Wakayama non era un piccolo paese, eppure a modo loro i
Takarai erano noti. In Giappone, in fin dei conti, la notorietà è spesso la
maldicenza sottile o lo sgomento per scelte non troppo convenzionali. Tetsuya
avrebbe detto che bastava non tagliarsi i capelli per un paio di mesi; la via
per la celebrità contemplava anche dettagli non troppo ortodossi.
Tetsuya era però anche uno che si era vestito di un rosa
sbiadito per la cerimonia dei venti anni e che non aveva paura a tingersi i
capelli di rosso e a sorridere a chiunque come se non fosse affatto il teppista
per cui lo prendevano tutti. I Takarai, invece, erano una tranquilla, esemplare
coppia della middle class del Kansai, neppure volessero riprodurre in
quel piccolo universo orientale le ambizioni e le illusioni che rendevano
persino ragione del nome del loro locale. Un pub. All’inglese.
A Wakayama, i Takarai erano stati prima di tutto quelli che
si erano sposati senza il volere della famiglia. In un Paese in cui i matrimoni
combinati erano la risposta migliore alla mancanza di tempo e, forse, persino di
sentimenti, la felicità quasi ignominiosa con cui quei due si erano scelti e
voluti bene lasciava sgomenti, inorgogliti e ottimisti.
A Wakayama, i Takarai erano però soprattutto quelli dell’Apple,
quelli che ascoltavano musica gaijin anziché enka. Quelli, in fin dei
conti, che avevano fatto di Hideto ciò che Hideto non aveva forse neppure
compreso di essere: il simbolo di un nuovo Giappone, la voce di un Paese che
avrebbe smesso di essere sushi per curiosi e occhi a mandorla e samurai. Il
Giappone che Yoshiki e hide avrebbero forse portato oltre il Pacifico, verso
un’America che aveva smesso di fare paura come durante la Ricostruzione per
diventare un modello ed un’ambizione.
I Takarai, poi, erano persino oltre. I Takarai ascoltavano i
Beatles.
Su ‘Lucy in the sky with diamonds’ il minuscolo Hideto
aveva pianto per i primi denti, pianto per avere un altro muffin, pianto
per essere caduto dal bancone circolare, pianto per una testata contro lo
sgabello, pianto perché il juke-box non cantava solo per buona volontà
dell’osservatore, pianto finché suo padre non aveva forse pensato davvero a
rifilargli una pasticca di L.S.D. di quello buono per farlo tacere. Poi,
ricordandosi quella minuscola vita fosse il suo unico erede – per giunta
maschio, benché fosse difficile capirlo – l’aveva iscritto a un corso di kung-fu
per la felicità dei vicini, che vedevano finalmente fruttare il perenne richiamo
alle buone abitudini patrie.
In fin dei conti fu pure l’unica concessione, perché Hideto
non venne mai rasato a zero, come nella migliore delle tradizioni igieniche del
Sol Levante, e i suoi capelli – bellissimi – furono sempre di gran lunga più
lunghi di quel che il buonsenso avrebbe voluto.
Forse perché la signora Takarai voleva tanto una bambina e
Hideto era un buon compromesso.
Forse perché il signor Takarai amava John Lennon e altri tre
baronetti dal nome impronunciabile, capelloni, immorali e gaijin.
I Takarai, in ogni caso, erano rispettati per gli eccentrici
che erano e quel loro unico figlio – maschio, checché ne pensasse qualche
avventore di passaggio, quando vedeva spuntare una lunga coda di cavallo da
dietro il bancone – non era considerato che l’ennesima espressione di quella
loro peculiarità così pittoresca. Hideto poi – e Tetsuya l’aveva scoperto con
grande imbarazzo dell’altro – non era sempre l’anticonformista
rompi-regole-e-scatole che gli piaceva tanto recitare sul palco e nella
quotidianità meno convenzionale.
Se ti chiami Hideto e nasci a Wakayama, Kansai, Giappone, per
quanto pure possa distruggere con il tuo dialetto la bellezza della musica
londinese, non sarai mai libero dentro e fuori come un ragazzo che ha per natura
capelli biondi, sottili e sembrerà tuo nonno quando avrete trent’anni.
Tetsuya ne era consapevole, ma la forza della sua originalità
interiore lo teneva al riparo dai compromessi e dalle pose. Hideto era uno che
passava da un infantilismo bizzoso a tetraggini urticanti, da quella sua
androginia senza patria a un abito rassicurante e borghese. Se non fosse stato
daltonico, Hideto avrebbe fatto il mangaka, il che stava a dire la quintessenza
della cultura orientale. Siccome era kawaii e daltonico, però, il destino aveva
deciso che la musica avrebbe avuto la meglio su Lupin III e ambizioni di ben
altro livello.
Hideto, anche se poteva vergognarsene in modo spaventoso,
aveva fatto il cameriere nel Mr. Donut accanto alla ferrovia, sorridendo tirato
e pieno d’odio a un mucchio di vecchietti che gli chiedevano il solito e
di tagliarsi la frangia troppo lunga e ribelle. Perché i bravi ragazzi
portano i capelli corti e si cercano un lavoro serio. Hideto avrebbe servito
ciambelle avvelenate e sognava la musica con cui era cresciuto, non tanto in
altezza, ma da racchiudere dentro un universo di note.
Nel mondo là fuori, per cui sembrava troppo piccolo,
troppo fragile e troppo vulnerabile, con quella sua aria da Peter Pan – o
Principessa, come piaceva pensare a sua madre, persino quando cambiava una
ragazza a settimana e si svegliava con le occhiaie di una sbronza e la barba di
due giorni – Hideto non aveva mai paura ed era a volte di una serietà davvero
fuori luogo.
All’Iwaki, dove aveva lavorato finché suo padre non aveva
ceduto, dandogli il permesso di spezzare il cuore dei vicini e urlare una musica
gaijin e decadente da una live-house di Osaka – lo ricordavano solo
perché parlava poco, lavorava sodo e occupava in continuazione lo studio del
secondo piano. All’epoca i capelli gli arrivavano già alle spalle, si era forato
i lobi e studiava il trucco di scena. La sua maschera da troietta minorenne.
All’epoca firmava ancora con il suo nome completo. Forse si
era dimenticato di Baki.
All’epoca fumava già da un sacco di tempo le sue venti
cherokee quotidiane – se non era particolarmente nervoso – scandalizzando per la
sua età e per il fatto dimostrasse dieci anni di meno.
‘Sono per tuo padre, vero?’ era il leit motiv di ogni
acquisto.
Hideto giustificava così il fatto che la nicotina non fosse
mai abbastanza, e ti veniva quasi voglia di dargli ragione.
Aveva insegnato persino musica in un liceo locale: batteria,
per un mese. Era maledettamente dotato per qualunque strumento, ma non era
tagliato per trasmettere altro che emozioni. Non era quello che voleva dalla
vita e di sicuro non poteva esser considerato un insegnante memorabile.
Tetsuya ripassava tutto quel che sapeva di lui e che era
stato difficilissimo estorcergli in un anno e mezzo di frequentazione quasi
quotidiana. haido – come si faceva chiamare in scena, dopo che gli avevano fatto
notare un hide già ci fosse, e fosse molto ma molto più famoso di lui –
era contraddittorio persino in questo. A vederlo ti veniva spontaneo proteggerlo
e credere avesse l’ingenuità e l’inesperienza di un bambino. A conoscerlo ti
accorgevi che a grattar via quella patina di falso infantilismo ti trovavi
davanti un uomo vero, uno che era fatto di ferro, dentro, e sapeva benissimo di
voler arrivare. La meta non era importante, perché anche le stelle erano troppo
vicine per uno del suo calibro.
L’unica ingenuità di haido, forse, stava nel sottovalutare il
potere della sua naturale ambiguità, il fascino che derivava dall’ossimoro di
una voce tanto potente in un corpo tanto sottile. Prima o poi, in ogni caso,
l’avrebbe capito, e a quel punto non ci sarebbe stata più pace per nessuno,
perché haido era uno cui non spaventava lavorare sodo. Poteva farlo su se stesso
non meno che sul demonio musicale che covava dentro.
Tetsuya era arrivato davanti all’Apple, mentre i fornitori
scaricavano le casse di liquori che il week-end avrebbe disperso. Con i capelli
legati stretti e senza il trucco di scena, haido tornava Hideto: nello sguardo
che non era languido, ma svanito e un po’ duro; nelle guance che sembravano meno
morbide, velate com’erano da una peluria persino strana su quel viso che nemmeno
una idol avrebbe avuto tanto bello; nella voce che indulgeva nelle peggiori
cadenze del dialetto e non saliva in quei falsetti ammiccanti e virtuosi che lo
stavano rendendo una celebrità.
A Tetsuya bastava guardarlo anche in momenti come quelli per
capire che solo un istrione del suo calibro aveva la stoffa per espugnare
l’olimpo della musica, ma che forse quelle stesse qualità potevano essere un
problema, perché Hideto era pure un concentrato di orgoglio, di arroganza e poca
intelligenza compromissoria – se ne avesse posseduta una briciola, nei fatti,
non avrebbe ringhiato a innocui pensionati di Wakayama.
E ora stava per chiedergli di sedurre Sakurazawa fino a
fargli perdere ogni briciola di buonsenso e perplessità residua.
Forse Hideto l’avrebbe ucciso. Forse era meglio avvicinarsi
alla realtà attraverso il velo sottile, querulo e ipocrita di una quasi
menzogna. Forse era meglio telefonare prima a Ken, fingersi interessati alla sua
situazione familiare di pianti materni, silenzi paterni e minacce di
diseredazione, per assicurarsi un complice e un testimone nel caso haido avesse
dato di matto – il che stava a dire quasi per certo quel che sarebbe accaduto,
quando gli avrebbe detto che con qualche boccolo sarebbe stato più carina.
E doveva essere più carina. Per forza.
Ken Kitamura conosceva Tetsuya Ogawa da una tale quantità di
tempo che a fatica ricordava di essersene persino separato ai tempi gloriosi del
liceo e dell’università, come pure troppo spesso accade a chi ha frequentato lo
stesso asilo, lo stesso istituto per le scuole elementari e medie, e persino
militato nello stesso club di baseball. La verità era che Tetsuya fosse un
personaggio di cui davvero non potevi mai dire d’esserti liberato del tutto,
perché i suoi sogni, il suo entusiasmo e la sua voglia di sfondare erano davvero
contagiosi.
Tutti, in verità, hanno un sogno nella vita, ma quelli di
Tetsuya sembravano sempre più vivi, più colorati e più veri. Quelli di Tetsuya
erano sogni talmente onesti che non potevi resistere all’idea di renderli reali,
o, se non altro, Ken Kitamura aveva una gran voglia di farsene un alibi per
giustificare un colpo di testa già indigeribile in una qualunque famiglia del
mondo, ma che in Giappone si avvicinava di molto alla suprema concezione di
scandalo.
Non sapeva bene cosa l’avesse spinto ad abbandonare
l’Università e una carriera più sicura.
Forse la noia.
Forse la nostalgia di Tetsuya e dei suoi discorsi senza senso
eppure lucidissimi.
Forse proprio il grado di lucidità prossimo allo zero con cui
aveva ricevuto quella telefonata.
Forse l’entusiasmo di poter tentare di nuovo.
Forse Hideto. La voce di Hideto e la spaventosa carica
erotica che si fondeva all’adrenalina del debutto e diventava una specie di
orgasmo, ma infinito.
Forse quella diabolica insinuazione, che si sposava alla
mitologia del contesto in cui la sua chitarra era chiamata ad arpeggiare una
rivoluzione.
‘Lo sai che è il chitarrista quello che rimorchia di più,
vero?’
Forse era davvero un insieme di troppi fattori, per poterli
chiamare per nome e scandirli quasi fossero una lista della spesa. Quello era il
mondo ordinato in cui si era sforzato di crescere e in cui davvero aveva temuto
di invecchiare, finché la sua pallida esistenza di quasi architetto non era
stata stravolta dalla voce di Ogawa e dal suo ‘Hiro ha mollato. Ho un
vocalist che mi porterà dritto all’Oricon, ma nessun chitarrista. Vuoi ancora
conquistare il mondo, Ken?’
Era evidente che fosse una domanda retorica, un po’ come
chiedergli ‘Ti piacciono ancora le donne?’ quando la sua vita era stata
un flirt perenne.
Tetsuya era davvero troppo abile in situazioni come quelle.
Poteva convincerti che gli asini volavano, solo ch’eri troppo distratto da altro
per rendertene conto. Uno come lui poteva fare solo il leader, il dittatore o il
disoccupato: una persona perbene non gli avrebbe mai dato credito.
Ken Kitamura, dunque, doveva trarre la stessa conclusione di
suo padre: non era una persona perbene, non la stava diventando, almeno. Però la
sua vita così precaria e così instabile lo divertiva, e a Ken piaceva ridere
quasi quanto fare sesso. Quasi, però. Su quel fronte Kitamura non
scherzava mai.
La casa di Tetsuya era un anonimo villino monofamiliare su
due piani come ne vedi sempre nei manga, sul cestino del bento preconfezionato e
negli incubi del giapponese medio: il simbolo di una famiglia ben aggiustata e
tanto felice. A Ken certi dettagli non dispiacevano quanto il fatto che le due
sorelle di Tetchan somigliassero al maggiore, e dunque fossero troppo brutte per
i suoi gusti. Tetsuya era un bravo ragazzo, era quello che avresti detto un
tipo, e con l’altro sesso aveva un successo discreto, che nasceva però più
dalla sua irresistibile simpatia, dal suo sorriso aperto e dalla sua vena
istrionica, che dal suo naso troppo sottile, dai suoi occhi troppo piccoli e
dalla sua statura poco o nulla significativa – sempre, poi, a stendere un velo
pietoso su quello che sospettava fosse un daltonismo non meno grave di quello di
Hideto, che, se non altro, se n’era fatto una ragione e seguiva l’aurea regola
dei cani (bianco e nero).
Quando a Tetsuya sfuggiva una predilezione cromatica,
rischiavi d’infognarti su un Picasso psichedelico, e Ken Kitamura talora si
domandava che differenza ci fosse tra i suoi testi universitari e l’armadio di
Tetsuya, visto e considerato che gli sgorbi tali restavano senza rimedio.
Ogawa, in ogni caso, come donna era brutto. haido era anche
troppo bello – e poteva crearti interrogativi esistenziali inquietanti – ma
Tetsuya era al di là del bene e del male, e aveva due sorelle femmine innamorate
di lui.
Ken Kitamura si domandava sempre perché non avesse nessun
amico disposto a chiedergli se volesse fare il mantenuto, in quel caso era
convinto che non avrebbe avuto neppure bisogno della gavetta, perché sapeva di
essere un talento naturale. Con tutti i crismi.
“Allora? Hai finito?”
Aveva schiacciato con indolenza la cicca contro il bordo del
marciapiede, incurante dello sguardo scandalizzato di una vecchia interessata al
suo look trasandato e a un’aria che presumibilmente aveva già bollato come
losca, senza sapere che il suo genuino e generoso amore per il sesso femminile
non si estendeva fino ai limiti della follia e del geriatrico. Tetchan lo
fissava con odio miope dal piccolo balcone, maledicendo la Marlboro fino
all’ultimo stabilimento. Con il giaccone di finto pelo, la camicia sformata di
un viola inquietante e i capelli lunghi di un rosso vinoso, era un incrocio tra
uno spaventapasseri e una pubblicità progresso contro le malattie veneree, si
era ritrovato a pensare.
“Si può sapere che hai da ridere da solo come un coglione?
Entra dentro. Dobbiamo discutere di affari seri!”
Tetsuya, era evidente, mancava di un adeguato senso
dell’umorismo davanti allo specchio; in compenso le due sorelle stra-minorenni e
racchie non erano in casa e Ogawa faceva un caffè ch’era senz’altro meglio di
quello di haido.
Un daltonico è meglio che stia sempre alla larga dalla
cucina. Anche se si ingozza.
La camera di Tetsuya era un sinistro incrocio tra il deposito
di un robivecchi, il camerino di un clown e l’antro di un otaku della peggior
specie. Quello che ti inquietava davvero, però, era il fatto che fosse sempre
ordinata. Anzi, se percorrevi la stanza da destra verso sinistra, ti accorgevi
che i modellini sfilavano in ordine alfabetico. Da quei particolari Kitamura
aveva maturato la convinzione che Tetsuya non andasse contraddetto, poiché tra
l’essere geek e il dare di matto pericolosamente non doveva poi correre
una gran distanza. In ogni caso, se Ogawa inforcava i suoi occhialoni trash
senza troppe cerimonie – e senza chiederti di smettere di fumare per almeno tre
volte – voleva dire che l’ironia delle analisi in soggettiva poteva restare
oltre la porta e si cominciava a recitare un ruolo più serio.
Ken amava anche momenti come quelli, fatti di dettagli futili
agli occhi di tutti, fuorché dei sognatori, di progetti a breve, lungo e
lunghissimo termine, fantasie non più consistenti di bolle di sapone, ma che non
svanivano mai.
“Ho telefonato a Sakurazawa per sapere se aveva ascoltato la
nostra demo,” aveva esordito Ogawa a bruciapelo. Aveva annuito, sorprendendosi
di quanto più forte battesse il suo cuore. Yasunori era di Tokyo, e Tokyo era
come dire Londra o New York per la musica occidentale. Attirare l’attenzione di
uno come lui voleva dire provare a fare il salto di qualità. Voleva dire non
essere major, ma quasi.
In sostanza lasciarsi alle spalle Osaka, la provincia, le
chiacchiere, le recriminazioni domestiche.
“Sono riuscito a convincerlo… O quasi.”
“Ci sei riuscito o non ci sei riuscito?” aveva detto,
sforzandosi di contenere il tremito emozionato della propria voce.
“Sì e no. Diciamo che ho usato un’esca.”
“Un’esca? Che genere di esca?”
“Quella che funziona sempre con te.”
Ken era rimasto in silenzio a riflettere per un paio di
secondi, prima di afferrare Tetsuya per le spalle e guardarlo negli occhi miopi,
oltre le lenti spesse. “Non gli avrai promesso di presentargli una delle tue
sorelle, vero?”
Tetchan l’aveva squadrato con un odio degno di uno schizzo
satanico di Go Nagai, prima di sibilargli un “Per chi mi hai preso, cretino?”,
che l’aveva rassicurato.
Non gli avrebbe mai fatto capire, ovviamente, le autentiche
ragioni per cui ne fosse tanto sollevato: non aveva nulla, a dirla tutta, contro
la tratta domestica, ma Sakurazawa non poteva essere davvero tanto
disperato da contentarsi di una delle ragazzine Ogawa.
Non avevano neppure un fratello famoso.
“Comunque sì. Lo sapevo che c’eri arrivato, maiale.
Gli ho promesso una donna. Sakura è famoso per essere uno con l’occhio lungo e
le mani pronte non solo sui piatti. Ho oliato un po’ l’ingranaggio.”
“Tetchan… Perché prometti donne a tutti tranne che al
sottoscritto?”
“Non ho promesso donne a Hideto.”
“Che c’entra haido? Con quello basta qualcosa che si mangia e
uno specchio.”
Tetsuya aveva lo sguardo omicida dello stratega che si sente
sabotato, mentre si alzava con uno scatto nervoso e fingeva di non aver dato una
poco onorevole ginocchiata al kotatsu.
“Gli ho promesso una donna… Ma non è proprio una donna…”
Considerando i presupposti, Ken aveva evitato di tirare di
nuovo in ballo la fauna femminile di casa Ogawa, ma non poteva negare d’essere
sempre più curioso e sempre più disorientato da quelle illazioni che suonavano
del tutto prive di senso.
“Spara, Tetchan. Altrimenti facciamo notte.”
Tetsuya aveva respirato in profondità, prima di fissare
pensoso il pavimento e scandire: “Gli ho detto che haido è una lei. E che
vale la pena di conoscerla.”
Ken era rimasto serio per un intero, lunghissimo, eterno,
mortale minuto, poi aveva cominciato a ridere tanto da disperare che potesse
arrestarsi prima di un nuovo terremoto del Kanto.
“Lo sapevo che avresti reagito così! Bell’amico. Mi
complimento!”
Si era asciugato le lacrime senza smettere mai di
sogghignare. “Ma come dovevo reagire, me lo spieghi? Tutto questo è
assolutamente ridicolo!”
“Non avevo altra scelta per convincerlo a raggiungerci a
Osaka, no? Che può saperne di noi se non ci vede?”
“Grandioso. E gli hai detto che lei mangia come un
lottatore di sumo e ha più baffi di te?”
“No. Gli ho detto la verità.”
“Ma ‘sto Sakura sarà mica…”
“Gli ho detto che è molto bella e molto troia.”
“Sì… In effetti anche questa sarebbe una verità… Voglio dire:
se ci sono caduto io, che pure…”
“Adesso non ricominciare a vantarti della tua carriera di
porco e stammi bene a sentire…”
“Sì?”
“L’importante è che Sakurazawa non mangi subito la foglia.
Per questo, però, tu devi convincermi a persuadere haido.”
“Cioè… Devo aiutarti a ricattarlo in qualche modo?”
“Una specie. Sì.”
“Tetsuya… Più passa il tempo, più mi fai paura…”
“Grazie. Lo prendo come un complimento.”