Dudley
Dursley era un uomo banale.
Abitava in una piccola casa nel Surrey, anonima, come tutte le altre
del circondario, con il giardino ben curato, le siepi ben potate e il
cane ben educato che corre incontro al padrone appena aperta la porta
di casa.
Dudley, aveva preso in
consegna la ditta del padre, il granitico Vernon Dursley, la
Grunnings, produttrice di trapani, dove si recava a lavorare ogni
giorno, dalle otto precise alle sedici e trenta in punto. Molti
avevano avuto consigliato il padre di continuare lui stesso, il
lavoro in azienda, consci del fatto che se il padre era assai
intellettualmente limitato, il figlio non avrebbe potuto che
peggiorare la stiuazione, ma Dudley aveva stupito tutti, sviluppando
quel non so che di senso del commercio che anche i semplici, gli
ultimi della classe, riescono a padroneggiare nella contingenza della
vita.
I maligni sostennero per
molto che Dudley avesse appreso con facilità la nozione che
per
mantenere lo stile di vita agiato cui era stato abituato, sarebbe
stato opportuno imparare un mestiere.
Ad ogni modo, gli utili
della ditta si erano mantenuti stabili, nonostante la sfavorevole
congiuntura economica che aveva flagellato il Vecchio Continente,
come una di quelle vecchie bagnarole che emergono dalle tempeste,
inaffondabili e quasi indipendenti dalla volontà del proprio
timoniere.
Quella
mattina d'aprile
Dudley Dursley fu svegliato alle sette dall'insopportabile trillo
della sua sveglia d'ottone, come tutte le mattine. Dudley
grugnì,
abitudine che l'accompagnava fin dalla più tenera
età, cercando con
la mano tozza il tasto di spegnimento.
Si alzò a fatica dal
letto, grattandosi la testa squadrata e facendo correre la mano fra i
capelli biondi a spazzola. Tirò su le tapparelle,
andò in bagno a
radersi, e si infilò un completo da ufficio blu scuro, che
lo faceva
sorprendentemente somigliare ad un gorilla di un'agenzia di
sicurezza.
Con passo pesante scese
le scale della villetta, rischiando di inciampare almeno due volte,
prima in un'automobilina giocattolo, poi in un pattino a rotelle
mezzo rotto, abbandonati sul pianerottolo.
Un buon odore di fritelle
allo sciroppo d'acero solleticò le sue narici, e Dudley, che
aveva
le dimensioni di un cucciolo di Beluga, si rallegrò, facendo
il suo
ingresso in cucina.
"Buongiorno Dudley!"
Pigolò allegra la signora Dursley, Annah. Era una donna
minuta, che
stonava alquanto con l'immagine dell'imponente marito. Il naso
affilato, i due prominenti incisivi marcavano la somiglianza che
aveva col fratello, Piers Polkiss, amico d'infanzia del marito.
"'Giorno Annah" Esclamò Dudley, stampandole un rumoroso
bacio sulla guancia, prima
di girarsi verso la tavola, dove due ragazzini stavano seduti, in
silenzio. Il primo, grassoccio, identico al padre, a parte i capelli
castani, eredità materna, fissava inebetito il televisore,
nemmeno
facendo caso alla presenza paterna. Pareva immobile, tranne che il
dito indice, che continuava a saltare sui tasti del telecomando.
Il secondo era piccolino,
minuto, simile alla madre, ma con occhi verde smeraldo e capelli di
un sorprendente colore rossiccio. Sorrise al padre, allegro,
prendendo un biscotto dal piatto della colazione.
Dopo la nascita del
figlio, per giorni Dudley e Annah si erano interrogati circa il ramo
della famiglia da cui il bimbo avesse preso tali caratteri, e Dudley
aveva volontariamente rimosso una certa zia Lily, di cui ben poco
sapeva, ma di cui era certo ben poco bisognava dire.
Aveva invitato suo cugino
e la sua famiglia al matrimonio, al battesimo di Osvald Dudley Junior
e anche a quello di Harold Vernon, ma in nessun caso Harry Potter e
la sua strana famiglia si erano presentati, con gran gioia di Vernon
Dursley Senior.
"Osvald, saluta il
papà!" Gracchiò Annah, spegnendo il televisore al
figlio, che
protestò animatamente, urlando con tutta la potenza che i
suoi
polmoni da bambino di dieci anni gli permettevano, finche la madre,
esasperata, non infilò nel piatto del figlio una fumante
porzione di
frittelle, paragonabile a quella del padre.
Osvald era un Dursley, un
vero Dursley, come dicevano nonno Vernon e zia Marge, che non
perdevano occasione per esprimere la loro preferenza verso quel
nipote che sposava in pieno le loro aspettative, mentre Harold,
bè...
Harold, come diceva Vernon, era sicuramente più un Polkiss.
Dudley baciò
affettuosamente la moglie, salutandola per andare in ufficio, e
caricò i figli per portarli alla scuola elementare St.
Crispin, in
fondo alla strada, sopportando le grida di rito che Osvald riservava
a tutti come ogni mattina, e le osservazioni stralunate, ma acute di
Harold.
Harold aveva nove anni,
un carattere acuto, spesso troppo per la sua età, infatti i
compagni
spesso lo prendevano in giro, ma era caparbio, orgoglioso, con una
passione per i libri che Dudley non riusciva a spiegarsi. Era
solitario, non perchè non amasse parlare, ma
perchè spesso amava
isolarsi e osservare.
Inutile dire che Osvald
spesso aveva la meglio su Harold, ma Harold non sembrava curarsene
troppo. Dudley era un po' preoccupato, spesso il figlio tornava a
casa con qualche livido, aveva cercato di insegnarli un po' di boxe,
era un campione ai tempi del liceo, però il ragazzino si era
prestato alle lezioni più per far contento il rissoso padre
che per
difesa personale.
Scaricò i figli davanti
alla scuola, e proseguì verso la sede della Grunnings.
Era
una mattina normale
come tante, il lavoro procedeva come al solito, anche se Dudley
avvertì dentro di sè una spiacevole sensazione,
quella tipica di
quando si sospetta l'accadimento di qualcosa di estremamente
sgradevole.
Decise di non curarsi, e
di non farsi prendere dalle suggestioni. Mica era come suo cugino
Harry, non aveva certo il dono della preveggenza!
Ridacchiò fra sè e sè,
riponendo quell'inquietudine che l'aveva turbato in un cassetto della
sua anima, e riprese il lavoro come al solito. Rispose ad un paio di
telefonate, gestì gli ordini, ispezionò
personalmente l'azienda,
da cima a fondo, e si preparò alle quattro e mezza di
pomeriggio ad
andare a prendere i figli a scuola.
Era alla guida della sua
famigliare grigio metallizzata, quando il suo telefonino
squillò.
Dudley accese il vivavoce e si mise in ascolto.
"Pronto? Il signor
Dursley?" Chiese una voce femminile dall'altro capo del
telefono.
"Sono io, dica
pure".
"Sono la signorina
Amanda Dickinson, la segretaria del preside Crooks. Chiamo dalla St.
Crispin."
La sensazione di disagio
che aveva disturbato Dudley quel mattino, fece capolino dentro di
lui.
"E' successo
qualcosa?" Chiese, cauto.
"Eh... La mandavamo
a chiamare proprio per questo, suo figlio è qui in
presidenza, il
signor Crooks vuole parlare con lei. Può passare fra poco?"
"Certamente. Ma
stanno bene?" Chiese l'uomo, preoccupato.
"Certo! E' una
questione disciplinare, meglio che passi da noi."
Dudley chiuse la
chiamata. Sicuramente Osvald aveva di nuovo pestato qualche
ragazzino. Ne era certo. Avrebbe dovuto togliergli la televisione per
un po'. E forse metterlo a dieta, perchè magari se fosse
dimagrito
almeno un po' forse avrebbe smesso di schiacciare i compagni
più
piccoli. Pensò a se stesso da bambino, e diventò
paonazzo. Gli
somigliava.
Entrò
nella St. Crispin
a passo rapido e fu condotto dalla signorina Amanda nell'ufficio del
preside Crooks.
Era una stanza grande,
con le sedie imbottite e una grossa scrivania centrale, dove l'uomo
era seduto.
Trasse un sospiro e si
avvicinò al tavolo.
"Cos'ha combinato
Osvald questa volta?" Chiese, a mo' di saluto.
"In verità l'ho
chiamata per Harold. Oggi è salito sul tetto della scuola."
Dudley ebbe un tuffo al cuore, diventando paonazzo.
"C-come?"
Chiese, con un filo di voce.
"Il ragazzo non
riesce a spiegarselo. Ha detto che stava correndo in cortile, quando
all'improvviso si è trovato sul tetto, dopo un bel salto.
Ovviamente
non ha senso." Affermò Crooks, mentre Dudley diventava da
violaceo a pallido come un fantasma. Poteva essere? No, non poteva,
non poteva essere. Affermò il Dursley dentro di lui. Eppure
una
vocina lontanta gli stava facendo ricordare un episodio del suo
passato, che credeva ormai d'aver rimosso.
Stava inseguendo suo
cugino Harry, avevano nove anni. Non ricordava esattamente il
perchè,
ma sapeva che in quel periodo era il suo punching-ball preferito. Ad
un certo punto Harry aveva saltato ed era sparito dalla sua visuale.
Era stato ritrovato poco dopo sul tetto della scuola.
Dudley rabbrividì.
Il preside continuò per
un bel pezzo, parlando di norme disciplinari, di comportamenti, ma
Dudley non l'ascoltava più. La sua mente era tornata
indietro,
scomponeva e ricomponeva il salto di Harry, più e
più volte. La
vocina dentro di lui ormai aveva assunto le proporzioni di
un'allarmante sirena da ambulanza.
Uscì frastornato dalla
scuola, con un orrendo mostro del dubbio a tormentarlo. In silenzio
caricò Osvald, che non faceva che ridere, contento del fatto
che per
una volta il preside avesse richiamato Harold e non lui, e Harold,
che cupo e silenzioso si sedette.
Non dissero una parola
per tutto il viaggio.
Dopo
le spiegazioni ad
Annah, dopo aver rifilato due scapaccioni ad entrambi, e averli
spediti a letto senza cartoni animati, Dudley entrò in
camera di
Harold, che seduto con le ginocchia abbracciate, fissava il
copriletto.
Dudley si sedette con
cautela sul bordo, mentre il materasso cedeva un po' sotto il suo
peso. Restarono in silenzio per un bel po'. Dudley a fronteggiare la
sua peggiore paura, e Harold a meditare sull'accaduto.
"Non l'ho fatto
apposta, papà". Disse infine il ragazzino, fissando il padre
coi suoi sorprendenti occhi verdi. Dudley non disse niente,
limitandosi a fissarlo. In quel momento l'immagine di Harry, da
piccolo, nella sua mente, si sovrappose a quella del figlio. Harold
scoppiò in lacrime.
"Stavo scappando da
Dennis Fisher. Lui e i suoi amici volevano chiudermi nell'armadietto
delle scope. Stavo correndo, ho cercato di saltare il muretto delle
cucine e mi sono ritrovato sul tetto!" Gridò, in un modo
quasi
disperato.
Dudley lo prese in
braccio, stringendolo forte, per scacciare ogni paura, più
in se
stesso, che nel figlio.
"E' la prima volta
che succede?" Chiese piano, mentre accarezzava la fronte di
Harold. Il ragazzino lo fissò, curioso, prima di fare cenno
di no
con la testa. In quel momento Dudley ebbe paura di svenire.
"La settimana scorsa
ero in mensa. C'erano i broccoli. Non mi piacciono i broccoli. Ho
immaginato di mangiare le patatine fritte che stava mangiando il
preside Crooks. E all'improvviso le mangiavo davvero! E' stato
incredibile!". Cantilenò allegro Harold, con la stessa
espressione di un bimbo che aveva appena preso un bel voto a scuola.
"Sono stato bravo,
vero papà?" Chiese, guardando Dudley negli occhi. Era suo
figlio. Non poteva essere... Come quelli. Eppure Dudley, sotto sotto
incominciava a capire.
"Sei stato bravo".
Mentì, accarezzando la testa del ragazzo, dopo avergli
rimboccato le
coperte.
Dudley
restò sveglio
tutta la notte a fissare il soffitto. Tutto stava prendendo forma.
Immaginò il viso paonazzo di Vernon Senior.
Immaginò la faccia
inorridita di Petunia Dursley. Immaginò la sorpresa negli
occhi
della moglie. Immaginò che non ce l'avrebbe fatta a fare
tutto da
solo. Non era capace. In quel momento Dudley Dursley, per la prima
volta in vita sua, capì che aveva bisogno d'aiuto.
Capì che era
troppo per lui e avrebbe dovuto farsi aiutare. C'era un'unica persona
in grado di farlo.
Si alzò dal letto,
pensando a quel che in quel momento provava suo figlio, alla
spiegazione del perchè si era sempre sentito diverso,
strano,
lontano dai suoi coetanei. In quell'istante capì la
solitudine e il
dolore provati da Harry nell'infanzia. Si sentì in colpa.
Decise che
suo figlio avrebbe avuto il meglio, decise che non andava soffocato,
nè costretto.
Scese le scale, e prese
il telefono, aprendo la rubrica. Un foglio ormai ingiallito ne
uscì
fuori. Compose il numero che mai si era immaginato di dover chiamare.
Il telefono squillò più volte, finchè
una voce maschile, impastata
dal sonno, gli rispose.
"Pronto?"
"Sono Dudley
Dursley. Ciao Harry."