CAPITOLO I
Quando una donna si rende conto di essere
bella
perde la grazia
di ignoralo.
La
bellezza aumentata dalla semplicità è ineffabile.
Non c’è
nulla di più adorabile
di
un’innocente abbagliante
che cammina,
tenendo in mano,
senza saperlo
la chiave
d’un Paradiso
(V. Hugo)
Dopo i convenevoli
di rito le bottiglie di birra vennero stappate con
meticolosa precisione e Orlando condusse Dom ed Elijah nello studio dove si trovava Galatea. La statua era
posata su un cavalletto al centro della stanza in modo da poter essere
esaminata da ogni angolazione, ripiegata su se stessa
come un morbido fiore.
Orlando pigiò
l’interruttore e subito la sua scultura venne
illuminata fa un fascio di luce potente proveniente da un gruppo di faretti
alogeni.
- Vi presento Galatea.
– annunciò con un gesto teatrale.
Non appena la vide Dom si lasciò sfuggire un fischio
stonato
- Santo cielo! – esclamò sbalordito – E’ una donna nuda! -
Lij si lasciò scappare
una risatina – Già. Era ora che finalmente ne vedessi una, Dom! – non riuscì a trattenersi da prenderlo in giro.
Dom gli lanciò
un’occhiataccia offesa – A differenza di te io sono un estimatore delle belle
donne e mi emoziono sempre – disse con sussiego, ignorando il sorrisetto ironico di Elijah. Poi si voltò verso Orlando – Ma dico
io, ti sembra il caso di far vedere tutto questo ben di Dio a noi povere anime
innocenti? – parodiò, mostrandosi falsamente scandalizzato.
Orlando bevve un
sorso di birra direttamente dalla bottiglia
- Allora che ve ne
sembra? – chiese sorridendo, mentre Lij girava
intorno a Galatea contemplandola da ogni angolazione
- Bella… - Lij esalò il suo commento come se l’avesse elaborato
trattenendo il fiato, mentre procedeva al suo attento esame –
Sensuale… terribilmente erotica… quando l’hai fatta? -
Orlando si strinse nelle spalle – L’ho finita pochi giorni fa. –
rispose mentre Dom avvicinava il suo viso a quello
della scultura
- Ehi, non è Kate! -
Orlando roteò gli occhi, alzandoli al cielo – Direi proprio di no. -
Lij lo guardò
esasperato – Certo che no, Dom. E’
una modella. – spiegò con pazienza
- Cazzo, che ragazza! Quasi quasi mi do alla scultura anch’io. – commentò Dominic facendo un passo indietro.
Orlando e Lij si scambiarono un’occhiata di rassegnata sopportazione
ma Dom parve non farci caso, continuando a guardare
la statua. Incrociò le braccia, sfiorandosi le labbra con il bordo della
bottiglia di birra – Allora, dimmi dove l’hai
conosciuta? – chiese.
Orlando sorrise
lentamente – Chi? – chiese con aria innocente iniziando a divertirsi.
- Come chi.. - Dom roteò gli occhi – Quando
fai così giuro che ti prenderei a sberle. La ragazza intendo!
-
Orlando assunse un’aria innocente – Io non ho conosciuto proprio
nessuno. -
- Ma va… - anche Lij - E’ un bene che non stiate
più insieme perché Kate si sarebbe incazzata come una biscia a vedere questa scultura. Praticamente è un’ammissione di corna in piena regola! –
affermò convinto.
L’espressione di Orlando era largamente compiaciuta - Per la verità
Galatea non è la confessione di nessun tradimento. – affermò, i suoi occhi che
brillavano di una luce maliziosa – Non questo per lo meno. -
Dom lo guardò scettico
- Ci vuoi far
credere che hai scolpito questa statua senza esserti
scopato la modella? -
Orlando si strinse nelle spalle – E’ così. -
Anche Lij lo guardò incredulo e Orlando si affrettò a spiegare –
La modella non esiste. L’ho solo immaginata. -
- Non ci credo! – Dom scosse il capo con decisione
Anche Lij lo fissò scettico - E’ stupefacente. -
Dom gli mollò un sonora pacca sulla spalla.
- E bravo il nostro Orlando! Così se ti va male la carriera puoi sempre ripiegare con la scultura. -
Elijah sorrise, buttando giù un sorso di birra - E’ bellissima, puoi andarne fiero. -
Lui li ringraziò
facendo una smorfia di finta modestia.
- Grazie ragazzi,
ero certo di poter contare su di voi. Se un giorno mi ritrovassi
nell’indigenza mi ricorderò delle vostre parole e voi sarete costretti ad
acquistare almeno qualcuno dei miei capolavori per una cifra esorbitante. –
affermò con una luce diabolica negli occhi.
Dom fece una smorfia
- Sono disposto a
comprare solo se la prossima volta posso vedere l’originale in carne ed ossa.
Sai com’è, non compro mai a scatola chiusa. -
- Okay l’hai promesso. Stavo pensando di iniziare a
scolpire uomini nudi… magari Lij potrebbe
farmi da modello… -
A Dom la birra andò di traverso e iniziò a tossire
- Attento Orlando
che se Dom vede il mio sederino perfetto potrebbe
decidere di convertirsi! – disse Lij ridendo
- Di sicuro non se
vedo il tuo! – Dom stava iniziando a riprendersi
dall’attacco di tosse
- Perché che cosa c’è che non va nel mio? – Lij cercò di dare una sbirciatina al suo posteriore
- E’ basso Lij – lo prese in giro
Orlando.
- Capirai! Ha
parlato quello che ce l’ha più piatto di una tavola da
surf! -
- Già – Dom rincarò la dose – Guarda che ce ne siamo accorti tutti
che porti quei pantaloni enormi solo per mascherare il
fatto che non hai di culo. -
Orlando si portò
una mano sul retro abbondante dei suoi calzoni dandosi una palpatina di controllo
- No, guarda che
questa si chiama moda, – affermò con sicurezza – il mio sedere ha sempre riscosso molto successo tra chi ha avuto il privilegio di
metterci le mani sopra. -
- Ma va, quattro sgallettate non possono certo apprezzare la perfezione – Dom si accarezzò il proprio quasi con affetto – E in ogni
caso potremo chiamare un po’ di ragazze e indire un concorso per stabilire quale è il più ... appetente. -
Lij e Orlando
scoppiarono a ridere – Già ci manca solo questo! -
Gli occhi azzurri
di Dom brillarono di malizia mentre rifilava a Orlando alcuni vezzosi colpetti d’anca - Avete solo paura della sfida perché sapete
benissimo che il mio vincerebbe il primo premio! -
Ashton Marie Winter sollevò il capo dal
mobile che stava spolverando con impegno e si passò un braccio sul volto
accaldato, scostandosi una ciocca di capelli dalla fronte.
Dire che quel
giorno era disperata sarebbe stato un banale eufemismo, eppure la mattinata era iniziata come quella di un venerdì qualunque, senza dare
segni particolari del disastro incombente.
Durante l’ora di letteratura
aveva svolto tranquillamente il compito sulla Prima Guerra Mondiale e
nell’intervallo aveva riletto con attenzione la brutta, prima di tirare fuori dallo zaino gli appunti di matematica per le
successive due ore. Aveva ricevuto le solite occhiate di disprezzo da parte di Sandy Happleby e delle sue degne compari Kristin Templeton e Tiffany Olsen, per contro, aveva ricevuto una dose doppia di
abbracci da parte di Selene che le avevano risollevato notevolmente il
morale.
Selene Portrainy era magnifica.
L’amica migliore
che chiunque avrebbe potuto desiderare e Ashton le
voleva un bene immenso.
Ashton aveva conosciuto
Selene quando la ragazza si era trasferita a Londra con suo
padre alcuni anni prima e da quel momento erano divenute inseparabili.
David Portrainy era un diplomatico di carriera e
proprio durante uno dei suoi incarichi all’estero aveva conosciuto la madre di
Selene, figlia di un generale israeliano. Si erano piaciuti istantaneamente e
di lì a poco si erano sposati, rimanendo a vivere in Israele nonostante gli
attentati e i pericoli di quella terra straziata dalla guerra e dal terrorismo.
Dopo la morte dell’adorata moglie Rachele, David e Selene avevano continuato a
vivere a Gerusalemme per alcuni anni, per poi decidere di ritornare in Inghilterra,
ottenuto finalmente il trasferimento di David al Ministero degli Esteri a
Londra.
Selene era rimasta indietro con gli studi e, su suggerimento di un
insegnante dell’istituto, Ashton l’aveva
aiutata a rimettersi in pari. Si erano conosciute, così, semplicemente, sui
libri di letteratura e di matematica, ma fra di loro
era nata una speciale affinità, una complicità, che suscitava lo stupore e le
invidie di coloro che le circondavano.
Fin dal primo
momento che l’aveva vista Ashton aveva giudicato Selene bellissima.
Di poco più alta di
lei, aveva splendidi capelli color tiziano, lunghi e
ondulati che scendevano ad incorniciare un viso dai lineamenti esotici,
leggermente spruzzato di lentiggini, che la faceva
assomigliare ad una bambola di delicata porcellana. Dotata da madre natura di
un fisico sodo e scattante che attirava gli sguardi dei ragazzi come calamite,
Selene emanava un’entusiastica gioia di vivere che contagiava chiunque le stesse accanto, ammaliato dal suo sorriso birichino e dalla
bellezza dei suoi occhi verdi come le foglie d’estate. Sportiva, dinamica,
generosa fino all’eccesso, esuberante quanto Ashton
era introversa, appariva profondamente diversa da Sandy
Happleby e dalle altre ragazze che frequentavano la
loro scuola. Nonostante appartenesse ad una famiglia benestante non aveva nulla dell’affettata compostezza che
caratterizzava molte delle allieve del St. Dorothea’s College e non possedeva neppure un briciolo di ipocrisia.
Fin qui la versione
ufficiale. L’immagine che Selene dava di sé agli altri.
Eppure sotto
quell’apparenza di forza e determinazione sembrava impossibile che una ragazza
così giovane fosse stata colpita duramente dalla vita ma Ashton
sapeva che cosa l’amica si fosse lasciata alle spalle nell’abbandonare Israele.
Non solo la
famiglia, la religione, le usanze e gli amici, ma anche il grande amore, quello
con la A maiuscola, quello che forse è l’unico per tutta la vita: il sergente
Ariel Mordecai, vent’anni, elicotterista
dell’esercito, ucciso durante un conflitto a fuoco nella striscia di Gaza.
Duramente provata
dalla scomparsa della madre che adorava, Selene era quasi impazzita
dal dolore di fronte alla morte di Ariel ed era stata proprio la sua
disperazione a convincere David Portrainy della
necessità di allontanarsi da quella terra che aveva preso ad entrambi ciò che
avevano di più caro.
Prima di arrivare a
Londra, Selene aveva sempre considerato Israele come al sua
patria e, nonostante il padre fosse cristiano, lei era stata educata
alla religione ebraica della famiglia materna, venendo a contatto con la storia
del suo paese, la sua situazione politica e il suo passato di dolore che ne
avevano toccato l’animo sensibile.
L’incontro con Ashton, che non proveniva da una famiglia prestigiosa e lavorava per mantenersi agli studi, era stato
come una ventata d’aria fresca e di concreta quotidianità tra le allieve
affettate e snob che frequentavano il St. Dorothea’s
College e che ricercavano la sua amicizia per interesse personale.
Selene le si era affezionata immediatamente.
Ashton l’aveva aiutata a
superare il dolore per la morte di Ariel con la sua
presenza silenziosa e costante al suo fianco. Senza chiedere nulla, senza
pretendere spiegazioni. Facendola ritornare alla vita un giorno dopo l’altro,
non per dimenticare, ma per far si che l’angoscia
straziante diventasse un po’ più sopportabile.
Selene si stupiva per
come Ashton affrontava la sua non facile situazione
economica e familiare e soprattutto la ammirava per l’incredibile orgoglio con
cui affrontava Sandy Happleby
e le altre.
Le ragazze del St. Dorothea’s
College potevano deriderla per i suoi abiti non alla moda e la vita semplice ma
nessuna di loro riusciva a recitare Shakespeare con
la passione di Ashton o a
scrivere con il suo stesso brio e la sua eleganza.
Selene la prendeva
benevolmente in giro chiamandola “ la nuova Beatrix Potter” e insisteva perché mandasse i suoi racconti a
qualche casa editrice. In un momento di entusiastica
debolezza Ashton l’aveva assecondata, confidandole
che avrebbe voluto frequentare l’Università e diventare insegnante. Adorava la
letteratura e, attraverso le sue parole, i versi dei grandi poeti del passato
pulsavano di nuova vita di fronte ad una stupefatta Selene.
Nessuno avrebbe mai
scommesso uno scellino sull’amicizia nata tra quelle ragazze tanto diverse per
modi, abitudini e classe sociale ma fin dal loro primo incontro era nata tra di loro un’intesa particolare, che aveva avvicinato
quella ricca signorina borghese alla ragazza che viveva nella casa accoglienza
di Padre Dowell, nel quartiere di St.
Giles, che
frequentava l’autorevole istituto solo grazie ad una borsa di studio e che,
terminata la scuola, si guadagnava da vivere lavando i piatti nei ristoranti di
lusso della city oppure facendo le pulizie negli appartamenti a Mayfair o Notting Hill.
Era stato Padre Dowell a trovarle quegli impieghi e Ashton
era profondamente grata al sacerdote per il suo continuo interessamento nei
suoi confronti ma orgogliosamente aveva sempre rifiutato ogni tipo di aiuto economico provenisse da lui o da Selene.
Per la verità Ashton proprio sola non era. Nel quartiere viveva
un’anziana signora che la ragazza chiamava affettuosamente nonna Martha, pur
non essendo legate da alcun vincolo di parentela. Martha Simmons
era stata amica di Caroline Winter
e aveva confortato Ashton piccolina nei giorni bui
dopo la morte di sua madre. Ashton le voleva bene e
adesso era lei ad occuparsi dell’anziana vedova, compensando a vicenda il loro
reciproco bisogno di affetto.
Una
donna sola e senza figli e una giovane ragazza senza genitori. Sì, perché suo
padre, Ashton, non lo aveva mai conosciuto.
Caroline Winter aveva raccontato alla figlia di essersi innamorata
di un politico, un uomo sposato, presso la cui famiglia era stata assunta come
cameriera, ma mai, neppure quando ormai stava così male da far temere a tutti il peggio, aveva voluto rivelare l’identità del
padre di Ashton.
Più volte nonna
Martha aveva insistito perché Caroline rivedesse le
proprie opinioni ma la donna si era chiusa in un ostinato silenzio. Per non
addolorare la madre gravemente ammalata Ashton,
allora ragazzina dodicenne, non le aveva mai chiesto nulla ma, più volte, aveva
esaminato di nascosto la fotografia di un vecchio giornale che ritraeva gli
esponenti delle due Camere del Parlamento, interrogandosi su quale loro potesse essere suo padre.
Poi il tempo era
passato e conoscere l’identità di quell’uomo aveva perso importanza, mentre la
priorità di mantenersi agli studi e cercarsi un lavoro erano divenute le
costanti della sua vita quotidiana, impedendole di rimuginare troppo su quello
che avrebbe potuto essere e che non era stato.
Con un sospiro Ashton cosparse la credenza di cera d’api e iniziò a
stenderla con l’impegno della disperazione. Aveva salutato Selene, in partenza
per trascorrere il fine settimana in montagna con il padre all’uscita da
scuola, ma quando era arrivata a casa di nonna Martha aveva trovato le stanze
vuote e silenziose. Una vicina che aveva incontrato sulle scale
le aveva riferito che la donna era stata ricoverata quella mattina in preda ad
un malore, probabilmente dovuto alla glicemia elevata che non sempre riusciva a
tenere sotto controllo.
Il medico del
consultorio presso il quale, mesi prima, Ashton
l’aveva convinta a rivolgersi, le aveva prescritto una terapia a base di fiale di insulina ma la ragazza sapeva che, con la sua esigua
pensione del sussidio sociale, la donna spesso non riusciva a risparmiare
abbastanza denaro per acquistare la medicina. Più volte Ashton
si era procurata l’insulina comprandola direttamente in farmacia ma il suo
magro stipendio non le consentiva di farlo regolarmente ed evidentemente il suo
sforzo non era stato sufficiente.
Si era precipitata
in ospedale ma le condizioni di nonna Martha erano apparse
subito parecchio critiche. L’anziana signora non possedeva
un’assicurazione e il medico di turno aveva avvisato Ashton
che avrebbero dovuto pagare di tasca propria le spese per il ricovero e le
medicine che le venivano somministrate. Poi dal
momento che l’orario delle visite era terminato da un
pezzo le aveva intimato bruscamente di ritornare più tardi.
All’Oratorio Ashton aveva appreso da Peter O’Toole, un giovane medico che prestava gratuitamente
servizio presso il consultorio locale, che Padre Dowell
si era recato in visita pastorale dal suo vescovo e sarebbe ritornato solo la
settimana successiva.
Non sapeva davvero
a chi chiedere aiuto e, in preda alla disperazione, si recata al lavoro con il
cuore sotto la suola delle scarpe.
Era stanca,
preoccupata, e il peso dell’infelicità e dell’impotenza le gravò sulle spalle esili e, quasi con meraviglia, sentì una
lacrima scivolarle lungo la guancia e cadere, mescolandosi alla cera. Non
riuscì a trattenersi e presto anche una seconda e una terza lacrima andarono a
far compagnia alla precedente.
- Sicuramente la
mia credenza sarà splendida, lucidata con le tue lacrime, ma preferirei
che mi spiegassi perché oggi sei così affranta. –
Ashton sollevò lo sguardo
verso la padrona di casa e si asciugò frettolosamente le guance con la manica
del maglione.
- Mi dispiace,
Sandra. Ma oggi è stata proprio una giornata
terribile. – rispose avvilita.
Sandra Harris la guardò con un misto di compatimento e
disapprovazione. Era una bella donna di circa trentaquattro anni con lunghi
capelli biondi e due occhi verdi da gatta, dotata di un fisico alto e statuario
che le aveva consentito di intraprendere per alcuni
anni la carriera di fotomodella. Poi i fotografi avevano iniziato a non
cercarla più per i loro servizi e Sandra si era ritrovata senza un lavoro
fisso. Aveva iniziato a lavorare per un’agenzia di accompagnatrici
ed era stata introdotta nell’ambiente dei vip, sempre a contatto con personaggi
più o meno famosi del mondo dello spettacolo, sempre a folleggiare alle loro
feste private o meno. Rimanere seppure ai margini di quell’ambiente ricco e sofisticato, fatto di lussi e celebrità, era diventato un
imperativo categorico della sua vita, quasi una sorta di droga, e da lì a
diventare una squillo d’alto bordo il passo era stato breve.
Il lavoro come
donna delle pulizie a casa di Sandra era stato l’unico impiego che Ashton si era procurata da sé, senza l’aiuto di Padre Dowell, rispondendo ad un annuncio su un giornale, ma,
anche dopo aver scoperto la professione non proprio ortodossa della donna aveva
continuato a pulirle la casa. Sandra non ne faceva mistero e Aston dal canto suo riteneva che fossero affari suoi il
modo in cui Sandra viveva e inoltre aveva bisogno di soldi. Nonostante la borsa
di studio il St. Dorothea’s College non le forniva minimamente né i libri né
il materiale scolastico e il denaro che Ashton
guadagnava da Sandra finiva tutto nell’acquisto di libri e nelle spese
supplementari che pagava direttamente alla direttrice
dell’istituto.
Con aria assorta
Sandra tamburellò sul pacchetto delle sigarette con l’unghia ben curata.
- Bé, niente può essere così grave da
inondarmi la casa di lacrime – replicò sfilando una sottile sigaretta
bianca dal pacchetto e rigirandosela tra le dita.
- Nonna Martha è
stata ricoverata questa mattina e io ho bisogno del denaro
pagare il ricovero e comperare l’insulina. – si sfogò Ashton,
riprendendo a strofinare - L’impresa di pulizie mi pagherà
alla fine della prossima settimana e siamo solo a venerdì -
Sandra la guardò
severamente - Non riesco a capire perché tu ti ostini ad aiutare quella
vecchietta che non è neppure una tua parente – la rimproverò, accendendosi la
sigaretta – Ti sfianchi ogni giorno a pulire a destra e a manca, vai in giro conciata come una derelitta, e per cosa poi? -
Ashton irrigidì la
mascella caparbiamente
- Martha Simmons mi è stata molto vicina dopo la morte di mia madre.
Si può dire che sia l’unica parente rimastami. – replicò ostinata, continuando
a strofinare – Devo trovare il modo di aiutarla ma non
riesco a trovare il modo di guadagnare i soldi che mi servono. -
Sandra la osservò
con attenzione per un istante, colpita dalla sua tenacia. Quella ragazzina di
diciassette anni aveva un coraggio nell’affrontare la vita che ben pochi adulti
possedevano e lei, Sandra Harris, che aveva sempre
badato a se stessa senza mai lasciarsi impietosire dai piagnistei altrui, provò
un moto di compassione.
Squadrò la sottile
figura inginocchiata e valutandone l’aspetto con occhio esperto e un’idea
improvvisa le balenò mente. Obbiettivamente doveva riconoscere che, anche
infagottata in quegli abiti un po’ troppo grandi per lei, Ashton
possedeva un fisico flessuoso e una grazia innata. Era piccola di statura e
sembrava addirittura troppo giovane per la sua età ma lineamenti del viso erano
raffinati, la carnagione pallida non aveva difetti e i lunghi capelli dai
riflessi color mogano erano folti e lucenti.
Sì, forse avrebbe
funzionato.
- Di quanto hai
bisogno, all’incirca? -
Ashton alzò la testa di
scatto trattenendo il fiato
- Duecento
sterline. – rispose speranzosa - Vuoi dire che tu, me
li presteresti? – chiese un tantino intimidita. Ma Sandra si mise a ridere
- Oh no, cara, frena frena. – rispose, emettendo
dalle labbra una nuvola di fumo azzurrino – Una cosa che ho imparato fin
dall’inizio è che non si prestano mai soldi a nessuno.
Neppure agli amici. Potrebbe diventare un’abitudine spiacevole. – Di fronte al
viso deluso di Ashton,
Sandra chiarì meglio il concetto – Lo so che non verresti mai a chiedermi soldi
per te stessa ma quella donna che ti ostini a volere aiutare potrebbe averne
ancora bisogno e allora tu verresti di nuovo a bussare alla mia porta. – Tirò un’altra boccata dalla sigaretta - Ti propongo un modo
per guadagnare quei soldi. Potresti venire con me stasera. – le suggerì
Ashton le lanciò
un’occhiata sbieca e arrossì violentemente – Ma io… veramente. – Tacque
imbarazzata non riuscendo ad ammettere il motivo per cui
non se la sentiva di accompagnarla e Sandra si mise a ridere.
- No, dai. Non
intendevo. Lo so benissimo che tu non fai certe cose. – Sandra la guardò con
intenzione, valutandone rapidamente il viso affaticato, gli abiti consumati e
le mani ruvide per il continuo contatto con saponi e detersivi. – Se tu fossi come me non avresti bisogno di spezzarti la schiena a pulire
il mio appartamento con la faccia e il corpo che ti ritrovi. – disse con la
sincerità quasi brutale che la contraddistingueva.
Se mai fosse stato possibile il volto di Ashton
si fece ancora più rosso
- Ma io non so se… -
- E’ solo una festa
e il compenso è di trecento sterline a serata. –
Ashton tacque di botto.
Trecento
sterline! Era più di quanto lei riuscisse a
raggranellare in due settimane lavando i piatti dei ristoranti o facendo le
pulizie negli appartamenti di Notting Hill. Prima che il suo cervello avesse
ripreso a funzionare le sue labbra avevano già formulato la domanda.
- Dici davvero? -
Sandra le lanciò
un’occhiata di sufficienza – Non vedo perché dovrei
mentirti. Una mia collega si è ammalata improvvisamente e questa sera l’agenzia
ha procurato ad un decina di ragazze un ingaggio per
una festa a Mayfair. Una villa di lusso, gente dello
spettacolo, attori, registi, cantanti, non so se mi spiego. Tutto quello che
dobbiamo fare è andare là, ballare con gli ospiti e rallegrare un po’
l’atmosfera. Sarebbe solo per una sera. -
Il cervello di Ashton aveva ripreso a
funzionare e vorticava affannosamente: trecento sterline! Con trecento sterline
avrebbe potuto pagare il conto dell’ospedale, comperare
l’insulina per nonna Martha e magari un maglione oppure una coperta che le
tenesse un po’ più caldo…
Sarebbe stato
meraviglioso.
Si riscosse e fissò
Sandra con attenzione. Improvvisamente aveva le mani gelide e fece un lungo respiro prima di azzardarsi a chiedere .
- Nelle trecento sterline non è compresa alcuna… prestazione particolare,
vero? -
Sandra la guardò
per un istante stupita poi scoppiò a ridere
- No, no
assolutamente. Quello che decidi di fare con un ospite
sopra o sotto le lenzuola è affare tuo e lo stesso per quanto riguarda il
compenso. Sei libera di disporre del tuo corpo e della
tua morale come meglio credi, piccola Ashton. –
Ashton respirò un tantino
più sollevata ma si agitò a disagio nel sentirsi addosso gli
occhi verdi e penetranti di Sandra.
- Non sei mai stata
baciata. – l’entreneause
fece questa affermazione tirando un’ultima boccata
alla sigaretta e spegnendola in un posacenere di pesante cristallo, calma e
sicura come se si trattasse di una semplice constatazione. – Non è forse vero?
–
Alzò lo sguardo
fino ad incontrare quello stupito della ragazza e sorrise brevemente - Non
meravigliarti Ashton, so
quello che dico. Si vede lontano un miglio che sei ancora una ragazzina ma gli
uomini che troverai là fuori a quella festa sono dei
lupi e ci impiegheranno meno di un minuto a decidere che tu sei proprio il bocconcino
più adatto per passare una bella serata. Se non vuoi
devi semplicemente dire di no e soprattutto essere convincente. La tua
ingenuità non ti servirà a molto di fronte alle loro astuzie e alle malizie più
disarmanti, perciò mia cara meglio travestirsi da lupo e mostrarsi quanto più
algida e sofisticata tu possa essere. –
Ashton la guardò un tantino smarrita - Credi che ci riuscirò? – domandò
ansiosamente
Lo sguardo di
Sandra si addolcì un poco davanti a quel viso preoccupato e annuì lentamente
valutandola con intenzione
- A certi uomini
piace il tipo bambolina. Non dovrai fare altro che ballare con quelli che ti invitano ed essere gentile. -
Ashton si torse le mani indecisa –
L’agenzia mi pagherà davvero trecento sterline?–
Sandra alzò le spalle annoiata – Certo, perché non dovrebbe? Ma adesso sbrigati. Puoi usare il mio bagno per prepararti.
Intanto ti cerco qualcosa da mettere. Non puoi venire alla festa vestita a quel
modo. – disse indicando con un vago gesto di disgusto i
jeans consunti e il maglione di lana grossolana che aveva indosso per fare le
pulizie.
Ashton annuì e nell’ora
successiva si dedicò a ritornare quello che per troppo tempo aveva dimenticato
di essere: una giovane donna dall’aspetto avvenente che per una volta nonn mortificava il suo aspetto in abiti trasandati.
Assaporò con profonda soddisfazione quel lusso inaspettato. Dopo un lungo
bagno, su insistenza di Sandra, si cosparse il corpo di essenza
al gelsomino e mise una crema emolliente sulle mani rovinate dai saponi e dai
detersivi. Lavò i capelli applicandovi un balsamo nutriente e i morbidi riccioli color mogano vennero raccolti e rialzarti
in una raffinata acconciatura, trattenuti da forcine di argento e cristallo. Il
suo viso venne truccato in maniera sapiente e,
dimenticata in un angolo la sua dozzinale biancheria intima di cotone, indossò
un paio di sottili mutandine di seta e un paio di calze autoreggenti di pizzo
chiarissimo. Ashton non aveva mai posseduto degli
indumenti intimi tanto belli e preziosi e la sensazione di quelle calze sottili
sulle sue gambe affusolate la faceva sentire raffinata e terribilmente
seducente.
L’abito che Sandra
aveva scelto per lei era la cosa più sofisticata e
lussuosa che avesse mai visto e sicuramente la più audace. La seta bianca
scendeva morbida sui suoi fianchi allargandosi in un’ampia gonna dall’orlo
asimmetrico che addosso a Sandra terminava dietro, a punta, poco sotto il
polpaccio, mentre a lei lasciva appena scoperti i piedi calzati da sandali a
tacco alto e si allungava sul dietro in un piccolo strascico. Il davanti del
corpino era costituito soltanto da un morbido drappeggio che modellava
impudente il profilo tondo del seno e la vita sottile. La stoffa ricadeva
fluida sul suo petto creando una scollatura alquanto profonda, trattenuta soltanto
da due sottili catenelle d’argento tempestate di cristalli che giravano a
formare un laccio prezioso attorno a ciascuna spalla. La schiena della ragazza
era interamente scoperta fin oltre la vita, con il risultato di non lasciare
limiti a chi, con l’immaginazione, avesse voluto
avventurarsi ad immaginare l’opulenza del suo fondoschiena delineato dalla
stoffa della gonna. Con gesti esperti Sandra le drappeggiò abilmente uno
scialle di velo trasparente sulle spalle e poi si allontanò per ammirare compiaciuta
la sua creazione
- Sei perfetta. –
mormorò aggiustando un piccolo particolare – Quasi irreale. Quasi un’elfa. -
Rise da sola della
sua battuta mentre spingeva una Ashton
sconcertata davanti allo specchio perché potesse ammirarsi. La ragazza gettò un’occhiata
alla sua immagine e trattenne il fiato stupita.
Davanti ai suoi
occhi non c’era più la ragazza di St. Giles che
giocava con gli orfani di Padre Dowell, sempre di
corsa e affannata. Davanti al suo sguardo meravigliato c’era una
principessa delle fiabe, del tutto simile a quelle di cui aveva letto da
bambina, abbigliata con un vestito luccicante. I capelli scuri elegantemente
acconciati e scostati dal volto mettevano mirabilmente in risalto i lineamenti
perfetti e la carnagione d’alabastro, mentre l’abito delineava
sensuale e raffinato le morbide curve del suo corpo facendola assomigliare ad
un’evanescente creatura ultraterrena.
Si chiese cosa
avrebbe detto Selene nel vederla vestita a quel modo.
Alle sue spalle
Sandra sorrise compiaciuta
- Allora che ne
dici? -
Ashton si toccò una
guancia con al punta delle dita – Non posso crederci.
– mormorò ancora stupita.
Sandra rise – Credici e adesso andiamo. Non bisogna mai arrivare tardi al lavoro. -