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Autore: rolly too    04/12/2010    1 recensioni
Pietro è convinto che sia Nader quello strano. E' lui che si sta allontanando, è lui che improvvisamente sembra faticare a stargli accanto.Pietro è consapevole dei propri errori e sa che rivelarli significherebbe dire addio a Nader. Ma tenerli nascosti non è semplice, e la scelta più facile potrebbe non essere la scelta migliore.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sapevo che avrei dovuto chiedere informazioni per la festa, ma non mi andava di fare la figura dell'idiota che non si ricorda mai le strade. Giusto per non farmi riconoscere. E quindi, eccomi a girovagare come un deficiente per questa maledetta rotatoria.
«È semplicissimo,» mi ha detto mio padre questa mattina «guarda, basta che vai verso l'autostrada e alla rotatoria, prima del casello, giri a destra.»
Eh. Fosse facile! Io, di strade, a destra, non ne vedo neanche una. Ed è già la sesta volta che faccio il giro della rotatoria. Comincio un po' a seccarmi, anche perché tutto questo correre in tondo mi sta facendo venire su la cena di tre sere fa. Mi ci vorrà mezz'ora per riprendermi, una volta arrivato. E sarò persino in ritardo, come sempre. Quindi, alla fine, mi farò riconoscere comunque...
Alla fine mi arrendo. Mi fermo al lato della strada e prendo il cellulare. Sono stato davvero un idiota a non farmi dare il numero da Luca! E adesso chi chiamo? Poi mi viene in mente che forse, forse, ho il numero della Clio in memoria. Ringrazio il cielo e già che ci sono anche la terra quando lo trovo.
«Clio, ti prego, dimmi che sai spiegarmi come si arriva alla festa.» imploro.
«Sì, sì, tranquillo: te lo spiego. Allora, sei alla rotatoria?»
«Sì.»
«Bene. Adesso vai avanti e sulla destra, dove c'è il parcheggio, c'è una stradina sterrata. Tu vai giù per di là, sempre dritto. Qualunque cosa vedi, non fermarti, che è la strada giusta.»
Qualunque cosa vedi, non fermarti. Non so se il suo intento sia quello di rassicurarmi, ma non c'è riuscita. Ma come sarebbe a dire Qualunque cosa vedi, non fermarti? Mi chiedo davvero come abbia fatto Luca a trovare questo posto. Però faccio lo stesso quello che ha detto la Clio. E non appena imbocco quella dannatissima stradina sterrata, che fa sobbalzare la moto per via delle buche, capisco quello che voleva dire. Mi ha mandato in un cantiere! Fantastico.
«Sei arrivato, finalmente!» esclama la voce di Luca quando finalmente scendo dalla moto, vicino a una villa con i muri marroni. «Pensavo che ti fossi perso.»
«Ci sono andato vicino.» borbotto togliendo il casco.
«Non saresti l'unico.» commenta lui scuotendo la testa. «A Giorgio è venuto male a furia di continuare a girare per quella rotatoria.» Indica con il pollice un ragazzo seduto su una sedia in mezzo al cortile, pallido come la neve.
«Come lo capisco.»
«Sì? Be', se stai per svenire ci sono delle sedie, lì, oppure c'è da bere, sul tavolo. Tra poco arriva anche la roba da mangiare.»
Si allontana con un sorriso e io mi avvicino alle bevande. Non faccio nemmeno in tempo ad avvicinarmi al tavolo che sento qualcuno che mi afferra bruscamente per un braccio e mi tira da una parte.
«Eccoti!» strilla la Clio. Sembra furibonda. Mi caccia tra le mani un pezzo di carta non meglio definito e una penna, poi mi spinge a calci verso la villa.
«Ehi, ma che stai facendo? Sei impazzita?»
«Cammina! Ci siamo dimenticati il biglietto, prima, quindi lo devi firmare adesso. C'è il bagno là,» mi mostra una porta chiara in un corridoio basso e buio «entraci, firma quel pezzo di carta ed esci senza dare troppo nell'occhio. Hai capito?» blatera a velocità folle. Mi chiedo come faccia a parlare senza impappinarsi.
«Sì, sì, ho capito...» brontolo, ma obbedisco senza troppe storie. Non credo che Luca si risentirebbe molto se ci vedesse mentre firmiamo questo dannato biglietto, ma la Clio sembra più agguerrita che mai e non mi sembra proprio una buona idea contrariarla.
«Scusa.» esclamo aprendo la porta, perché ovviamente, come si conviene a uno come me, ho beccato in pieno un tizio con i capelli rossi che ci era proprio dietro. «Ti ho fatto male?»
«No, no.» risponde tranquillo lui. Prende a lavarsi le mani e mi guarda sullo specchio, mentre, alle sue spalle, appoggio la carta al muro e compio, solerte, il mio lavoro. «Sei una delle vittime di quel mostriciattolo con i capelli corti?» mi domanda.
«Se intendi la Clio, allora sì.»
«Non lo so come si chiama, ma sei già il ventunesimo che entra qui con quel biglietto e quella penna.»
Lo guardo e alzo le sopracciglia.
«Scusa, ma da quant'è che sei qua dentro?»
Ricambia il mio sguardo e scoppia a ridere.
«Ma no, cos'hai capito?» si passa una mano sul volto e scuote la testa. «Ero fuori, sotto al portico. E ti dico che sei il ventunesimo.»
«Bah, mi fido.» Ripiego con cura il biglietto e lo metto in tasca.
Lui non dice più nulla e mi precede alla porta. Quando esco anch'io Clio è fuori e mi fissa. È la persona più impaziente che conosca.
«Hai fatto?» domanda.
«Sì.»
«Devo controllare?»
«Non ce n'è bisogno, per la miseria, so scrivere il mio nome!»
«Non si sa mai.»
«Clio?»
«Che vuoi?»
«Rilassati un po'.»
Ma non mi ascolta nemmeno. Vede una macchina che si avvicina alla villa e prima ancora che io abbia il tempo di aprire bocca ci è già corsa incontro.
«Il tuo fidanzatino non viene?» mi domanda all'improvviso Luca, che mi si è avvicinato senza che me ne accorgessi.
«No.» sospiro. «Sua madre non lo lascia.»
«Di' piuttosto che mi odia.»
«Non credo che sia proprio odio. Diciamo piuttosto che non gli piaci.»
«Lui non piace a me.» chiarisce subito. «Però è strano vederti da solo.»
Sì, è strano. Ed è anche abbastanza fastidioso. Perché ora che la Clio è andata a tormentare una ragazza che non ho mai visto prima, io sono rimasto da solo. Non c'è nessuno a cui me la senta di avvicinarmi e intavolare una conversazione, un po' perché moltissimi dei presenti – e sono davvero tanti! - rispecchiano il canone del body-builder che a me proprio non ispira, un po' perché mi sembrano tutti impegnati a parlare tra loro e l'idea di intromettermi mi sembra maleducata. E quindi, tra l'opportunità di rimanere in piedi, da solo, a fare l'imbecille, e quella di prendere il coraggio a due mani e andare da qualcuno per vedere se, pietosamente, accetta di fare finta di prendermi in considerazione, scelgo la più logica. Me ne rimango fermo dove sto, da solo, a fare l'imbecille. E ci rimarrei anche tutta la sera, se non fosse che la Clio torna correndo verso di me, tenendo per mano un ragazzo dall'aria svogliata che ha tutta l'aria di voler essere altrove.
«Sei già tornata di buon umore?» la accolgo con un sorriso.
«Sì, perché sono riuscita a raccogliere tutte le firme.» Io la Clio la vedrei bene come raccoglitrice di firme professionista. Non ci sarebbe scampo a una così.
«Ottimo.»
«Lui è Al.» Mi presenta il tipo che sta con lei. Lo saluto con un cenno della testa e lui fa lo stesso. Siamo appena fuori dal portico della villa, la musica è alta e lei strilla per farsi sentire. «Non ci voleva venire, l'ho costretto.»
«Me lo immagino!»
Ma lei già non mi ascolta più. Facendo scivolare i piedi a terra cerca di trascinare ancora il povero ragazzo ma lui, che è ben più alto e grosso di lei, rimane fermo e la guarda sorridendo, fino a che non decide, mosso da pietà, di assecondarla. Muove un passo avanti e lei ne approfitta per mettere più forza nel suo gesto, così che nel giro di poco sono scomparsi entrambi. Probabilmente, conoscendo Clio, lo sta costringendo a ballare. E considerando com'è lei, sono certo che c'è riuscita.
Torno al tavolo con le bibite e mi siedo lì vicino, solo. Dal momento che non ho niente da fare, prendo il cellulare e chiamo Nader. Almeno, se non riesco a trovare un modo per parlare con qualcuno qui, posso chiacchierare con lui a distanza.
«Ehilà, Moretto...» lo saluto quando mi risponde.
«Pietro jan! Sei alla festa?» Ha ancora un po' di tosse e aspetto che gli passi prima di rispondere.
«Sì. Si sta bene qui, hai fatto male a non venire.»
«Stai mentendo.» commenta tranquillamente lui. «Non mi avresti chiamato, altrimenti
«Okay, mi hai smascherato.»
«Non ci voleva tanto.»
«D'accordo, ma non darti arie. È che ormai è vecchia. Dovrei trovare qualcosa di nuovo da dire, non credi?»
«Sì, mi sa che è meglio.» Ride. «Dai, Pietro jan, vuoi dire che non c'è nessuno di interessante, lì?»
«Sembrano tutti palestrati.»
«Tutti quanti? Ma insomma, siete così pochi
«Non siamo per niente pochi! Ci saranno duecento persone...»
«Tutte palestrate
«Sì.»
«Nay, non ci credo nemmeno un po'.» Sospira, tossisce un paio di volte e poi continua: «Adesso ascolta, fai come ti dico. Ora metti giù il telefono, vai un po' in giro e cerchi qualcuno un po' in sovrappeso, d'accordo? Quando l'hai trovato, vai lì e gli chiedi come si chiama. E poi parla con lui. Se stai sempre al telefono con me nessuno ti verrà vicino, vedrai. Sembri antipatico, sempre al cellulare.»
«Si sarebbe evitato tutto questo, se tu fossi venuto con me.»
«Non provarci nemmeno, non attacca. Dai, fai come ti ho detto
«Me la pagherai, Moretto.»
«Ci conto
Riattacco e provo davvero a seguire le sue istruzioni. Ma fatico davvero a trovare qualcuno che attiri la mia attenzione. C'è uno un po' in sovrappeso, vicino all'altro tavolo, ma sta mangiando con una foga tale che l'unico motivo per cui mi verrebbe in mente di avvicinarmi sarebbe quello di chiedergli come faccia a ingurgitare tutto quel cibo in così poco tempo. Che abbia mai pensato di iscriversi a una di quelle gare di mangiatori di hot-dog?
Ma alla fine scorgo la mia preda. Anche lei sola, vicino alla rete del campo da calcio, guarda davanti a sé senza espressione. Mi avvicino.
«Ciao.» le dico cercando di sembrare cortese. «Sei sola?»
Mi rendo perfettamente conto che la domanda è cretina, perché è ovvio che è da sola, dal momento che non c'è nessuno vicino a noi, ma non mi è venuto in mente nient'altro da dire e non vorrei mai che arrivasse un qualche fidanzato geloso che, prima ancora di sentire le dovute spiegazioni che gli assicurerebbero che non deve temere per la virtù della sua ragazza, decidesse gentilmente di cambiarmi i connotati.
«Secondo te?» risponde infatti lei, e mi guarda, piegando leggermente la testa ricciuta da un lato, nello stesso modo in cui io guarderei uno strano animale sconosciuto.
«Sì, so che era una domanda idiota.»
«Ottimo.» sorride. «Ce ne sono alcuni che non se ne rendono conto. Mi chiamo Marta.»
Marta. Dove ho già sentito di una ragazza che si chiama Marta? Sono sicurissimo che qualcuno me l'abbia già nominata, una volta, ma la mia mente sembra rifiutarsi di ricordare dove.
«Pietro.»
Si siede a terra, sull'erba, con le gambe incrociate, e dal basso dove sta mi guarda di nuovo, il naso un po' arricciato in un'espressione buffa.
«E come mai sei venuto qui da me? La fidanzata ti ha lasciato e cerchi qualcuno con cui dimenticare il dolore?»
«Sai, sei cinica.»
«Grazie.»
«Però ci sei andata vicina. Anche se non ho una fidanzata, non sono stato lasciato e non ho dolore da dimenticare.»
«Il che è sicuramente un bene.»
«Sono d'accordo.»
«Ma allora non capisco come ho fatto ad andarci vicino.»
Be', è molto semplice, mia cara Marta: non ho una fidanzata, ma un fidanzato sì, e l'idiota in questione non mi ha lasciato – ma lo lascerò io, molto presto, se continua a comportarsi così –, però si è rifiutato di venire alla festa con me e l'ha fatto con il preciso intento di farmi incazzare, così non sono per nulla addolorato, ma seccato sì. E mi sento anche un po' solo e spaesato, se posso aggiungere.
«Non credo che abbia importanza.» conclude prima ancora che possa aprire bocca. «Sai giocare a calcio?»
«No.» Non mi chiedere di giocare a calcio, ti prego! Ho sempre odiato quello sport con tutto il cuore. Credo che nei miei geni sia codificata anche la mia completa incapacità di mantenere il controllo di un pallone e di capire in quale delle due porta io debba tirare. Sono uguali, per la miseria, che differenza fa se il pallone entra in una o nell'altra?
«Un maschio che non sa giocare a pallone?» esclama lei e sembra sinceramente stupita.
«Pare che sia così.»
«È interessante. C'è una palla, lì in fondo.» Con il dito indica una forma sferica in fondo al campo. «Facciamo due tiri?»
Mi domando quale parte del Non so giocare non abbia capito. Anche perché mi guarda come se si aspettasse che io vada a recuperare il maledetto oggetto, e io non ho voglia di farlo. Ma alla fine mi arrendo. Non sono davvero in grado di sostenere uno sguardo simile per più di tre secondi.
«Finalmente!» esclama quando torno con il pallone tra le mani. «Non è difficile. Dacci un calcio, e vediamo cosa riesci a fare.»
Niente. Assolutamente niente. Io, il calcio, alla palla l'ho dato. Ma questa Marta, che è scattata in piedi a una velocità incredibile, mi si è avvicinata e con un movimento che non sono riuscito bene a identificare me l'ha rubato. Lei sì che sa giocare. Si porta davanti alla porta e mentre avanza mi urla:
«Ma dai! Cerca di rubarmela!»
E io ci provo. Ed è difficile perché lei non mi ci lascia nemmeno avvicinare, ma continua a ridere e alla fine, quando finalmente riesco a sfiorare la sfera con la punta della scarpa, mi fa lo sgambetto e con una piccola spinta mi butta a terra. E a quel punto viene da ridere anche a me.
«Sei fuori di testa!» le dico mettendomi carponi e afferrandola per un lembo della maglietta. Le do uno strattone e anche lei cade.
«Guarda, ti sei macchiato!» esclama indicando i miei pantaloni. Ovviamente. Me l'aveva detto, mia madre, che avrei fatto meglio a mettere quelli neri... Ma io non l'ho ascoltata. E la chiazza verde e marrone sulle ginocchia e sulla parte esterna della coscia sinistra è ben visibile sul bianco. Mi ucciderà, quando sarà ora di riempire la lavatrice.
«Pazienza.» commento. «Direi che hai vinto, comunque. La palla è entrata in rete.»
«Ovvio che ho vinto.»
«Davvero è così ovvio?»
«Sì. Io sono bravissima e tu non sai giocare.»
«Questo è vero.»
Mi alzo in piedi, le tendo la mano e lei, afferrandola, si dà una potente spinta che le fa riacquistare l'equilibrio e che, in compenso, rischia di farlo perdere a me.
Guarda oltre la mia spalla, verso le tavole apparecchiate, e commenta:
«Credo che sia pronta la cena.»
La sua osservazione mi sembra legittima, considerato che l'immagine è simile a quella di un'orda di formiche che si getta su una briciola di pane.
«Allora?» mi domanda mentre, seduti, mangiamo. «Sei a scuola con Luca?»
«No.»
«E allora come l'hai conosciuto?»
Come l'ho conosciuto? Fatico un po' a ritrovare quel ricordo nel caos della mia mente. E il caldo che fa non contribuisce di certo. Sento i capelli sudati attaccati alla fronte e il volto bagnato.
«Stava sotto casa del mio fidanzato. Mi ha chiesto se avevo un accendino.»
«Fidanzato?» domanda allora lei, mettendo in risalto l'ultima lettera.
«Sì.» E io, memore della cena con i nonni, sono già in atteggiamento di difesa. «È un problema?»
«Non occorre che ti scaldi tanto!» protesta davanti al mio tono scortese. «Era solo una domanda. E comunque no, non è un problema. Per questo dicevi che ci sono andata vicina?»
Annuisco.
«Si è rifiutato di venire perché Luca gli sta antipatico.»
«Sta antipatico a tanti.»
«Anche a te?»
«Lo trovo un po' insipido.»
«Insipido?»
«Sì, esatto. Non è una persona profonda. È una lastra di ghiaccio sull'asfalto. Sciolto il ghiaccio, non c'è niente sotto.»
La metafora è interessante e guardando Luca che, poco distante da noi, si serve abbondantemente di birra, non posso fare a meno di immaginarlo spiaccicato al suolo, con il volto deformato in una lastra di ghiaccio che ha i suoi occhi e i suoi colori.
«E quindi perché sei qui?»
«Per lo stesso motivo per cui lo sei tu, immagino.» sospira. «Me l'ha chiesto e gli ho detto di sì senza pensare.»
«Già. Direi che abbiamo commesso lo stesso errore.»
«Sì e no.»
«In che senso?»
«Non è proprio un errore. Io mi sto divertendo.»
«Anch'io.»
«È il tuo cellulare quello che suona?»
È il mio cellulare. Ma io, distratto dalla confusione e dalla musica che, ininterrottamente, è sempre più forte, non me n'ero accorto. È un messaggio ed è di Nader.
Come va? Domanda. E mi sembra di vederlo mentre mi rivolge uno dei suoi sorrisi d'incoraggiamento.
Bene. Prendo a scrivere. Il tuo metodo ha funzionato, però lei non è in sovrappeso.
La risposta arriva poco dopo.
Eccezioni che confermano la regola, non ti distrarre! Il mio metodo è infallibile. È femmina?
E questo è il suo modo per dirmi di stare attento a quello che faccio, perché in un modo o nell'altro lo verrebbe a sapere. Tanto più che, poco fa, nascosta tra gli alberi, mi è sembrato di vedere, avvinghiata a un ragazzo, una tizia che mi pare si chiami Nargis e che fa parte degli amici afghani di Nader. E, da quello che so, ha la lingua lunga.
È femmina. Lo rassicuro.
Non risponde più e capisco che è perché è soddisfatto del proprio operato, che mi ha consentito di trovare compagnia per questa sera, e perché è contento che non mi stia piacevolmente intrattenendo con un altro maschio.
«Dicono che sia meno stressante stare con un maschio che con una femmina.» considera all'improvviso Marta sorseggiando della birra.
«Chiunque l'abbia detto non conosce Nader.»
«Chiunque l'abbia detto non era una femmina che stava insieme a un maschio.»
«Sì, volendo immagino che si possa dire anche così.»
All'improvviso si fa attenta e con la mano mi fa segno di tacere. Il motivo di tale suo scatto è ignoto.
«Senti che bella questa canzone?» mi domanda con voce eccitata. Si volta a guardare la band che sta suonando e il portico colmo di gente, davanti a loro, che si muove a ritmo di musica.
«Vieni a ballare?» mi domanda, ma non deve importagliene molto di quello che penso, perché mi afferra per una mano e prima che io possa dire qualsiasi cosa mi trascina tra la calca. E allora io ballo. In realtà so di essere abbastanza impacciato e immagino di non riuscire nemmeno ad andare a tempo, ma non importa. Mi diverto e lei, che continua a ridere, sembra fare altrettanto. Non so quanto continua. So solo che fa caldo, la musica è forte e il pavimento sembra tremare sotto i nostri piedi, e la ressa è impressionante e l'aria è pesante, irrespirabile, e i vestiti si attaccano alla pelle sudata e ho bisogno di respirare. Aria. Voglio aria, la voglio adesso.
Mi allontano dal portico e mi porto in mezzo al parco di fronte alla villa. C'è qualche coppietta appartata da qualche parte, vicino a me. Un ragazzo, vicino alla recinzione, vomita. Un gruppetto di quattro o cinque persone, dalla parte opposta, chiacchiera tranquillo, avvolto in una nuvoletta di fumo di sigarette. Luca, seduto sopra al tavolo, scola un'altra birra in compagnia dei suoi amici. Ha il volto più rosso che mai e sembra estremamente agitato.
Ma qui, almeno, c'è aria. Sono quasi le undici di sera e si è alzato un venticello leggero. Mi siedo sull'erba, poggio le mani sulle ginocchia e guardo il cielo.  È nuvoloso e secondo me ci sono buone probabilità che si metta a piovere. Fantastico. All'improvviso mi sento stanco. Sono spossato, ho un cerchio alla testa e penso che, tutto sommato, farò anche fatica a rimettermi in piedi. Non ho più voglia di stare qui. Voglio andare a casa, farmi una doccia, togliermi quest'odore di sudore di dosso, mettere i pantaloni in lavatrice prima che mia madre veda la macchia. Luca non si accorgerà nemmeno della mia assenza, brillo com'è. E nemmeno Marta, tutto sommato. Non si è nemmeno resa conto che mi sono allontanato.
Faccio fatica a rimettermi in piedi e mi dirigo verso la mia moto. Per un istante mi sembra quasi che mi sia venuta la febbre. Sarebbe tutta colpa di Nader, se fosse così. Se veramente sono ammalato, e penso di sì, è perché me l'ha passata lui. Perché io sono stato così imbecille da avvicinarmi troppo a lui quando non si sentiva bene. Ottimo. Così imparo a non ascoltare mia madre quando mi impartisce le sue lezioni di medicina spicciola.
Ma la moto non parte. Ci provo, ci provo davvero, a dare gas, ma non c'è verso. Sembra che si sia ammutinata. Il motore emette solo una specie di gracidante cigolio tormentato, come l'urlo di battaglia di un uomo che muore, poi più niente. Cazzo. Che cosa, che cosa mi trattiene dal lasciarmi prendere dalla rabbia e darle un calcio che le tiri via quelle migliaia di euro che ha addosso?
«Qualche problema?» domanda una voce accanto a me. Mi volto e vedo il ragazzo con i capelli rossi che ho urtato prima in bagno.
«Non parte la moto.»
«Lo vedo.»
«Hai qualche idea per farla partire?»
«Non sono un meccanico, ma il rumore che ha fatto prima mi fa pensare che sia arrivata la sua ora.»
È la stessa identica impressione che ha dato a me. E quindi, rosso, hai qualche soluzione da propormi o sei qui per prendermi in giro?
«Merda.» borbotto sottovoce, ma lui mi ha sentito.
«Non hai un linguaggio fine.» commenta.
«No, infatti. Dovrei?»
«Ah, non mi riguarda.»
No, anche secondo me. Se chiamo ora i miei genitori per farmi venire a prendere, come minimo mi becco due mesi di punizione. Perché me l'avevano detto, loro, di portare la moto dal meccanico per farci dare un'occhiata...
«Dove abiti?» chiede all'improvviso il rosso.
«In corso Padova.»
«Ah, sì. La strada per andare in centro.»
«Già.»
«Be', è a dieci minuti da qui. Se vuoi ti porto a casa.»
«Perché dovresti farlo? Non sai nemmeno chi sono.»
E quindi il rosso ride. In realtà, il problema è che io non so chi è lui. Non che l'idea di salire in macchina con uno sconosciuto mi spaventi più di tanto, ma nemmeno mi sembra una cosa intelligente da fare.
«Mi chiamo Sebastiano.» si presenta.
«Io Pietro. Ma non è molto più di prima, no?»
«Sai che ti dico?» fa allora lui con un sorriso. «Sei un rompiballe. Lo vuoi questo passaggio sì o no?»
«Sì.»

 

Ed ecco qui il sesto capitolo! Spero vivamente che vi sia piaciuto.
Spero di avere un vostro parere, sarebbe molto gradito.

(Da oggi utilizzerò lo spazio apposito per rispondere ai vostri eventuali commenti, perciò non li troverete più in fondo alla pagina, ma tra le risposte nello spazio recensioni).

Baci,

rolly too

   
 
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