
Forse posso ancora recuperare qualcosa. D’istinto mi volto e apro la porta, pronta a scattare; però sono costretta a fare retromarcia quasi subito. Fuori c’è una bordata di bestioni dalle braccia lunghe e larghe quanto tutta me, cranio rasato e occhiali scuri.
Opsss…
<< Wait, please. What’s your name? >>, mi domanda il nuovo venuto. Ruoto lentissimamente su me stessa; una cometa ci metterebbe di meno a ripassare dalla nostra galassia.
Già, ma le comete non trascorrono giornate assurde che si concludono -e questo è un pio desiderio, perché qualcosa mi dice che può ancora andare peggio- con un imprevisto dai grandi occhi scuri e un sorriso ironico da togliermi il fiato; e sì che io ne avevo già lasciato più di metà per strada.
<< Ehm… Serena >>, balbetto, non osando sollevare lo sguardo sapendo che mi trovo sotto il fuoco incrociato di due paia d’occhi sospettosi e fulminanti. Qualcuno mi salvi!
<< Why are you here? >>, chiede ancora, assieme a qualcos’altro di cui non colgo il senso. Sarebbe una situazione da fontana di lacrime, eppure a me non viene da piangere ma da ridere. Come un’isterica, certo, ma comunque da ridere.
<< Sorry, I don’t understand >>, spiego, stringendomi nelle spalle.
Lui mi fa cenno di attendere, sparisce dall’altra parte del vano e torna quasi immediatamente con una giovane donna sulla trentina, impeccabilmente fasciata in un tailleur blu notte e con un trucco invisibile ma perfetto, piomba su di me e mi tende la mano curatissima. Ho quasi timore di stringerla, un po’ casomai la sgualcisco, per quanto sembra delicata, e un po’ perché da piccola ho visto troppi film e sul mio schermo mentale si forma immediatamente l’immagine di me che finisco immobilizzata al tappeto con un semplice, elegante movimento rotatorio.
<< Good afternoon, I’m Anna. Nice to meet you >>.
<< Nice, too >>, rispondo, imitando il suo gesto e ritraendo prontamente la mano nemmeno l’avessi posata su una piastra rovente.
<< Cool >>, mi dice infatti lei. << Speak Italian? >>.
<< Sì! >>. Di sicuro ho le stelline agli occhi, in questo momento.  
<< Bene, allora, Serena, scusa se vado dritta al punto ma abbiamo poco tempo. Perché sei qui? >>.
Chino la testa, e dopo aver preso un respiro, elaboro un rapido riassunto della mattinata, sforzandomi di non sbirciare oltre le spalle della donna per vedere cos’è che stanno facendo i nostri due spettatori. Così, sono obbligata a fissarla negli occhi, di un celeste intenso mai visto prima. E’ così vivido che quasi abbaglia; e quelle iridi seguono ogni mio movimento fino alla fine della mia pietosa esposizione, come per valutare quanto fossi sincera.
Finché non annuisce e si volta verso i due, che mi fissano, in paziente attesa. Dice un’unica frase, che intuisco essere in tedesco dai suoni brevi e duri; grazie a Dio ne so qualcosa, quanto basta a riconoscerlo se ascolto una conversazione; ma nonostante le spasmodiche settimane di traduzioni con vocabolario alla mano, la mia conoscenza della lingua non è migliorata di una virgola: l’unica nota positiva è l’aver aggiunto qualche vocabolo alla lista di sette termini che potevo esibire prima.
Che squallore. Serena, ma che campi a fare?
Sto ancora scuotendo la testa, odiandomi a morte perché senza questa gentile ragazza, un angelo vero e proprio, direi, sarei finita linciata. Invece adesso già dal tono capisco che Anna mi ha scagionata e non sarò fucilata in piazza.
Evviva.
Se soltanto le mie gambe smettessero di tremare come canne al vento starei benone.
<< Are you sure? >>, sento che chiede Anna al “palo” ancora fermo nel vano della porta. Per la miseria, è alto sul serio; finisco per sentirmi ancora più piccola nel mio metro e sessanta scarso e nella mia suola di gomma da un centimetro e mezzo delle mie scarpe da tennis. Lui annuisce e Anna torna a guardare me, con aria premurosa.
<< E’ tutto sistemato. Puoi venire con me, d’accordo? Così nessuno potrà dire niente. Stai tranquilla >>.
Faccio cenno di “sì” con la testa, cercando di mandar giù il groppo che mi si è gonfiato in gola e provando verso Anna un’infinita gratitudine.
<< Grazie >>, le mormoro, mentre vengo improvvisamente annientata, schiacciata dalla stanchezza che mi crolla addosso tutta insieme. Lei sorride, apre la porta e va’avanti.
<< Thank you very much, and… please, excuse me >>, aggiungo poi rivolta ai due che ancora mi fissano. Brrr…. Una corrente gelida m’investe, appena attraverso la soglia; ma non proviene dai loro sguardi, è soltanto il sistema di aereazione.
Anna si barcamena con la massima disinvoltura tra i bestioni con le espressioni da gargoyle stampate sulle facce; << Lei è con me >>, spiega risoluta ad uno di loro, che blocca l’accesso ad una porta doppia.
<< Okay >>, risponde lui, e ci apre…
Oddio.
Io da qui non ci passo. Neanche morta.
La fiumana umana si è riversata qui. Tutta qui. Non ho idea di quante persone possa contenere questo posto, ma sembra che debba esplodere se soltanto ne entra un’altra.
<< Anna…>>.
<< Resta qui, va bene? E non preoccuparti >>. Mi strizza uno di quegli incredibili occhi celesti. << Nessuno ti dirà niente >>.
Sento la mia mascella slogarsi e toccare terra, mentre un brivido gelido mi taglia la spina dorsale in senso verticale, dall’osso sacro alla scatola cranica.
<< Anna? >>.
Lei ha afferrato al volo; mi sorride furba. << Hai fatto colpo, signorina. La tua storia ha talmente commosso il nostro caro ragazzo, che ha deciso di farti restare… >>.
<>, strillo, attirando l’attenzione-cosa impensabile- di un gruppetto di ragazze che mi sta accanto, tutte in pelle nera e borchie e con l’aria affamata da vampire.
<< Ma stai scherzando? >>, ripeto, ad un volume più accettabile. << Io non voglio restare qui >>.
<< E perché mai? Forse… non t’interessano? >>.
Adesso, sta scherzando. << Sì, ma… io non ho il diritto di stare qui >>.
Anna rotea le iridi; sembra una quindicenne, persino più attraente e fresca di quelle che ci circondano. << Dio mio, che ragazza coscienziosa! Ascoltami >>. Mette l’indice davanti al mio naso. << Ci sono cose, nella vita, a cui non puoi fare a meno di dire di sì. Occasioni che devi cogliere perché non torneranno mai più. Se scegli di andar via, sono pronta ad accompagnarti fuori di qui. Ma ti posso assicurare che te ne pentirai per il resto della tua vita, Serena >>.
Fa una pausa, di modo ch’io possa riflettere sulla portata del suo “consiglio“. << Allora, che vuoi fare? >>.
Respiro a fondo. Okay, è vero, ancora una volta mi sto lasciando imporre la volontà altrui… ma soltanto perché in questo caso coincide con la mia. E perché gli occhi di Anna lasciano intendere che con lei, ogni partita è persa in partenza. << Resto >>.
<< Brava ragazza. Divertiti, mi raccomando. E buona fortuna >>.
Dovrei averne bisogno? Ancora? Credo di non meritarmi più regali dal destino fino alla prossima vita. Mentre Anna si allontana, la guardo ed ho come l’impressione che dalle spalle di quella giacca blu dal taglio perfetto debbando spuntare due grandi ali candide e piumose.
Brava ragazza, ha detto. Già, talmente brava che aspetto di non vederla più tra la folla per ricordarmi di come  dovrò fare ad uscire, da qui.
Dannazione.
Per fortuna l’onda d’urto che mi travolge riesce a stordirmi abbastanza da coinvincermi ad accantonare la questione, almeno per un’ora o due.
So che se mantengo questa posizione, con la schiena rivolta al palco e il metallo gelido della transenna che mi sta surgelando due vertebre, potrò conservare un briciolo di lucidità mentale. Il minimo sindacale, diciamo.
Ma non posso mica fare la figura della deficiente proprio quando sono in prima fila, non vi pare?
E così mi volto. Con cautela.
La ferita nell’anima, mai del tutto rimarginata, si apre nuovamente con uno strappo dolorossimo, lancinante; una rosa nera stillante sangue.
E’ qui. Davanti a me. Pochi metri ci separano.
E il cuore invece di battere più forte mi si arresta. Occorre qualche istante, perché riprenda a funzionare più o meno normalmente, appena qualche centinaio di pulsazioni sopra la media.  
Mi sento come se avessi dodici anni e non quasi venti; ma in fondo non è mica colpa mia, se lui è così: bellissimo. Talmente bello da non poter essere vero. Avvolto dal collo in giù nella pelle nera, che aderisce alla sua in un modo… crudele, oserei dire. Crudele per noi che siamo a due passi dal paradiso e indugiamo sulla soglia dell’inferno.
Canta. Come un angelo. Versi che fanno breccia nella mente, nel cuore e nello stomaco di ognuno di noi; gli stessi che mi hanno messo davanti un muro e sfidato a reagire, a scavalcarlo e se proprio non avevo scelta, ad abbatterlo a testate.
Non ce la faccio a reggere. E’ troppo. Sono immobile, pietrificata dalla emozioni che mi scorrono nelle vene in un misto di lava e ghiaccio; ho il terrore di respirare. Da un istante all’altro il mio corpo potrebbe decidere in autonomia di staccare la spina e lasciarmi sprofondare in un completo abbandono delle forze.
E’ così forte che sono obbligata ad anestetizzarmi. Cerco di distogliere lo sguardo, ma putroppo muovere le iridi o quanto meno abbassare le palpebre non rientra nelle mie facoltà. Sono… stregata, calamitata dalla voce a tratti morbida, più spesso graffiante; dalle mani bianche come colombe armate di lunghi artigli neri che mi afferrano e mi straziano col loro sensuale potere. La musica mi prende, mi sommerge e…
Accade. Quando meno me lo aspetto, mi coglie indifesa, sguarnita e mi affonda dentro, invincibile. Quello sguardo che ha perseguitato i miei pensieri fino a portarli sull‘orlo della follia, al totale annullamento della razionalità, ora si specchia nel mio.
La mia energia vitale viene risucchiata da quei buchi neri dall’incredibile forza di attrazione gravitazionale. Il buio è così denso, profondo che mi si stringe attorno come tralci d’edera rampicante, e mi lega saldamente a sé.
<< Too young to break the chains… >>, “ troppo giovani per spezzare le catene“, grida la sua voce. Io non sono più così giovane, almeno non quanto lui; tuttavia spezzare questa catena è impossibile anche per me.  
Lo so che mi ha vista, l’avvertito nell’improvvisa, infinitesimale esitazione che ha avuto; nella lievissima incrinatura che ha attraversato il suo canto dolce come una vena aperta di malinconia. Forse un’altra ragazza, in un altro momento avrebbe acchiappato l’occasione al volo, approfittandone per strizzargli un occhio o mandargli un bacio; ma non io, che me ne sto impalata come uno stoccafisso, incapace perfino di sbattere le palpebre.
E sorridi almeno, no? Imbecille che non sei altra, Serena!
Amen, ormai è andata. Mi sono decisa troppo tardi a riattivare le funzioni vitali; già non mi guarda più da un pezzo.
E’ proprio un’assurdità che io mi sia lasciato sfuggire dalle mani quest’attimo, la sfera di elettricità che per un secondo ci ha avvolti isolandoci da tutto il resto, una sorta di bolla di sapone dai riflessi rosso dorato, iridescenti.
E’ esplosa. E non tornerà mai più.

Cenerentola sola e abbandonata non ha perso la scarpetta -per il bene dei presenti che altrimenti sarebbero stati costretti a sottoporsi ad una terapia in camera iperbarica- ma la via d’uscita. Accidenti, questo cavolo di palazzetto è un vero labirinto; già solo svincolarmi dal gruppetto di pazze schizzate che avevo intorno mi è costato uno sforzo mentale enorme, e forse è per questo che mi sento un po’ annebbiata, giro, giro e non so dove vado.
Sono esausta. Continuo a peregrinare da un corridoio all’altro senza risolvere niente.
O forse no… Mi si para davanti un bivio. Due diramazioni, destra e sinistra, e una porta chiusa di fronte a me, sul muro. Sopra l’architrave c’è un cartello: << Uscita d’emergenza 5 >>.
Be’, se non è un’emergenza questa… Mi faccio coraggio e come in uno di quei film d’avventura in cui bisogna scegliere una porta e scoprire se dietro c’è la salvezza o una belva pronta a sbranarti. A questo punto dovrei aver capito che non è saggio fidarsi della porte chiuse; ma è anche vero che mi trovo in una zona vietata ai non addetti, quindi il mio unico desiderio è filarmela al più presto senza farmi beccare.
Con mio grande sollievo, appena poso la mano sul pomello cede senza opporre resistenza. Infilo la testa nel taglio che si apre: controllo, guardinga. Non c’è nessuno.
La porta di fronte a me sembra sorridere ed invitarmi ad andarle accanto, aprirla e scrivere la parola “fine” su questa giornata indescrivibile. Sospiro, ed attraverso la piccola camera popolata solo da un tavolino e un paio di sedie di metallo. Sono così contenta, che mi rendo conto dell’altra porta laterale soltanto quando ho già la mano sul pomello e sento lo scatto della serratura…
Oh. Santo. Cielo.
Qualcuno mi porti un defibrillatore.
Adesso!
E’ stupito. Incredulo. E senza tutta quell’armatura di pelle addosso, è quasi fragile e smarrito. I jeans neri e la maglia rossa evidenziano quanto in realtà sia esile. E alto; non finsce mai, l’esame a cui lo sottopongo mio malgrado. Per arrivare agli occhi mi ci vuole una vita più un altro po’ di tempo ancora.
E quando li incontro me ne pento. I capelli corvini, umidi, gl’incorniciano l’ovale pallido del volto perfetto, che serba solo una lieve traccia del trucco nero di scena. Appena un filo di matita sotto quegli occhi…
Ti prego, non guardarmi così… per favore.
Per favore.
<< Io.. Ehm… I’m sorry, go away now >>. Ma proseguire è più difficile del previsto, nonostante la mia mano sia ancora avvinghiata al pomello che ora è rovente.
<< Wait, please >>.
Non posso credere alle mie orecchie. Non l’ha detto, me lo sono solo immaginato.
Certo che è così. Non ha schiuso la sua splendida bocca carnosa per pronunciare quelle parole e lanciare l’incantesimo che inchioda i miei piedi al pavimento.
E dai, muovetevi, infami!
<< Wait here, please >>.
Ahhhh… allora insisti!
Ci mette un secondo. Quando torna irrompe nel mio territorio con la sua carica magnetica e m’immobilizza soltanto porgendomi un foglio di carta e una penna.
Sorrido, ma è più un tic nervoso, la mia faccia dovrebbe essere più rilassata, felice magari; invece la sento di gesso e scommetto la mia scarsa paghetta mensile che sembra quella di una vittima di un ictus cerebrale.
Per contro, cuore e polmoni sono scioltissimi, e lavorano a pieno ritmo; mi dolgono le costole, per quanto il mio respiro è agitato, si spezza in continuazione come un filo troppo teso. Riesco a malapena a percepire il flusso d’aria che entra ed esce dal mio petto; è così veloce che l’ossigeno potrebbe concedersi le ferie, tanto non ha nulla da fare. Eppure ho ancora voglia di fare la spiritosa. <>, ridacchio, scuotendo piano la testa impallata. Ma lui è serissimo.
<< Write >>, mi ordina dolcemente.
Improvvisamente mi chiedo se tutto questo non sia un gigantesco scherzo, una candid-camera. Sono tentata di mettermi a a cercare con lo sguardo l’eventuale presenza di telecamere che spiano tutto col loro occhio nero lucido.
Peccato che non ho il coraggio di rialzare gli occhi dal foglio che stringo in mano.
<< Write >>, mi ripete. E ricomincio ad innervosirmi, a tremare dentro e fuori. So che non si tratta di mera irritazione, la solita che mi scatta dentro quando m’impongono di fare qualcosa.
Questa è molto peggio. Si chiama crisi isterica. Ed io sto per averne una.
<< What? >>, sbotto, con intonazione più acida del previsto. Ora come ora, avrei voglia soltanto di sparire nelle viscere della terra, e scampare così ai due strali bruni che sento puntati alla gola.
<< Your name >>.
Sempre scuotendo la testa, mi decido a mollare il pomello e mi dirigo verso il tavolo. Ci poso il foglio e inizio a scrivere, incerta sotto la morsa dello sguardo che sento trafiggermi la schiena.
Mio Dio, Fa’ che non si accorga del mio tatuaggio. Un sottile arabesco nero sulla spalla sinistra, che ho disegnato personalmente. Visto di fronte, è un tranquillo ghirigoro ornato in cima da una minuscola stellina nera anch’essa.
Ma se viene guardato capovolto, o soltanto viene fissato con un po’ di attenzione… anche uno scemo si renderebbe conto che sono due iniziali intrecciate. “B” e “K”.
E quello che mi sta incenerendo la schiena con la sola forza delle sue iridi non è affatto uno scemo.
Reprimo il pensiero per riuscire a tracciare sul foglio qualcosa d’intelligibile. Neppure scrivere il mio nome per la prima volta, quando ancora frequentavo l’asilo infantile, mi è mai costato tanta fatica.
Serena. “Ma non troppo“, vorrei aggiungere; ma temo che mi si spezzi la penna tra le dita.
Più che un nome di sei lettere, sembra il tracciato di un elettroencefalogramma (non il mio, che adesso è piatto); o di un sismografo.
Con le energie residue, mi volto per restituirgli la penna, e provo ad incrociare il suo sguardo; ma arrivo appena alle labbra e fremo quando le vedo schiudersi ancora mentre scuote la testa corvina e incrocia le braccia. <>.
Okay, vuoi proprio finirmi… Obbediente, aggiungo il mio cognome. Scrivo in stampatello non perché sospetti di eventuali sue deficienze visive, ma perché conosco quelle motorie che affliggono me in questo momento, a cui sono sicura si aggiungeranno quelle mentali permanenti, se non vado immediatamente fuori di qui.
<< Your telephone number, please >>.
Sempre più difficile… Scrivere dieci cifre è uno sforzo superiore solo al ricordarle.
Gli porgo il foglio con un gesto brusco, e tengo gli occhi puntati dritti nei suoi per fargli capire che non sono intenzionata ad aggiungere una sola virgola. Se Dio vuole, è finita sul serio, stavolta. Non mi sento più lo stomaco e credo di aver perso un paio di pezzi, ma respiro ancora; anche se troppo in fretta.
Dai, allora è un vizio… non mi guardare così…
<< Danke >>, mormora, senza degnare il foglio di uno sguardo; tuttavia lo stringe tra le mani come se fosse un contratto milionario o una sentenza di morte.
<< Bitte >>, rispondo io d’impulso. Miracolo! Una cosa me la sono ricordata.
Mi fissa, dolcemente stranito, come se non si aspettasse una replica nella sua lingua. Ed io sto praticamente dissanguando dalla mia ferita nell‘anima, mentre lo guardo a mia volta. Mi perdo in questi occhi da cerbiatto, potrei contarne le sfumature castane e dorate una ad una. E le sue labbra… un biglietto d’ingresso per le vie della tentazione.
Misericordia, Serena, fa’ qualcosa! Non startene lì impalata come un pinguino surgelato, svegliati! E’ il tuo momento!
Sì, certo. Mi sto muovendo. Solo che non me accorgo… e sto sbagliando direzione. Dovrei procedere in avanti, invece sto scivolando verso il basso…
Ossignore, che penitenza!
Per un assurdo istante ho come il presentimento che debba franarmi qualcosa, dentro. Ho quasi paura di questa breve distanza che ci divide, appena quella di un respiro, mi fanno paura i suoi occhi. Sono due abissi in cui cadere è fin troppo facile.
Se mi lasciassi cadere ora… sono certa che mi afferrebbe.
Ed è giusto quello che intendo evitare. Il contatto fisico. Perché so che farei la fine di un animaletto vicino ad un traliccio; forse la prima scossa, lieve, mi metterebbe in allerta, ma so che sarei spinta a riprovarci, e resterei folgorata. Non riuscirei più a staccarmi, se non quando ormai non ci sarebbe più speranza di salvezza per me.
Sono così immersa in queste cogitazioni, che nemmeno sento la porta dietro di me bersagliata da colpetti secchi e perentori, e successivamente aprirsi.
<< Ehm, excuse me, mister Kaulitz, there’s a problem… >>.
Lui si volta, e sbircio anch’io.
Oh, cavolo! E’uno dei bestioni in compagnia del vigilante di prima.
Okay, a questo punto non mi resta molto da fare…
<< Auf Wiedersen >>, mormoro, senza aspettare che torni a guardarmi e guadagno la porta che avrei dovuto già imboccare da un bel pezzo. Corro, corro come una dannata, sembra abbia alle calcagna il demonio con tutte le fiamme dell’inferno, o quanto meno un branco di cani inferociti.
Dopo oggi, potrò iscrivermi alla maratona di New York. Senza scherzi. Scappare col cuore già devastato da una serie di traumi irreparabili non è certo una sciocchezza.
Ansimo ancora, quando sono finalmente fuori. E’ calato il crepuscolo, anche se non ho idea di che ore siano. Non ho con me il cellulare, non so dove andare, sono circondata da una marea nera in cui mi apro un varco a stento. L’adrenalina è scemata, adesso che sento con certezza di aver esaurito le sorprese, per oggi, inizio a rilassarmi.
Respiro piano, mentre cammino, e mi guardo attorno. Mi rendo conto lentamente di non aver né mangiato, né bevuto nulla, da stamattina quando sono arrivata.
E non ho neanche fame. Non desidero nulla. Neanche più trovare i miei, o tornare a casa. E’ come se fossi estraniata dal mio corpo e dalle sue necessità fisiologiche; potrei camminare all’infinito e neppure me ne accorgerei. Sono trainata dalla forza d’inerzia.
Sono… vuota. A caldo, non riesco ancora a mettere a fuoco gli avvenimenti. Non posso ancora credere che…
<< Serena! >>.
Non riesco neppure a trasalire, quando mi volto. E’ Clara. Le sorrido appena.
<< Finalmente, mio Dio! Credevo di dare i numeri, sono stata seduta sul cofano dell’Ibiza fino ad adesso! Per fortuna che mi sono fermata immediatamente, invece di seguire te, altrimenti… >>.
Parla, continua a snocciolare scemenze, cose che non ascolto e non comprendo. Mentre monta la stanchezza, una piacevole sensazione di pesantezza nelle gambe e nella schiena, rivolgo mentalmente un pensiero al cielo sopra di noi, che mostra già le prime piccole, brillanti luci argentee.
Grazie. Non ho fatto per meritarmelo ma… grazie.
<< Comunque tua madre ed Emanuele ci aspettano vicino all’auto. Ricordi dove hai parcheggiato, vero? >>.
Annuisco.
<< Serena >>.
Il tono grave, nero, m’inchioda. La guardo, piccola macchia rosa indefinita accanto a me, e subito riattivo tutte le mie facoltà cerebrali.
<< Ma… erano “loro”, vero? >>.
Tendo un angolo delle labbra. E scuoto la testa, riprendendo a camminare.
<< Mamma mia… non posso… >>.
<< Non puoi. Appunto. Nessuno dovrà sapere nulla >>, dico, tranquilla, quasi distaccata.
<< Ma… >>.
<< Vuoi vedermi nei guai? E finirci anche tu? >> la minaccio. Lei fa cenno di no.
<< Allora, siamo d’accordo. Bocca chiusa >>.
Siamo già nel parcheggio, quando formula l’ultima frase: << Serena, ancora una cosa, poi non ti scoccio più >>. Strano, potrei dire che avverto una sorta di timore reverenziale, nella sua voce. Sono curiosa, effettivamente.
<< Ma… l’hai visto da vicino? >>.
Molto, da vicino. Così vicino che avrei potuto contare una ad una le sue impressionanti ciglia nere, lucidissime, lunghissime, che ad intervalli regolari scendevano ad ombreggiargli gli zigomi alti e scolpiti; così vicino che potevo assaporare il profumo del suo respiro, l’odore morbido e invitante del corpo fresco di doccia, dei capelli ancora bagnati. Così vicino che…
Oh, mio Dio. Ora è tutto reale. Io… sono… stata… di fronte… a lui…
Mi aggrappo alla spalla di Clara, la voragine che s’apre sotto di me e m’inghiotte è il finale perfetto di questo giorno. Accolgo il nero che avanza come una benedizione.
Vorrei poter dimenticare tutto, quando mi sveglierò.
Vorrei…
  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel / Vai alla pagina dell'autore: lady vampira