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Autore: harinezumi    28/11/2010    6 recensioni
Arthur Kirkland è un impegnato banchiere a Londra, che sembra impiegare il proprio tempo solo ad accumulare denaro. ma un giorno eredita la villa dello zio in Francia, dove riscopre emozioni che aveva da tempo soppresso.. {una rivisitazione in chiave "hetaliana" del film omonimo del 2006; probabilmente lo ammazzerò a colpi d'ascia, siete avvertiti *-*}
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland, Un po' tutti
Note: AU, Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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capitolo otto – in cui Alfred legge Morte a Venezia
 

 

Alfred salì sull’autobus, stringendo ancora tra le mani la copia di Morte a Venezia che Arthur gli aveva passato da poco. Non avrebbe mai capito perché l’inglese si era comportato in maniera così strana nei suoi confronti: sapeva solo che gli sarebbe piaciuto tornare a casa, nella sua amata America, il più presto possibile.

Non che gli fosse dispiaciuto vivere per un po’ in quel posto. Lo aveva trovato esaltante (del resto quando lui si trovava nei paraggi anche il paesino più palloso del mondo si trasformava in un parco divertimenti, a suo dire), ma Arthur si era adoperato talmente tanto per farlo sentire fuori luogo, prima di pentirsene in quel modo, che non gli sembrava avere altra scelta se non quella di tornare a casa.

Sospirando, si sedette in un posto qualsiasi, posando lo zaino nel sedile accanto al suo e preparandosi per il viaggio d’andata all’aeroporto. Forse avrebbe fatto meglio a dormire, tanto pensare a quello che poteva passare per il cervello agli stupidi inglesi non era esattamente il suo forte e non avrebbe portato più a nulla.

Così, prese il libro e lo aprì in un punto a caso, come aveva fatto alla Siroque le prime sere per addormentarsi, e quello si aprì automaticamente in una pagina dove era stato lasciato un più che evidente segnalibro. Era una lettera non sigillata, che Alfred prese curiosamente tra le mani, lasciando perdere subito il sonno e il libro, che gettò sopra lo zaino.

La lettera era scritta con inchiostro verde ed era indirizzata ad Arthur; ma doveva essere stato lui ad avercela lasciata dentro da poco, perché Alfred altrimenti se ne sarebbe accorto prima.

Aprì il foglio contenuto nella busta, notando che portava la data di cinque mesi prima; e la scrittura, lo capì immediatamente dalle letture che aveva fatto sulla sua corrispondenza, era quella di suo padre.
 

Caro Arthur,

So che sono passati molti anni da quando abbiamo parlato l’ultima volta, ma mi sono ritrovato in un piccolo disastro e ho bisogno del tuo aiuto. Il fatto, Arthur, ragazzo mio, è che sto morendo. Lo so perché il dottor Karr, il mio medico, ha smesso di parlarmi della mia salute e ha cominciato a discutere del tempo.

È per questo motivo che tengo a dire a te le mie ultime volontà.

Ho un figlio, il suo nome è Alfred Jones. Purtroppo, non ci siamo mai visti. Il nome di sua madre era Allison. Era una guida turistica in un grazioso vigneto in California.

Arthur, mi piacerebbe che tu lo trovassi, e alla fine, vorrei dargli ciò che gli spetta di diritto. Spero che questa decisione non ferisca i tuoi sentimenti; dato il tuo successo, sono certo che non hai bisogno di nulla. Spero che tu capisca, perché, per me, anche nello stato attuale, la Siroque è un luogo magico e il mio più grande desiderio è che Alfred possa conoscere questa magia. Ci ho pensato a lungo, e, dopotutto, la Siroque è tutto ciò che lascio al mondo.

Il tuo amato zio,
Henry Kirkland.
 

Alfred richiuse la lettera, senza fiato, mentre i suoi occhi vagavano subito al finestrino dell’autobus e realizzavano che non erano ancora partiti. Afferrò lo zaino, alzandosi e buttandoselo sulle spalle, correndo poi di nuovo in strada. Lì in quella lettera c’era inequivocabilmente scritto che suo padre gli aveva lasciato la Siroque.

***

«Ehi, apritemi!» urlò Alfred, battendo per l’ennesima volta il pugno sulla porta della villa di suo padre, finché finalmente un perplesso Antonio non lo accontentò. Alle sue spalle, un ragazzo che non aveva mai visto, un biondino dai capelli leggermente lunghi che se ne stava in disparte.

«Alfred? Pensavo te ne fossi andato» mormorò, sorpreso lo spagnolo, esibendo però come al solito uno dei suoi sorrisi. «Puoi rimanere qui ancora qualche giorno, se hai perso l’autobus! Penso che i nuovi padroni di casa arrivino la settimana prossima, perciò…»

«Dov’è Arthur?» lo interruppe in fretta Alfred, con il respiro affannoso. Correre fin lì con lo zaino in spalla lo aveva sfiancato, e avrebbe certo preferito morire soffocato piuttosto che dimostrarsi così stanco di fronte ad Antonio; però era troppo agitato per pensarci.

«Ah, mi spiace!» esclamò l’altro, grattandosi la testa con aria perplessa. Non gli era parso che Alfred ed Arthur avessero legato un granché, tanto da giustificare quell’improvvisa uscita dell’americano. «È andato via dopo di te… se vuoi è rimasto il suo assistente! Almeno credo che sia il suo assistente… a dire la verità non so bene chi sia» continuò Antonio, pensieroso. «Se gli vuoi parlare è nello studio di Henry, sta sistemando le ultime cose».

«Sì!» esclamò immediatamente Alfred, entrando di prepotenza e scaricando lo zaino sulla soglia della porta; Antonio però era troppo gentile per dirgli qualunque cosa, e rimase a guardarlo con aria inebetita mentre correva verso lo studio.

«Quel ragazzo è il cugino di Arthur?» mormorò Francis, alle sue spalle, appoggiato contro la parete del corridoio. Il suo tono risultava leggermente stanco e malinconico.

«Sì» rispose Antonio, con un piccolo sorriso, afferrando lo zaino di Alfred e mettendoselo in spalla. Capiva bene il motivo dell’espressione dell’amico in quel momento; proprio quando era riuscito a tornare a pensare seriamente a qualcuno, quel qualcuno lo aveva deluso. Anche se Francis non era stupido, e l’aveva capito fin da subito che tipo fosse Arthur. «Vieni, accompagnami a rimettere nella sua stanza la sua roba… penso che rimarrà qui, dopotutto».

Francis si limitò a fare un sorrisetto distratto, staccando la schiena dal muro e seguendo Antonio su per le scale delle camere –inconsapevolmente, erano anche osservati di nascosto da un irritato e geloso Lovino dalla porta della cucina-, entrambi in totale silenzio.

Antonio aveva cercato di consolarlo come poteva, ma Francis aveva la sensazione di non riuscire a liberarsi del pensiero di Arthur. Più ne discuteva con l’amico, più i dubbi lo assalivano; ma non si sarebbe mai piegato al fatto di inseguire l’inglese per il mondo come un cagnolino a causa di un lavoro. Amava la Francia e non l’avrebbe mai lasciata per un uomo. Forse.

Immerso com’era nei suoi pensieri, quasi non si accorse che Antonio gli stava parlando.

«… non vorrei che ti sentissi troppo solo, ecco. Se Alfred è qui per rimanere, non penso gli darà fastidio che ti fermi a dormire qui, ogni tanto… insomma, vorrei che fossi felice».

Francis fece una risatina, commosso dalla dolcezza di Antonio, che pure parlava come se fosse la cosa più naturale del mondo. Stava posando lo zaino accanto al letto di Alfred, mentre lui lo aspettava sulla porta della stanza. «Non ti devi preoccupare per me. Io sto bene».

«Sei abituato a stare con me» rispose però Antonio, sollevando lo sguardo su di lui. Per quanto non fosse una mente particolarmente acuta, in quel momento sembrò davvero serio. «E ora questo bastardo inglese ti ha lasciato andare così. Mi piace Arthur… ma le sue maniere sono indecenti». Mentre parlava, si era avvicinato a lui, afferrandogli una mano quando gli fu davanti, per stringerla tra le proprie. «E tu sei una bella persona, dovresti essere felice».

«Antonio, credo che sia soltanto tu a pensarlo» fece Francis, a suo malgrado divertito.

«Credo lo pensi anche Arthur. Ma sia troppo stupido per capire che avrebbe dovuto rimanere… forse non è in grado di capire cosa vuole il suo cuore» affermò Antonio. S’interruppe comunque bruscamente, perché il discorso stava diventando troppo profondo per i suoi standard, e faticava a stare dietro alle proprie parole.

«Grazie» mormorò allora Francis, con un sorrisetto, capendolo benissimo. Sollevò una mano di Antonio fino al proprio volto grazie alla presa che lo spagnolo aveva mantenuto sulla sua, baciandogliela dolcemente. «Ora è meglio che vada. Sento delle urla provenire da di sotto. Dev’essere il cugino americano».

«Oh, Dio…» gemette Antonio, quando fece caso a sua volta ai toni soavi di Alfred. «Ehm, sai trovare l’uscita, no? Scusa, ci vediamo poi dopo cena, vado a vedere che succede!» esclamò, lasciandogli la mano e schizzando fuori dalla stanza in un istante, salutando appena Francis con un gesto della mano, per correre verso l’ufficio di Henry.

Francis sorrise, debolmente. Ma nessuno aveva il potere di consolarlo quanto Antonio –se non un tipo eccentrico di nome Gilbert che al momento si trovava quasi certamente in qualche bordello di Amsterdam-, e probabilmente, in fin dei conti, non si sarebbe mai potuto sentire meglio di così.

***

 «TU!» gridò Alfred, puntando il dito contro Matthew, che alzò la testa dalla scrivania su cui stava lavorando, perplesso. «Dimmi dov’è andato Arthur!»

«C-come? Il signor Kirkland è in Inghilterra, ovviamente…» rispose Matthew, confuso.

«Bene, ora digli di tornare subito qui!» concluse Alfred in un tono che non ammetteva repliche, puntando le mani sulla scrivania e fissando l’altro con aria decisa.

Matthew non poté fare a meno di pensare che quel ragazzo doveva avere davvero qualche rotella fuori posto (dopotutto era parente di Arthur), a pensare che fossero tutti ai suoi ordini. In ogni modo, non lo disse perché si considerava una persona estremamente educata, ed evitò di pensare agli insulti che gli avrebbe rivolto il suo capo se gli avesse fatto davvero una richiesta del genere. «Ehm, non credo sia possibile… ha appena venduto questa casa».

Tirò un sospiro di sollievo quando vide palesarsi sul volto di Alfred un’espressione velatamente colpita, segno che forse aveva capito qualcosa di quel discorso.

«No!» esclamò però l’americano, distruggendo all’istante tutte le speranze di Matthew di tornare presto al lavoro ed essere lasciato in pace. «Non poteva vendere questa casa, perché è sempre appartenuta a me! È quello che voleva mio padre» disse, trionfante, sbattendo senza grazia sulla scrivania la lettera spiegazzata che teneva in tasca.

«Ho capito, ma… questo…» balbettò Matthew, senza nemmeno osare toccare la lettera –gli occhi di Alfred gli facevano un po’ paura perciò evitava movimenti inconsulti-. «Il signor Kirkland ne è a conoscenza?»

«E chissene importa! Tutto ciò che è appartenuto ad Henry è mio, perché sono suo figlio e questa lettera lo prova!» rispose Alfred, con uno sbuffo. «Quindi voglio che Arthur torni immediatamente qui. Sbrigati a chiamarlo!»

«O-oh». Matthew era confuso, molto confuso.

Mentre Alfred continuava a sparargli ordini a caso, come se fosse diventato anche lui il suo capo, migliaia di pensieri gli affollavano la mente: Arthur lo aveva lasciato deliberatamente in un bel casino, pensò, quando vide la boccetta d’inchiostro verde finita sulla scrivania. Inchiostro con cui era stata sicuramente scritta quella maledetta lettera.

Stavolta lo avrebbe chiamato e gli avrebbe detto esattamente quel che pensava dei suoi stupidi giochi a suo discapito. Forse.

***

«Sembri diverso, Arthur» fece il suo capo, con un sorrisetto, seduto dietro la sua scrivania.

Arthur, invece, stava in piedi davanti a lui, facendo di tutto per non sembrare un alunno convocato dal preside –nell’ufficio di Ivan Braginski c’era solo una seria, la sua; il motivo era che il capo si divertiva molto di più ad avere una posizione di superiorità nei confronti dei suoi dipendenti, e la sua scrivania era anche rialzata da una pedana proprio per questo motivo-.

«Ah sì?» rispose Arthur, lievemente nervoso per quella convocazione, tutto dopo essere stato sospeso per una settimana. «È una sua impressione. Un caffè mi rimetterà in sesto» minimizzò infine.

Ivan si limitò a sorridere, anche se nel suo guardo non c’era nulla che somigliasse alla gentilezza. Però non disse nient’altro sull’argomento, ma indicò l’ampio quadro alle sue spalle, un dipinto impressionista che rappresentava dei girasoli.

«Van Gogh» spiegò, all’occhiata perplessa di Arthur.

«Oh…» mormorò questi, cercando immediatamente di levarsi l’espressione confusa dalla faccia e sostituendola con una accondiscendente. «Spero che abbia una buona cassaforte, in questo caso».

«Non è l’originale». Ivan alzò le spalle, voltando leggermente la sedia di pelle girevole per lanciare un’occhiata a sua volta al quadro. «Quello lo tengo nella mia villa, ben chiuso in un sotterraneo blindato».

Arthur non poté fare a meno di chiedersi quali autorità avessero permesso ad un maniaco come Ivan di costruirsi un caveau sotterraneo, ma evitò di domandarlo a lui, e continuò ad ascoltare con diligenza la fine di quel discorso.

«Ho pagato 200 mila sterline per una copia, è buffo» ridacchiò Ivan, senza tuttavia che Arthur potesse capire cosa c’era di tanto buffo nel buttare via i soldi in quel modo. «L’arte è passione» sembrò quasi rispondergli l’altro, con un’alzata di spalle. «Così come i cavalli, le auto, i soldi…».

«Sono passioni o vizi?» domandò Arthur, mordendosi la lingua un istante dopo. Contraddire il suo capo equivaleva al suicidio; la Francia doveva proprio avergli messo del fumo al posto del cervello.

«Non ho finito di parlare» fece tranquillamente Ivan. Ma il sorriso che gli lanciò fu a dir poco agghiacciante. «Ma non ti preoccupare, tra un po’ sarà il tuo turno. Vorrei capire perché hai lasciato il tuo lavoro per andartene in vacanza».

«Signore, mi dispiace se il mio comportamento le ha causato dei problemi…» cominciò Arthur, in fretta, ma Ivan lo interruppe quasi subito.

«Sei uno dei broker più abili che io abbia mai assunto» gli disse, fissandolo quasi con approvazione. Tuttavia, le sue intenzioni rimasero oscure ad Arthur, finché Ivan non gli passò una lettera. «Accetta le conseguenze delle tue azioni. Hai un’ora».

Arthur chinò la testa in segno di saluto, intuendo che con quell’ultima affermazione Ivan considerava chiuso il discorso, e prese la lettera, certo che contenesse un avviso di licenziamento. Uscì dall’ufficio del suo capo, rabbrividendo leggermente prima di aprire la busta.

Tuttavia, osservò con sorpresa che non era affatto ciò che si aspettava.

Il suo cellulare, che come sempre gli era complice nei momenti cruciali della sua vita –particolarmente concentrati nell’ultima settimana-, decise in quel momento di cominciare a squillare. Arthur rispose quasi subito, se non altro per liberare la mente dal pensiero di ciò che aveva appena letto, che ancora non sapeva classificare come una notizia buona o cattiva.

«Arthur!»

«Oh… ehm, James?» rispose Arthur, cercando di figurarsi perlomeno nella testa l’immagine del suo assistente, ma trovando appena un volto sfocato nei propri ricordi. Però almeno stavolta si era accorto che quella era la sua voce.

«Devi immediatamente tornare in Francia! Alfred è impazzito, sta parlando di tutte le modifiche che vuole fare alla vigna ora che è sua, e Lovino è infuriato… Antonio non mi aiuta per niente, e devo ancora finire di sistemare la faccenda con avvocati e notai!» disse Matthew, con il respiro affannato alla fine, perché aveva detto tutto d’un fiato.

«Mi hanno chiesto di diventare socio dell’azienda» fece semplicemente Arthur, gettando nello sconforto il suo assistente.

 

«Ma come, quindi non torni? Ti prego, devi aiutarmi, torna soltanto per un giorno, per favore!» esclamò Matthew, supplicandolo. Sentiva provenire dalla cucina gli strilli di Lovino che era da quella mattina che tentava di uccidere Alfred con qualunque cosa gli capitasse a tiro. Stava urlando qualcosa a proposito di “hamburger, schifezze da americani”; ovviamente, Antonio non faceva quasi nulla per fermarlo.


«Come sta Francis?» mormorò però Arthur. Si rendeva conto di essere separato dal francese da soli due giorni, ma quel solo pensiero era capace di destabilizzarlo come poche cose. Ovviamente, la cosa lo infastidiva parecchio, eppure non l’aveva trattenuto dal fare quella domanda.

«Eh? Il ragazzo amico di Antonio?» chiese Matthew, che aveva avuto l’occasione di conoscerlo da appena poche ore. «Mi pare stia bene… ma Arthur, hai capito quello che ho detto?»

Arthur stette in silenzio per qualche attimo, osservando il tavolo davanti a sé con aria vacua. «Devo andare, adesso» rispose alla fine, anticipando però le proteste del suo assistente. «Non ti preoccupare di nulla, torna a fare quello che stavi facendo prima».

Senza aspettare che l’altro dicesse qualcosa, riattaccò, improvvisamente consapevole di qualcosa che era stato tenuto come in sospeso nella sua mente per tutto il tempo che era stato in Francia. Il pensiero di Francis, dei loro corpi avvinghiati, gli riportava alla mente qualcosa che aveva totalmente, totalmente rimosso.

Arthur fece un piccolo sorriso, pensando che tutto ciò che avrebbe potuto fare in quel momento si riduceva ad un’unica cosa.

***

«Oh, Arthur! Dà un’occhiata al figlio di Madame Bonnefoy, Francis, mentre io porto sua madre in visita alla villa».

Il ragazzino dai capelli color paglia alza gli occhi dal libro, seccato. Sta steso in costume a pancia in giù su una sdraio accanto alla piscina, e i suoi occhi vagando intorno finché non scorgono lo zio, che gli ha rivolto la parola dal parco.

«Ma devo finire di leggere l’ultimo capitolo di Morte a Venezia!» esclama Arthur, indignato per l’essere stato interrotto in un momento così importante.

Il figlio di Madame Bonnefoy si è avvicinato comunque alla piscina, si è seduto dalla parte opposta a quella di Arthur, su un’amaca, e lo guarda. È un ragazzino molto carino, dai capelli biondi e gli occhi azzurri, ma Arthur è troppo occupato a fissare lo zio con aria di rimprovero per notarlo.

«Dato il titolo del libro, non credo che la fine ti sorprenderà!» gli urla dietro zio Henry, prendendo poi sottobraccio l’avvenente donna che è con lui, incredibilmente giovane per avere già un figlio. Del resto, suo nipote non se ne stupisce; ha imparato presto che i francesi non si fanno scrupoli di nessun genere in amore, nemmeno se si tratta dell’età.

Arthur sente lo zio borbottare qualcosa alla donna a proposito di una visita nella sua stanza, ma è troppo impegnato a sbuffare per capire il significato di quelle parole.

I suoi occhi verdi si spostano con stizza su Francis, che ancora lo sta a fissare con un sorrisino leggero sulle labbra. Si dondola leggermente sull’amaca, come se non si sentisse affatto in colpa per aver costretto Arthur ad interrompere la lettura del suo prezioso libro.

Dopo pochi secondi passati a scrutarsi, poi, fa una cosa che mette subito in agitazione il bambino, alzandosi dall’amaca e sfilandosi senza ritegno i pantaloncini, rimanendo in boxer.

Quei movimenti che fa con il corpo, togliendo anche la maglietta, quella lentezza sensuale che riserva ad ogni tocco, non li fanno sembrare affatto dei gesti adatti a dei ragazzini, anche se loro lo sono. Arthur è a bocca aperta e non riesce a comprendere, confuso, ciò che l’altro ha intenzione di fare, finché Francis non indugia un momento sul bordo della piscina sporgendosi sull’acqua, prima di tuffarsi.

È elegante, aggraziato, anche mentre Arthur scorge la sua figura nuotare sott’acqua ed avvicinarsi sempre di più alla sua sdraio, posizionata proprio accanto alla piscina.

Quando la testa di Francis emerge zuppa a pochi centimetri dal suo volto, Arthur ormai è senza fiato e non riesce a spiegarsi l’assoluta confusione che gli sta popolando la mente. Guarda gli occhi del ragazzino e sente che in quel momento sulla terra non c’è nulla di più bello di quelle sfumature celesti e di quel sorriso gentile.

Poi, Francis posa le labbra sulle sue, in un fugace e tenero attimo.

Prima di abbassarsi di nuovo sul pelo dell’acqua, unisce una mano a coppa, portandola alla bocca, tenendosi aggrappato al bordo della piscina con l’altra. Avvicinando il volto al suo orecchio, gli sussurra delle parole.

Arthur sente le labbra e il volto in fiamme, e vorrebbe davvero uccidere quello stupido ragazzino francese, che si crede di essere chissà chi con tutta la sua avvenenza.

Forse però sulla terra c’è qualcosa di più bello degli occhi di Francis: i suoi baci. 




 

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reduce di una serata all'insegna dello yaoi, eccovi il nuovo capitolo ^^ è il penultimo. so che lo ripeto ogni volta, ma è stato difficile arrivare fin qui xD quindi ringrazio infinitamente i miei lettori e chi ha recensito, rendendomi la personcina più felice del mondo ç-ç


to GinkoKite: Arthur somiglia a Crowe in effetti (cioè, le loro sopracciglia xD)!! scusami se ti ho fatto aspettare con l'aggiornamento, per l'epilogo non ci metterò così tanto. ma questa storia è stata pubblicata a singhiozzo e ho il sospetto che letta tutta insieme sia un pò confusionaria ^^' comunque ti ringrazio tantissimo :D mi fanno davvero piacere tutti i complimenti che mi fai ç-ç

to Yuri_e_Momoka: questa recensione quasi quasi me la ricopio da qualche parte *___* tu che ti credi una stalker, ora capisci dove arriva il mio grado di maniacalità? xD sono felicissima che ti piaccia la mia FrUk, ma mi devo impegnare ancora di più per aumentare le schiere dei loro fan u.u sono troppo poche, e loro sono la coppia più bella di Hetalia :° grazie mille per tutto.. *piange commossa con labbro tremulo*

to Julia_Urahara: devi assolutamente pubblicare qualcosa, così tutto l'impegno che ci metti a commentarmi potrò ricambiarlo <3 Arthur diventa meno stronzo, visto? xD alla fine è quasi romatico (ma è sempre di Arthur che si parla eh..). Alfred è troppo sulle sue per farci qualcosa xD insomma, lui è l'eroe -solitario possibilmente-!! un bacio mia cara, grazie mille ç-ç

to Arisu Kon: eh mi sa che devi aspettare per leggere cos'ha scelto Arthur xD ma diciamo che non sarà stà gran sorpresa, penso xD con gli aggiornamenti ho cercato di impegnarmi, anche se in realtà ho fatto tutto a caso *O* alla prossima, grazie!! :D

 

harinezumi


 

  
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