Capitolo 5
“Confronti”
Seduto sul bordo di una ciminiera non molto distante dal Furinkan,
Ranma aveva avuto modo di ammirare da spettatore privilegiato la
colonna di energia irradiatasi, presumibilmente, dallo stesso cortile
dell’istituto.
Ne era abbastanza sicuro poiché la parte superiore della
facciata principale, compresi il terrazzino e il ridicolo bungalow che
avrebbe dovuto costituire l’ufficio del preside secondo la
mente contorta di quel degno esponente della famiglia Kuno, era rimasta
ben visibile ai suoi occhi per una manciata abbondante di secondi.
In quanto alla natura del fenomeno, non nutriva il minimo dubbio.
Lo Shishi Hokodan… alla massima potenza.
Saltò agilmente per i tetti del quartiere e
oltrepassò con un ultimo balzo il cancello che dava al
cortile interno. Una volta lì, fu in grado di individuare
con estrema facilità il punto preciso da cui si era levata
la luce.
Il campetto di softball. O almeno quello che ne rimaneva.
Oltrepassando diversi alberi spezzati, un ripostiglio per gli attrezzi
rovesciato e spaccato in due parti, nonché i probabili resti
della vecchia stazioncina meteorologica, raggiunse un cratere di
parecchi metri di diametro. Affacciandosi verso il basso, non fu
sorpreso di scorgere un ragazzo con la bandana che stava ritto in
piedi, ma con il capo ben chino, posizionato al suo esatto centro.
“Ryoga… che diavolo stai…”
L’altro non alzò le palpebre, ma mosse appena le
spalle.
“Uh, Ranma…” La sua voce, più
roca del solito, era perfettamente udibile. “Cosa sto
facendo, dici? Niente di particolare, provavo solo a scaricarmi.
Ma usare tutta la mia infelicità per sparare lo Shishi
Hokodan non
mi fa affatto sentire meglio, sai?” Ryoga esitò un
istante, prima di continuare. “La disperazione non fa che
fluire, scivolare attorno a me. E mi sento più
vuoto… e forse anche un po’ più solo di
prima.”
Detto ciò decise di voltare il capo, e finalmente Ranma
poté incrociare lo sguardo del rivale di sempre.
“Tu, piuttosto, dovrei chiederti cosa ci fai qui in
Hokkaido… ma immagino di essere io, tanto per cambiare, a
trovarmi nuovamente a Tokyo… Non lo trovi buffo? Il mio
senso dell’orientamento è del tutto inesistente,
eppure riesco ogni volta a tornare in questi luoghi ormai tanto
familiari.”
Ridacchiò, ma chiaramente con poca convinzione.
“Un tempo… un tempo dicevo a me stesso che questa
era la dimostrazione della forza del mio amore per Akane.” Si
arrestò di nuovo, come per riflettere sulle sue stesse
parole, mentre Ranma continuava a fissarlo dall’alto con aria
costernata. Ryoga riprese: “Forse sono sempre stato un
po’ troppo melodrammatico. O forse è vero.
Dopotutto la dolce Akane è sempre stata l’unica
persona capace di guidare i miei passi. Probabilmente, è
così anche adesso. Anche ora che lei non è
più tra…”
“Non dire idiozie!” Ranma si affrettò a
sovrastarlo, conquistando di nuovo la sua attenzione. “Non
parlare così! Se invece ti dicessi che…
che…” Il volume della voce si abbassò
repentinamente. “Che l’ho
vista?”
Ryoga non mosse alcun muscolo per diversi secondi, come se non fosse
stato certo di aver colto subito le sue parole.
“Ti risponderei che sei perfino più disperato di
me, Saotome.” Replicò poi, con un tono che Ranma
non gradì per nulla. “Ma dimmi piuttosto una cosa:
non ti sembra un po’ tardi per dimostrare quanto tenevi a
lei? Non sarebbe stato più facile trattarla bene finché
potevi? Finché ne eri in grado?”
“Smettila di parlare al passato!”
Ringhiò Ranma, che non era francamente in grado di
sopportare anche la predica da parte di quello stupido suino.
“Ti ho appena detto che…”
“Finché lei era ancora tra noi?”
E in quel momento si sentì letteralmente ribollire il sangue
nelle vene.
“Piantalaaa!”
“Sì? Altrimenti cosa mi fai?”
Ryoga non ebbe finito di proferire quelle parole, che Ranma si
gettò nel cratere con la seria intenzione di zittirlo con le
cattive maniere.
Nulla si frappose alla lotta più selvaggia.
E in realtà, forse lo sapeva benissimo anche il suo
opponente, fin dal primo istante nessuno dei due aveva bramato qualcosa
di diverso da quell’incontro.
Nabiki finì di sorseggiare la calda bevanda e ripose il
thermos nella borsa.
Così andava un po’ meglio. I brividi erano cessati
e il suo cervello poteva tornare a elucubrare.
Per il resto…
Già prima che il pilastro di luce fosse sbucato dai tetti
più bassi, aveva considerato più di una volta
l’idea di abbandonare le ricerche e tornarsene a casa.
Se Ranma non aveva intenzione di farsi trovare, non sarebbe di sicuro
riuscita in una tale impresa proprio lei. E se per pura combinazione si
fosse comunque imbattuta nel signorino Saotome, perché, si
sa, la sorte è beffarda, le sarebbe stato chiaramente
impossibile riportarlo a casa contro la sua volontà.
Non aveva mai rimpianto di aver scartato la strada delle arti marziali,
né – che fosse chiaro! – lo stava
facendo quella notte: tuttavia sapeva che il sentimento che stava
provando poteva tranquillamente definirsi quanto di più
prossimo al rammarico.
Così, quando ebbe assistito all’inequivocabile
manifestazione della tecnica energetica dello Shishi Hokodan, Nabiki si
era domandata con la massima onestà cosa ci facesse una
persona del suo calibro nel pieno dell’azione.
Mentre la strada tornava progressivamente buia e solitaria come prima,
lasciandola di nuovo sola,
aveva considerato che la propria competenza esulava dalle questioni
più propriamente fisiche, e che naturalmente papà
e il dottor Tofu avrebbero raggiunto il punto incriminato almeno un
quarto d’ora prima di lei. Per quale motivo aveva dunque
accelerato di colpo il passo lanciandosi in un accenno di corsa, pur
perfettamente consapevole della totale futilità di questo
gesto?
Nabiki si era arrestata, imponendosi il consueto autocontrollo e
interrogandosi rapidamente su cosa l’avesse spinta a tale
follia. La risposta non l’aveva affatto tranquillizzata: era
come se avesse sentito, in qualche modo, il dovere di prendere le veci
della sorellina e diventare lei l’impulsiva della situazione.
Ma tutto ciò era ridicolo.
Certo, Nabiki molto più degli altri era cosciente dei danni
che avrebbe potuto provocare un artista marziale fuori dalla
norma e del tutto fuori controllo:
non poteva ignorarlo, non quando era l’unica che avesse
tenuto i conti delle spese per le calamità
‘abituali’ che si verificavano quasi
quotidianamente, in seguito a scontri uno più assurdo
dell’altro. E se l’artista marziale fuori controllo
non era solo uno straordinario combattente, ma era
l’imprevedibilità allo stato puro con il nome di
Ranma Saotome, questa volta ci sarebbe stato da tremare sul serio.
Ciò non toglieva che il suo ruolo, quella notte, fosse un
altro. E che esso contemplava, quali requisiti essenziali, una notevole
lucidità… e soprattutto la
capacità di saper attendere.
Aveva dunque cercato di ignorare l’adrenalina, a cui non era
abituata. Aveva estratto il thermos e si era sforzata di tenere
occupata la mente in maniera più utile. Estraniarsi dalle
emozioni non era semplicissimo, ma in ciò non poteva fallire
lei stessa, si ribadì, se vi era riuscito perfino lo zio
Genma.
Il caro zietto, unico a ribellarsi davanti alla proposta di Kasumi di
andare a cercare Ranma: l’unico ad aver avuto il coraggio
– o il cinismo? – di ribattere
l’argomento della propria totale inutilità di
fronte a un figlio ormai nettamente più forte di lui e che
avesse perduto del tutto quel poco della testaccia che si ritrovava.
La stessa persona che – ricordandolo, Nabiki
accennò un sorriso forzato – in Cina, in mezzo al
gruppetto di artisti marziali sconvolti e disperati, aveva mantenuto (l’egoismo) il
raziocinio necessario per chiedere alla guida di Jusenkyo di spedire
loro la cura per le maledizioni, una volta che il livello delle
sorgenti fosse tornato alla normalità.
Strano a dirsi, per una volta era Genma Saotome il
‘modello’ da cui prendere esempio. Anche
se…
Un brivido le percorse la schiena e con un attimo di ritardo il
cervello di Nabiki registrò l’informazione del
respiro caldo di qualcun
altro, che lei non aveva né visto, né
udito avvicinarsi, sfiorarle il collo.
Per nulla abituata all’evenienza di essere aggredita
– anche ciò rientrava, in qualche modo, nel ruolo
di Akane – e sentendosi il cuore palpitare fino in gola,
Nabiki evocò ogni stilla di sangue freddo che le fosse
rimasta e finse di non essersi accorta di nulla.
Mantieni il controllo. Ecco, così. Va bene, non
hai paura…
Gridare o provare a ribellarsi contro la nuova presenza sarebbe stato
inutile. Lei non era un’artista marziale – era una
sua scelta, perché mai pentirsene?! – e proprio
per questo motivo doveva compensare in qualche modo la carenza di
forza, tecnica e agilità con un pizzico di strategia. Forse
aveva un’unica occasione, ma avrebbe provato a sfruttarla.
Non hai paura…
Nabiki capì che qualcosa in lei non andava quando non fu in
grado di stabilire da quanti secondi quella situazione di stallo stesse
inoltrandosi. Qualcos’altro, sempre in lei, le
suggerì che si trattava comunque di un tempo più
che sufficiente e che – cosa stava ancora aspettando?!
– non doveva indugiare un solo momento di più.
Non hai…
Gettò la borsa dietro di sé, scattò in
avanti e cominciò a correre. La tentazione di scoprire
l’identità del suo assalitore – magari
la stessa persona che stava cominciando a sospettare fosse implicata
negli ultimi avvenimenti? – era molto forte, tuttavia si era
imposta di non voltarsi e rischiare di perdere velocità.
Tutte queste precauzioni si rivelarono inutili. Una mano
l’intercettò, afferrandola un istante per il
braccio e facendole perdere l’equilibrio.
Rotolando malamente sull’asfalto, e scorgendo
un’ombra dalla lunga chioma avvicinarsi a lei, Nabiki non
riuscì più ad ascoltare la voce della ragione,
né quella del rimpianto.
E allora gridò forte.
Mentre le ultime parole che le aveva proferito con aria severa le
rimbombavano ancora in testa con il peso di una sentenza di condanna,
Ukyo fissò come stranita la sua cattiva
coscienza svanire
rapidamente dalla propria vista.
Solo allora smise di trattenere il respiro, e rilassò
finalmente i muscoli.
Avrebbe voluto anche lei abbandonare il Furinkan, dimenticare
ciò che stava accadendo, lasciarsi tutto alle spalle.
Ran-chan era a pochi metri di distanza, così intento a
combattere con Ryoga da non aver percepito nemmeno la sua presenza.
Ogni volta che lo incontrava, Ran-chan sembrava sempre più a
un passo dal baratro. E qualunque suo tentativo di salvarlo si stava
traducendo in una spinta ulteriore verso il fondo.
Poco fa, dopo aver seguito la traccia dello Shishi Hokodan e aver
assistito ancora una volta alla disperazione del proprio compagno
d’infanzia, aveva desiderato sinceramente e con tutta se
stessa di tornare indietro. Ma la sua coscienza non era dello stesso
parere.
Aveva intercettato i suoi passi. Le era piombata alle spalle
letteralmente dal nulla cogliendola alla sprovvista – e
nessun opponente fisico aveva mai fatto sentire Ukyo tanto debole e
inerme! – per poi ricordarle con severità il loro
‘piccolo patto’.
Ukyo non aveva saputo spiegare cosa esattamente fosse andato storto
l’altra notte. Come mai non avesse approfittato della grande
occasione. Il rimorso? Oppure qualcos’altro. A essere
sinceri, la sua memoria era ancora fitta di buchi. E forse lo stress e
la tensione le avrebbero giocato un brutto scherzo anche questa volta.
Invece non dovrai permetterti di sbagliare nuovamente,
le aveva replicato con rabbia il suo ‘io’
più malvagio e, lui sì, senza alcuno scrupolo. Questa
notte è l’ultima occasione, ci stiamo giocando
tutto! Mi avevi dato la tua parola, Ukyo Kuonji, non te la vorrai
rimangiare proprio adesso?! Ormai ci sei dentro fino al collo,
perciò a ben vedere non hai molta scelta! Te lo chiedo
un’ultima volta: sei con me…?
Ukyo aveva deglutito a fatica, per poi annuire.
Non poteva fare altro… giusto?
Quella specie di proiezione distorta di se stessa si era infine
congedata. Ma Ukyo era rimasta.
Sarebbe stato questa notte.
Ranma si sarebbe messo il cuore in pace.
E avrebbe… avrebbero finalmente
potuto liberarsi dell’ombra di Akane una volta per tutte.
Anche se ciò significava mettere in atto il tradimento
più grande.
Forse rientrava nell’equilibrio delle cose. Anche lui
l’aveva tradita, no?
(“Avevate promesso di portarmi con voi!”)
Tuttavia ciò non la faceva sentire meno in colpa.
Perdonami, Ran-chan! Ti scongiuro! Lo sto facendo solo
perché ti amo, perché ti ho sempre
amato… fin da quando eravamo bambini…
sempre… e in questo momento il mio amore è tutto
ciò che posso darti…
Nuove grosse buche storpiavano il terreno della scuola.
Erano entrambi distesi sul suolo, l’uno a pochi metri
dall’altro, e respiravano affannosamente. I loro vestiti
erano parzialmente sbrindellati e sporchi di terriccio.
L’artista marziale al suo fianco, continuando a scrutare un
punto indefinito del cielo, ruppe il silenzio.
“Mi sembri fuori forma.” Disse.
Ranma accennò a rialzarsi, mostrando il pugno. “E
a me sembra che tu ne voglia ancora, P-chan.”
Lo stuzzicò, marcando il tono mentre pronunciava il
nomignolo. Ryoga, straordinariamente, non si mosse dalla sua posizione.
“Sai la novità?” Riprese, senza alcun
nesso logico. “Ho lasciato Akari.”
Ranma mugolò sorpreso. E Hibiki accennò un
sorriso di rassegnazione.
“L’altra mattina mi trovavo nei pressi della
fattoria di suo nonno. Non sapevo quando avrei avuto modo di trovare
nuovamente la strada, così ho deciso di non indugiare oltre.
Piangeva, quando le ho raccontato tutto. Forse piangeva per la morte di
Akane. Forse perché le ho detto addio. Probabilmente, per
tutte e due le cose.”
“Hai lasciato Akari?!”
Riuscì finalmente a ripetere Ranma, incredulo.
“Già, che ironia della sorte! La stessa identica
cosa che ho sempre rimproverato a te nei confronti di Akane: ho fatto
soffrire la piccola Akari… e proprio quando avevo scoperto
di amarla veramente. Lei non meritava questo. So di essere stato un
mostro. Ma ora io ti chiedo: potevo mancarle ancor più di
rispetto, continuando a frequentarla mentre il mio cuore piangeva senza
sosta pensando ad Akane? Purtroppo è una verità
che non posso evitare: Akane morta ha
vinto per sempre nell’angoscia del mio animo rispetto ad
Akari-chan viva.”
Si alzò da terra. Ranma lo imitò, con un gesto
più sgraziato, ignorando i muscoli doloranti.
“Piantala, una buona volta! Ti ho detto di averla
vista!”
Ryoga non protestò, ma lo fissò con
un’espressione che lui aveva già scorto tante,
troppe volte. “Ti compatisco, Ranma. Un giorno riuscirai ad
accettarlo. Ora, semplicemente, è troppo presto.”
Infilò lo zaino sulle spalle. “Io mi
rimetterò in viaggio. A differenza di te, non posso
sopportare di rimanere un altro momento di più in questi
luoghi così pregni di lei, che mi riportano alla mente
troppi dolorosi ricordi… perciò, stavolta,
non credo che tornerò.”
Con quest’ultima frase di congedo, guizzò via.
Ryoga… il solito Ryoga.
Ranma immaginò che, a prescindere dall’eccessiva
quanto consueta teatralità delle sue dichiarazioni, P-chan
facesse sul serio e stesse davvero pregando affinché la
propria mancanza di orientamento lo perdesse nel più remoto
angolo del globo. Ma lui sperò che anche questa volta, come
le altre, il suo addio potesse in breve tempo rivelarsi un arrivederci.
Quando non fu più in grado di distinguerlo dalle altre
ombre, Ranma si sedette a braccia conserte e pensò. Che gli
altri avessero ragione? Che lui stesse veramente perdendosi a forza di
inseguire semplici illusioni?
Non fu molti minuti dopo che udì sopraggiungere gli altri.
Il buon vecchio Tofu aveva provato ad avvicinarsi senza rivelargli la
sua presenza, ma era stato tradito dall’improvviso pianto
isterico del signor Tendo, che lo scongiurava di tornare da loro prima
che fosse troppo tardi. Il dottore aveva cercato di tranquillizzare
Soun, ma il capopalestra aveva iniziato a ribattere che un uomo fiero
non ha paura di piangere… e diverse altre amenità
che Ranma non aveva alcuna voglia di ascoltare.
Non intendeva farli preoccupare, tuttavia non se la sentiva ancora di
tornare alla
luce. Decise di mimetizzare la propria, di presenza,
adoperando l’Umisen-ken –
in teoria la tecnica sarebbe dovuta essere sigillata per sempre e mai
più venire usata da chicchessia, ma ora questi discorsi
sull’onore e sulle arti marziali gli suonavano come tante
fandonie – e s’incamminò in silenzio
verso il lato opposto del cortile, che era rimasto parzialmente integro.
Procedette finché le grida del signor Tendo si dispersero in
lontananza, e l’ambiente tornò tranquillo.
Solo allora Ranma confidò a se stesso di
sentirsi… meglio. L’incontro con Ryoga era
ciò che gli ci voleva, forse, per riprendere contatto con la
realtà.
Si sdraiò nuovamente, a braccia e gambe distese, imitando
P-chan e lasciandosi avvolgere dalla placidità del cielo. Il
cielo che, come un vecchio amico, come per fargli un regalo, quella
notte era tornato sereno e stellato anche se privo della luna nuova.
Il cielo che era un vecchio amico: gli aveva tenuto compagnia nei
momenti più tristi, distraendolo dalla noia e scacciando via
tutte – sentendo un miagolio lontano, tremò appena
e si corresse: quasi tutte
– le sue paure infantili nelle notti insonni passate in
viaggio col vecchio, che dal canto suo puntualmente dormiva beato.
Ranma chiuse gli occhi e si abbandonò per qualche secondo a
un lieve torpore.
Il dolore per la scomparsa di Akane, incrementato dal rimorso per tutte
le parole non dette, non sarebbe potuto scomparire come per magia. Ma
probabilmente, seguendo l’invito di Ryoga, poco a
poco… poteva imparare a…
Fu in quel momento che Ranma percepì qualcuno. Forse i
muscoli, come aveva detto P-chan, erano sul serio fuori allenamento: ma
il suo sesto senso continuava a non tradirlo.
Sussultò, quando alzando lievemente le palpebre e piegando
appena il capo scorse una sagoma sfocata che sicuramente non
corrispondeva né a quella di Tofu, né a quella di
Soun.
Il corpo gli tremò lievemente.
Proprio come l’altra
volta.
Doveva aprire completamente gli occhi?
Doveva alzarsi?
Esitò, e questo gli permise di non abbandonare la propria
posizione, di restare immobile con gli occhi socchiusi, come se stesse
dormendo. Fu la sagoma, così, ad avvicinarsi.
Avanzò, pur con passi incerti, come se fosse spaesata.
Giunse davanti a lui. Si chinò a guardarlo in volto, le mani
appoggiate sulle ginocchia per non sbilanciarsi.
E il giovane Saotome, d’impulso, aprì le palpebre
e incontrò il suo viso,
in parte ricoperto dal buio.
Anche questa immagine era frutto della propria pazzia? Così
gli avrebbero detto gli altri. Eppure sembrava così reale.
Non aveva, però, il coraggio di allungare una mano verso di
lei. Se si fosse dissolta, impedendogli di toccarla, non avrebbe potuto
sopportarlo.
Ma questa volta avvenne una cosa diversa.
Questa volta, lei parlò.
“Ranma…”