Sapevo che avrei dovuto chiedere informazioni per la
festa, ma non mi andava di fare la figura dell'idiota che non si ricorda mai le
strade. Giusto per non farmi riconoscere. E quindi, eccomi a girovagare come un
deficiente per questa maledetta rotatoria.
«È semplicissimo,» mi ha detto
mio padre questa mattina «guarda, basta che vai verso l'autostrada e alla
rotatoria, prima del casello, giri a destra.»
Eh. Fosse facile! Io, di
strade, a destra, non ne vedo neanche una. Ed è già la sesta volta che faccio il
giro della rotatoria. Comincio un po' a seccarmi, anche perché tutto questo
correre in tondo mi sta facendo venire su la cena di tre sere fa. Mi ci vorrà
mezz'ora per riprendermi, una volta arrivato. E sarò persino in ritardo, come
sempre. Quindi, alla fine, mi farò riconoscere comunque...
Alla fine mi
arrendo. Mi fermo al lato della strada e prendo il cellulare. Sono stato davvero
un idiota a non farmi dare il numero da Luca! E adesso chi chiamo? Poi mi viene
in mente che forse, forse, ho il numero della Clio in memoria. Ringrazio il
cielo e già che ci sono anche la terra quando lo trovo.
«Clio, ti prego,
dimmi che sai spiegarmi come si arriva alla festa.» imploro.
«Sì, sì,
tranquillo: te lo spiego. Allora, sei alla
rotatoria?»
«Sì.»
«Bene. Adesso vai avanti e sulla destra, dove
c'è il parcheggio, c'è una stradina sterrata. Tu vai giù per di là, sempre
dritto. Qualunque cosa vedi, non fermarti, che è la strada
giusta.»
Qualunque cosa vedi, non fermarti. Non so se il suo intento sia
quello di rassicurarmi, ma non c'è riuscita. Ma come sarebbe a dire Qualunque
cosa vedi, non fermarti? Mi chiedo davvero come abbia fatto Luca a trovare
questo posto. Però faccio lo stesso quello che ha detto la Clio. E non appena
imbocco quella dannatissima stradina sterrata, che fa sobbalzare la moto per via
delle buche, capisco quello che voleva dire. Mi ha mandato in un cantiere!
Fantastico.
«Sei arrivato, finalmente!» esclama la voce di Luca quando
finalmente scendo dalla moto, vicino a una villa con i muri marroni. «Pensavo
che ti fossi perso.»
«Ci sono andato vicino.» borbotto togliendo il casco.
«Non saresti l'unico.» commenta lui scuotendo la testa. «A Giorgio è venuto
male a furia di continuare a girare per quella rotatoria.» Indica con il pollice
un ragazzo seduto su una sedia in mezzo al cortile, pallido come la neve.
«Come lo capisco.»
«Sì? Be', se stai per svenire ci sono delle sedie, lì,
oppure c'è da bere, sul tavolo. Tra poco arriva anche la roba da
mangiare.»
Si allontana con un sorriso e io mi avvicino alle bevande. Non
faccio nemmeno in tempo ad avvicinarmi al tavolo che sento qualcuno che mi
afferra bruscamente per un braccio e mi tira da una parte.
«Eccoti!» strilla
la Clio. Sembra furibonda. Mi caccia tra le mani un pezzo di carta non meglio
definito e una penna, poi mi spinge a calci verso la villa.
«Ehi, ma che stai
facendo? Sei impazzita?»
«Cammina! Ci siamo dimenticati il biglietto, prima,
quindi lo devi firmare adesso. C'è il bagno là,» mi mostra una porta chiara in
un corridoio basso e buio «entraci, firma quel pezzo di carta ed esci senza dare
troppo nell'occhio. Hai capito?» blatera a velocità folle. Mi chiedo come faccia
a parlare senza impappinarsi.
«Sì, sì, ho capito...» brontolo, ma obbedisco
senza troppe storie. Non credo che Luca si risentirebbe molto se ci vedesse
mentre firmiamo questo dannato biglietto, ma la Clio sembra più agguerrita che
mai e non mi sembra proprio una buona idea contrariarla.
«Scusa.» esclamo
aprendo la porta, perché ovviamente, come si conviene a uno come me, ho beccato
in pieno un tizio con i capelli rossi che ci era proprio dietro. «Ti ho fatto
male?»
«No, no.» risponde tranquillo lui. Prende a lavarsi le mani e mi
guarda sullo specchio, mentre, alle sue spalle, appoggio la carta al muro e
compio, solerte, il mio lavoro. «Sei una delle vittime di quel mostriciattolo
con i capelli corti?» mi domanda.
«Se intendi la Clio, allora sì.»
«Non lo
so come si chiama, ma sei già il ventunesimo che entra qui con quel biglietto e
quella penna.»
Lo guardo e alzo le sopracciglia.
«Scusa, ma da quant'è che
sei qua dentro?»
Ricambia il mio sguardo e scoppia a ridere.
«Ma no,
cos'hai capito?» si passa una mano sul volto e scuote la testa. «Ero fuori,
sotto al portico. E ti dico che sei il ventunesimo.»
«Bah, mi fido.» Ripiego
con cura il biglietto e lo metto in tasca.
Lui non dice più nulla e mi
precede alla porta. Quando esco anch'io Clio è fuori e mi fissa. È la persona
più impaziente che conosca.
«Hai fatto?» domanda.
«Sì.»
«Devo
controllare?»
«Non ce n'è bisogno, per la miseria, so scrivere il mio
nome!»
«Non si sa mai.»
«Clio?»
«Che vuoi?»
«Rilassati un
po'.»
Ma non mi ascolta nemmeno. Vede una macchina che si avvicina alla villa
e prima ancora che io abbia il tempo di aprire bocca ci è già corsa incontro.
«Il tuo fidanzatino non viene?» mi domanda all'improvviso Luca, che mi si è
avvicinato senza che me ne accorgessi.
«No.» sospiro. «Sua madre non lo
lascia.»
«Di' piuttosto che mi odia.»
«Non credo che sia proprio odio.
Diciamo piuttosto che non gli piaci.»
«Lui non piace a me.» chiarisce subito.
«Però è strano vederti da solo.»
Sì, è strano. Ed è anche abbastanza
fastidioso. Perché ora che la Clio è andata a tormentare una ragazza che non ho
mai visto prima, io sono rimasto da solo. Non c'è nessuno a cui me la senta di
avvicinarmi e intavolare una conversazione, un po' perché moltissimi dei
presenti – e sono davvero tanti! - rispecchiano il canone del body-builder che a
me proprio non ispira, un po' perché mi sembrano tutti impegnati a parlare tra
loro e l'idea di intromettermi mi sembra maleducata. E quindi, tra l'opportunità
di rimanere in piedi, da solo, a fare l'imbecille, e quella di prendere il
coraggio a due mani e andare da qualcuno per vedere se, pietosamente, accetta di
fare finta di prendermi in considerazione, scelgo la più logica. Me ne rimango
fermo dove sto, da solo, a fare l'imbecille. E ci rimarrei anche tutta la sera,
se non fosse che la Clio torna correndo verso di me, tenendo per mano un ragazzo
dall'aria svogliata che ha tutta l'aria di voler essere altrove.
«Sei già
tornata di buon umore?» la accolgo con un sorriso.
«Sì, perché sono riuscita
a raccogliere tutte le firme.» Io la Clio la vedrei bene come raccoglitrice di
firme professionista. Non ci sarebbe scampo a una così.
«Ottimo.»
«Lui è
Al.» Mi presenta il tipo che sta con lei. Lo saluto con un cenno della testa e
lui fa lo stesso. Siamo appena fuori dal portico della villa, la musica è alta e
lei strilla per farsi sentire. «Non ci voleva venire, l'ho costretto.»
«Me lo
immagino!»
Ma lei già non mi ascolta più. Facendo scivolare i piedi a terra
cerca di trascinare ancora il povero ragazzo ma lui, che è ben più alto e grosso
di lei, rimane fermo e la guarda sorridendo, fino a che non decide, mosso da
pietà, di assecondarla. Muove un passo avanti e lei ne approfitta per mettere
più forza nel suo gesto, così che nel giro di poco sono scomparsi entrambi.
Probabilmente, conoscendo Clio, lo sta costringendo a ballare. E considerando
com'è lei, sono certo che c'è riuscita.
Torno al tavolo con le bibite e mi
siedo lì vicino, solo. Dal momento che non ho niente da fare, prendo il
cellulare e chiamo Nader. Almeno, se non riesco a trovare un modo per parlare
con qualcuno qui, posso chiacchierare con lui a distanza.
«Ehilà, Moretto...»
lo saluto quando mi risponde.
«Pietro jan! Sei alla festa?»
Ha ancora un po' di tosse e aspetto che gli passi prima di rispondere.
«Sì.
Si sta bene qui, hai fatto male a non venire.»
«Stai mentendo.»
commenta tranquillamente lui. «Non mi avresti chiamato,
altrimenti.»
«Okay, mi hai smascherato.»
«Non ci voleva
tanto.»
«D'accordo, ma non darti arie. È che ormai è vecchia. Dovrei
trovare qualcosa di nuovo da dire, non credi?»
«Sì, mi sa che è
meglio.» Ride. «Dai, Pietro jan, vuoi dire che non c'è nessuno
di interessante, lì?»
«Sembrano tutti palestrati.»
«Tutti quanti?
Ma insomma, siete così pochi?»
«Non siamo per niente pochi! Ci saranno
duecento persone...»
«Tutte palestrate?»
«Sì.»
«Nay, non
ci credo nemmeno un po'.» Sospira, tossisce un paio di volte e poi
continua: «Adesso ascolta, fai come ti dico. Ora metti giù il telefono, vai
un po' in giro e cerchi qualcuno un po' in sovrappeso, d'accordo? Quando l'hai
trovato, vai lì e gli chiedi come si chiama. E poi parla con lui. Se stai sempre
al telefono con me nessuno ti verrà vicino, vedrai. Sembri antipatico, sempre al
cellulare.»
«Si sarebbe evitato tutto questo, se tu fossi venuto con
me.»
«Non provarci nemmeno, non attacca. Dai, fai come ti ho
detto.»
«Me la pagherai, Moretto.»
«Ci conto.»
Riattacco
e provo davvero a seguire le sue istruzioni. Ma fatico davvero a trovare
qualcuno che attiri la mia attenzione. C'è uno un po' in sovrappeso, vicino
all'altro tavolo, ma sta mangiando con una foga tale che l'unico motivo per cui
mi verrebbe in mente di avvicinarmi sarebbe quello di chiedergli come faccia a
ingurgitare tutto quel cibo in così poco tempo. Che abbia mai pensato di
iscriversi a una di quelle gare di mangiatori di hot-dog?
Ma alla fine scorgo
la mia preda. Anche lei sola, vicino alla rete del campo da calcio, guarda
davanti a sé senza espressione. Mi avvicino.
«Ciao.» le dico cercando di
sembrare cortese. «Sei sola?»
Mi rendo perfettamente conto che la domanda è
cretina, perché è ovvio che è da sola, dal momento che non c'è nessuno vicino a
noi, ma non mi è venuto in mente nient'altro da dire e non vorrei mai che
arrivasse un qualche fidanzato geloso che, prima ancora di sentire le dovute
spiegazioni che gli assicurerebbero che non deve temere per la virtù della sua
ragazza, decidesse gentilmente di cambiarmi i connotati.
«Secondo te?»
risponde infatti lei, e mi guarda, piegando leggermente la testa ricciuta da un
lato, nello stesso modo in cui io guarderei uno strano animale sconosciuto.
«Sì, so che era una domanda idiota.»
«Ottimo.» sorride. «Ce ne sono
alcuni che non se ne rendono conto. Mi chiamo Marta.»
Marta. Dove ho già
sentito di una ragazza che si chiama Marta? Sono sicurissimo che qualcuno me
l'abbia già nominata, una volta, ma la mia mente sembra rifiutarsi di ricordare
dove.
«Pietro.»
Si siede a terra, sull'erba, con le gambe incrociate, e
dal basso dove sta mi guarda di nuovo, il naso un po' arricciato in
un'espressione buffa.
«E come mai sei venuto qui da me? La fidanzata ti ha
lasciato e cerchi qualcuno con cui dimenticare il dolore?»
«Sai, sei
cinica.»
«Grazie.»
«Però ci sei andata vicina. Anche se non ho una
fidanzata, non sono stato lasciato e non ho dolore da dimenticare.»
«Il che è
sicuramente un bene.»
«Sono d'accordo.»
«Ma allora non capisco come ho
fatto ad andarci vicino.»
Be', è molto semplice, mia cara Marta: non ho una
fidanzata, ma un fidanzato sì, e l'idiota in questione non mi ha lasciato – ma
lo lascerò io, molto presto, se continua a comportarsi così –, però si è
rifiutato di venire alla festa con me e l'ha fatto con il preciso intento di
farmi incazzare, così non sono per nulla addolorato, ma seccato sì. E mi sento
anche un po' solo e spaesato, se posso aggiungere.
«Non credo che abbia
importanza.» conclude prima ancora che possa aprire bocca. «Sai giocare a
calcio?»
«No.» Non mi chiedere di giocare a calcio, ti prego! Ho sempre
odiato quello sport con tutto il cuore. Credo che nei miei geni sia codificata
anche la mia completa incapacità di mantenere il controllo di un pallone e di
capire in quale delle due porta io debba tirare. Sono uguali, per la miseria,
che differenza fa se il pallone entra in una o nell'altra?
«Un maschio che
non sa giocare a pallone?» esclama lei e sembra sinceramente stupita.
«Pare
che sia così.»
«È interessante. C'è una palla, lì in fondo.» Con il dito
indica una forma sferica in fondo al campo. «Facciamo due tiri?»
Mi domando
quale parte del Non so giocare non abbia capito. Anche perché mi guarda come se
si aspettasse che io vada a recuperare il maledetto oggetto, e io non ho voglia
di farlo. Ma alla fine mi arrendo. Non sono davvero in grado di sostenere uno
sguardo simile per più di tre secondi.
«Finalmente!» esclama quando torno con
il pallone tra le mani. «Non è difficile. Dacci un calcio, e vediamo cosa riesci
a fare.»
Niente. Assolutamente niente. Io, il calcio, alla palla l'ho dato.
Ma questa Marta, che è scattata in piedi a una velocità incredibile, mi si è
avvicinata e con un movimento che non sono riuscito bene a identificare me l'ha
rubato. Lei sì che sa giocare. Si porta davanti alla porta e mentre avanza mi
urla:
«Ma dai! Cerca di rubarmela!»
E io ci provo. Ed è difficile perché
lei non mi ci lascia nemmeno avvicinare, ma continua a ridere e alla fine,
quando finalmente riesco a sfiorare la sfera con la punta della scarpa, mi fa lo
sgambetto e con una piccola spinta mi butta a terra. E a quel punto viene da
ridere anche a me.
«Sei fuori di testa!» le dico mettendomi carponi e
afferrandola per un lembo della maglietta. Le do uno strattone e anche lei cade.
«Guarda, ti sei macchiato!» esclama indicando i miei pantaloni. Ovviamente.
Me l'aveva detto, mia madre, che avrei fatto meglio a mettere quelli neri... Ma
io non l'ho ascoltata. E la chiazza verde e marrone sulle ginocchia e sulla
parte esterna della coscia sinistra è ben visibile sul bianco. Mi ucciderà,
quando sarà ora di riempire la lavatrice.
«Pazienza.» commento. «Direi che
hai vinto, comunque. La palla è entrata in rete.»
«Ovvio che ho vinto.»
«Davvero è così ovvio?»
«Sì. Io sono bravissima e tu non sai
giocare.»
«Questo è vero.»
Mi alzo in piedi, le tendo la mano e lei,
afferrandola, si dà una potente spinta che le fa riacquistare l'equilibrio e
che, in compenso, rischia di farlo perdere a me.
Guarda oltre la mia spalla,
verso le tavole apparecchiate, e commenta:
«Credo che sia pronta la
cena.»
La sua osservazione mi sembra legittima, considerato che l'immagine è
simile a quella di un'orda di formiche che si getta su una briciola di
pane.
«Allora?» mi domanda mentre, seduti, mangiamo. «Sei a scuola con
Luca?»
«No.»
«E allora come l'hai conosciuto?»
Come l'ho conosciuto?
Fatico un po' a ritrovare quel ricordo nel caos della mia mente. E il caldo che
fa non contribuisce di certo. Sento i capelli sudati attaccati alla fronte e il
volto bagnato.
«Stava sotto casa del mio fidanzato. Mi ha chiesto se avevo
un accendino.»
«Fidanzato?» domanda allora lei, mettendo in risalto l'ultima
lettera.
«Sì.» E io, memore della cena con i nonni, sono già in
atteggiamento di difesa. «È un problema?»
«Non occorre che ti scaldi tanto!»
protesta davanti al mio tono scortese. «Era solo una domanda. E comunque no, non
è un problema. Per questo dicevi che ci sono andata vicina?»
Annuisco.
«Si
è rifiutato di venire perché Luca gli sta antipatico.»
«Sta antipatico a
tanti.»
«Anche a te?»
«Lo trovo un po' insipido.»
«Insipido?»
«Sì,
esatto. Non è una persona profonda. È una lastra di ghiaccio sull'asfalto.
Sciolto il ghiaccio, non c'è niente sotto.»
La metafora è interessante e
guardando Luca che, poco distante da noi, si serve abbondantemente di birra, non
posso fare a meno di immaginarlo spiaccicato al suolo, con il volto deformato in
una lastra di ghiaccio che ha i suoi occhi e i suoi colori.
«E quindi perché
sei qui?»
«Per lo stesso motivo per cui lo sei tu, immagino.» sospira. «Me
l'ha chiesto e gli ho detto di sì senza pensare.»
«Già. Direi che abbiamo
commesso lo stesso errore.»
«Sì e no.»
«In che senso?»
«Non è proprio
un errore. Io mi sto divertendo.»
«Anch'io.»
«È il tuo cellulare quello
che suona?»
È il mio cellulare. Ma io, distratto dalla confusione e dalla
musica che, ininterrottamente, è sempre più forte, non me n'ero accorto. È un
messaggio ed è di Nader.
Come va? Domanda. E mi sembra di vederlo
mentre mi rivolge uno dei suoi sorrisi d'incoraggiamento.
Bene.
Prendo a scrivere. Il tuo metodo ha funzionato, però lei non è in
sovrappeso.
La risposta arriva poco dopo.
Eccezioni che
confermano la regola, non ti distrarre! Il mio metodo è infallibile. È
femmina?
E questo è il suo modo per dirmi di stare attento a quello che
faccio, perché in un modo o nell'altro lo verrebbe a sapere. Tanto più che, poco
fa, nascosta tra gli alberi, mi è sembrato di vedere, avvinghiata a un ragazzo,
una tizia che mi pare si chiami Nargis e che fa parte degli amici afghani di
Nader. E, da quello che so, ha la lingua lunga.
È femmina. Lo
rassicuro.
Non risponde più e capisco che è perché è soddisfatto del proprio
operato, che mi ha consentito di trovare compagnia per questa sera, e perché è
contento che non mi stia piacevolmente intrattenendo con un altro
maschio.
«Dicono che sia meno stressante stare con un maschio che con una
femmina.» considera all'improvviso Marta sorseggiando della birra.
«Chiunque
l'abbia detto non conosce Nader.»
«Chiunque l'abbia detto non era una femmina
che stava insieme a un maschio.»
«Sì, volendo immagino che si possa dire
anche così.»
All'improvviso si fa attenta e con la mano mi fa segno di
tacere. Il motivo di tale suo scatto è ignoto.
«Senti che bella questa
canzone?» mi domanda con voce eccitata. Si volta a guardare la band che sta
suonando e il portico colmo di gente, davanti a loro, che si muove a ritmo di
musica.
«Vieni a ballare?» mi domanda, ma non deve importagliene molto di
quello che penso, perché mi afferra per una mano e prima che io possa dire
qualsiasi cosa mi trascina tra la calca. E allora io ballo. In realtà so di
essere abbastanza impacciato e immagino di non riuscire nemmeno ad andare a
tempo, ma non importa. Mi diverto e lei, che continua a ridere, sembra fare
altrettanto. Non so quanto continua. So solo che fa caldo, la musica è forte e
il pavimento sembra tremare sotto i nostri piedi, e la ressa è impressionante e
l'aria è pesante, irrespirabile, e i vestiti si attaccano alla pelle sudata e ho
bisogno di respirare. Aria. Voglio aria, la voglio adesso.
Mi allontano dal
portico e mi porto in mezzo al parco di fronte alla villa. C'è qualche coppietta
appartata da qualche parte, vicino a me. Un ragazzo, vicino alla recinzione,
vomita. Un gruppetto di quattro o cinque persone, dalla parte opposta,
chiacchiera tranquillo, avvolto in una nuvoletta di fumo di sigarette. Luca,
seduto sopra al tavolo, scola un'altra birra in compagnia dei suoi amici. Ha il
volto più rosso che mai e sembra estremamente agitato.
Ma qui, almeno, c'è
aria. Sono quasi le undici di sera e si è alzato un venticello leggero. Mi siedo
sull'erba, poggio le mani sulle ginocchia e guardo il cielo. È nuvoloso e
secondo me ci sono buone probabilità che si metta a piovere. Fantastico.
All'improvviso mi sento stanco. Sono spossato, ho un cerchio alla testa e penso
che, tutto sommato, farò anche fatica a rimettermi in piedi. Non ho più voglia
di stare qui. Voglio andare a casa, farmi una doccia, togliermi quest'odore di
sudore di dosso, mettere i pantaloni in lavatrice prima che mia madre veda la
macchia. Luca non si accorgerà nemmeno della mia assenza, brillo com'è. E
nemmeno Marta, tutto sommato. Non si è nemmeno resa conto che mi sono
allontanato.
Faccio fatica a rimettermi in piedi e mi dirigo verso la mia
moto. Per un istante mi sembra quasi che mi sia venuta la febbre. Sarebbe tutta
colpa di Nader, se fosse così. Se veramente sono ammalato, e penso di sì, è
perché me l'ha passata lui. Perché io sono stato così imbecille da avvicinarmi
troppo a lui quando non si sentiva bene. Ottimo. Così imparo a non ascoltare mia
madre quando mi impartisce le sue lezioni di medicina spicciola.
Ma la moto
non parte. Ci provo, ci provo davvero, a dare gas, ma non c'è verso. Sembra che
si sia ammutinata. Il motore emette solo una specie di gracidante cigolio
tormentato, come l'urlo di battaglia di un uomo che muore, poi più niente.
Cazzo. Che cosa, che cosa mi trattiene dal lasciarmi prendere dalla rabbia e
darle un calcio che le tiri via quelle migliaia di euro che ha
addosso?
«Qualche problema?» domanda una voce accanto a me. Mi volto e vedo
il ragazzo con i capelli rossi che ho urtato prima in bagno.
«Non parte la
moto.»
«Lo vedo.»
«Hai qualche idea per farla partire?»
«Non sono un
meccanico, ma il rumore che ha fatto prima mi fa pensare che sia arrivata la sua
ora.»
È la stessa identica impressione che ha dato a me. E quindi, rosso, hai
qualche soluzione da propormi o sei qui per prendermi in giro?
«Merda.»
borbotto sottovoce, ma lui mi ha sentito.
«Non hai un linguaggio fine.»
commenta.
«No, infatti. Dovrei?»
«Ah, non mi riguarda.»
No, anche
secondo me. Se chiamo ora i miei genitori per farmi venire a prendere, come
minimo mi becco due mesi di punizione. Perché me l'avevano detto, loro, di
portare la moto dal meccanico per farci dare un'occhiata...
«Dove abiti?»
chiede all'improvviso il rosso.
«In corso Padova.»
«Ah, sì. La strada
per andare in centro.»
«Già.»
«Be', è a dieci minuti da qui. Se vuoi ti
porto a casa.»
«Perché dovresti farlo? Non sai nemmeno chi sono.»
E quindi
il rosso ride. In realtà, il problema è che io non so chi è lui. Non che l'idea
di salire in macchina con uno sconosciuto mi spaventi più di tanto, ma nemmeno
mi sembra una cosa intelligente da fare.
«Mi chiamo Sebastiano.» si presenta.
«Io Pietro. Ma non è molto più di prima, no?»
«Sai che ti dico?» fa
allora lui con un sorriso. «Sei un rompiballe. Lo vuoi questo passaggio sì o
no?»
«Sì.»
Ed ecco qui il sesto capitolo! Spero vivamente
che vi sia piaciuto.
Spero di avere un vostro parere, sarebbe molto
gradito.
(Da oggi utilizzerò lo spazio apposito per rispondere ai vostri eventuali commenti, perciò non li troverete più in fondo alla pagina, ma tra le risposte nello spazio recensioni).
Baci,
rolly too