Il problema della comprensione è che vive di superficie.
Quando guardiamo gli altri, non a caso, non ne cogliamo che lo strato più
superficiale. Sotto questo profilo posso dire d’essere sempre stato fortunato,
perché, come Kyo mi aveva non a caso pronosticato, avevo il viso e l’aspetto
giusto per piacere a chi avrei dovuto.
In quei mesi convulsi e dai contorni sfumati accadde qualcosa
che dissolse il mio interesse per la realtà e mi isolò da quel che avrei invece
dovuto tener ben presente, fosse pure per un principio di lealtà e di amicizia:
incontrai Yoshiki. È facile sognare, ma pure pericoloso com’è altrettanto
difficile credere. Per anni avevo tentato solo di focalizzare l’istante in cui
mi avrebbe stretto la mano e passato il testimone – erano fantasie del genere,
insomma. Puerili, diciamolo pure, ma anche oneste – che quando accadde quasi non
me ne resi conto. Peggio, la sua presenza azzerava del tutto le mie risorse,
tant’è che al primo incontro potrebbe avermi scambiato per una pianta d’angolo.
Era diverso rispetto a come lo ricordavo – per me c’erano sempre e solo i suoi
capelli d’oro e tutta Tokyo ad acclamarlo nel concerto di addio – eppure fedele
a se stesso. Era l’illusione che abbandonava i confini limitanti di un poster
della mia stanza per parlarmi.
Visto che di mio non sono per niente loquace e la circostanza
non avrebbe fatto miracoli, in ogni caso, mentirei se dicessi che ci sia stata
chissà quale formidabile conversazione. In verità parlò soprattutto Kaoru,
com’era inevitabile, visto ch’era il leader. E Die, visto che aveva la faccia
come il culo, ma era pur vero ci sapesse fare.
Kyo era annoiato come in tutte le occasioni che contano.
Toshiya intimidito e il sottoscritto estatico e incredulo, ma fisso sulla mia
abituale espressione d’indifferenza. Quando l’incontro ufficiale si concluse,
non a caso, Kaoru ci diede una lavata di capo indimenticabile, ma condivisibile.
“Non vi entusiasmate troppo, mi raccomando, eh! L’avete
capito o no chi è quello? Quello ha suonato con hide!”
Francamente quel dettaglio non mi eccitava tanto quanto
pareva coinvolgere il leader, ma quando Niikura s’incamminava per la via dello
scazzo, era meglio lasciarlo procedere da solo. Non sarebbe stato una compagnia
piacevole.
Quando arrivò Yoshiki, per il gruppo fu quasi come aprire le
ali e spiccare un volo epocale. Tutto era come prima, ma meglio di prima:
avevamo un manager che incuteva rispetto e credenziali diverse da un pugno di
buoni propositi. Ora c’erano set fotografici e interviste e anche se allo Shock
Wave del millenovecentonovantotto avevo chiesto ancora a mia madre di aiutarmi
con il trucco per essere davvero degno della mia parte, alla fine sapevo alla
perfezione cosa fare e come muovermi. Mi sembrava quasi assurdo aver provato un
tempo disagio per riti che erano ormai una variabile prevedibile e una routine
rassicurante – forse anche perché Kyo aveva deciso di fermarsi al biondo e per
un po’ non dovetti più preoccuparmi del colore che avrei dovuto usare per
identificarlo fosse mai me lo perdessi durante una trasferta.
Sembrava incredibile esibirsi con i Malice Mizer ed essere
indicati tra quelle che Die aveva ribattezzato le V.I.B. (salvo dovermi
sciogliere l’acronimo, perché la mia conoscenza dell’inglese non era
migliorata): very important bitch(es). Sarebbe a dire, per citare il
nostro profeta, le troie del palco. I gruppi visual-kei, per farla breve.
Eravamo qualcosa di più di semplici promesse, i Dir en grey potevano permettersi
di produrre quel che volevano con l’assenso di Yoshiki.
Era quasi ricevere i comandamenti direttamente da Dio, almeno
nel mio personalissimo modo di leggere volti e situazioni.
Come ho detto, però, era un’onda leggera che distraeva in
modo pericoloso e ti portava a guardare tanto avanti che del presente quasi non
riuscivi ad accorgerti. Ad esempio avevo smesso di interrogarmi sui rapporti
interni al gruppo. Non mi chiedevo, cioè, chi fosse l’amico di chi, né come
diventare a mia volta intimo di qualcuno. Avevo la patente e potevo fare a meno
della metropolitana. A casa, con i miei genitori, mi aspettava Puppy e bastava
senz’altro – almeno finché non cominciai ad allontanarmi troppo spesso, e allora
venne Miyu. Quando si trattava di suonare l’intesa era perfetta e, in fin dei
conti, quello che volevo mostrare a me stesso e a Yoshiki era che fossi un
professionista.
E lo ero.
Non ho mai capito perché nelle interviste si finisca con il
parlare di tutto fuorché della musica che suoni, ami o componi. Non mi pare che
nessuno mi abbia mai chiesto di descrivergli la differenza tra una Pearl e una
Ludwig, ad esempio. In compenso morivano dalla voglia di sapere di che colore
fossero i miei slip. Kaoru ogni tanto mi ricordava che tra l’essere riservato e
l’essere stronzo c’era una linea non molto sottile, che passava per
l’asocialità, e stessi attento a non innamorarmene troppo, perché eravamo
comunque una band da promuovere e contava anche come riuscivamo a venderci.
Poi Kyo aveva detto che faceva colazione con gli scorpioni e
Kaoru si arrese.
In fondo eravamo una visual-kei e su certe cose era ancora
possibile ridere. A parte la tendenza a dare del gruppo un’immagine opinabile,
come inevitabile se il cantante si sforzava – con un qualche successo, per altro
– di passare per un malato di mente, mentre il batterista sembrava muto, la band
funzionava benissimo. Il seguito sempre più ampio ripagava la critica che
avrebbe preferito snobbare esempi di degenerazione musicale pura e semplice
quali eravamo ai loro occhi, anche se quelle di Kyo erano poesie contornate dal
talento di noi quattro. Tutto andava a meraviglia, insomma, almeno in
superficie.
Il problema è che le cicatrici vere, quelle che non se ne
vanno più, anzi divengono ancora più spesse, gravi e pericolose, sono sotto la
pelle. Sempre e solo sotto la pelle.
Ogni settimana la nostra fanmail ci depositava in grembo una
quantità di lettere ch’era quasi difficile smaltire. Kyo, malgrado i suoi sforzi
per apparire mostruoso e poco frequentabile, riceveva fiumi di zucchero in cui
gli si dava del carino in mille modi possibili. Credo che abbia corso il rischio
di diventare schizofrenico, perché davvero non sapeva se essere contento di
avere tante fan, oppure incazzarsi sui motivi – che erano poi quelli sbagliati.
Kaoru reclutava la frangia più estrema delle fangirl: quelle
senza peli sulla lingua e con una fantasia molto spiccata quando si trattava di
coinvolgerlo in ipotesi di contorsionismo sessuale. Quando si imbatteva in
qualcosa di particolarmente osceno, chiamava o me, o Kyo o Toshiya e ci chiedeva
di fargli da cavie per vedere se usciva un fanservice guardabile o se ci
sarebbero stati morti e feriti.
Totchi si era guadagnato un nomignolo kawaii già alla seconda
uscita ed era sommerso di carta. Era anche l’unico che, se leggeva qualcosa in
grado di colpirlo particolarmente, si concedeva gli occhi lucidi e rispondeva
persino; meritava, insomma, tutta la popolarità che la sua gentilezza gli
portava. Per quanto mi sembrasse assurdo, anche il sottoscritto aveva la propria
dose di fama e anche in tal senso credo che c’entrasse l’abilità profetica di
Kyo. Non posso negare che mi facesse piacere, ma era soprattutto una forma di
rassicurazione personale; la prova, diciamo, che sapevo farmi notare benché in
fondo al palco. In fin dei conti il batterista è sempre quello che si espone
meno, però non avevo idolatrato Yoshiki perché fossi una ragazzina invaghita dei
suoi boccoli, ma perché era un musicista meraviglioso. Così, insomma, speravo
fosse per me.
Chi riceveva poco o nulla era Die. Non sembrava molto
popolare tra le nostre fans, anche se era quello che più animava la scena, ed
era bravo, davvero, un musicista come pochi: però non piaceva, non abbastanza.
Non come noi quattro.
Se fossi stato più attento, forse mi sarei accorto della
strana ombra che gli scivolava nello sguardo quando si smistava la posta, o
delle mille scuse con cui tentava di non esserci, quando invece Kaoru e Toshiya
si tuffavano nel mezzo per cercare la trovata più strana, più divertente o più
sporca.
L’ho detto, a volte è come se non vedessi nulla, non più in
là del mio naso, almeno; perché sono egoista, senz’altro, e non sono abbastanza
sensibile.
Con noi, per altro, Die era sempre lo stesso: lavorava sodo,
rideva molto, parlava come al solito a ruota libera, come un idiota. Più o meno
era il complimento più gentile che gli facessi, oltre a intimargli di starmi a
qualche chilometro, perché non sopportavo di averlo sempre tra i piedi. Die era
un pagliaccio perfetto, ma a me i clown non sono mai piaciuti. È come se sotto
la biacca nascondessero un cuore triste; forse è una delle poche immagini
realistiche sia stato in grado di elaborare, ma io ero solo il batterista, non
il profeta e neppure il portavoce. Mi accontentavo di suonare e non mi accorgevo
di nient’altro – per fortuna, però, c’era chi aveva occhi migliori dei miei.
Nei primi mesi di attività dei Dir en grey, Kaoru si era
occupato soprattutto di Toshiya, perché era l’unico che non avesse già militato
con noi, il che poteva importare qualche mese di assestamento. Come ho già
detto, però, Hara non aveva solo una buona tecnica, ma era soprattutto aperto,
spontaneo e pronto a mettersi in gioco, così trasparente che anche a me, alla
fine, venne spontaneo pensare ci fosse sempre stato. Die e Kaoru erano amici, ma
ora che i rapporti lavorativi si erano stabilizzati, i legami affettivi
diventavano più tenui. Eravamo al contempo più vicini e più lontani, perché
avevamo meno tempo per giocare, mentre costruivamo il tappeto di stelle su cui
avremmo sfilato da vincitori.
Che stesse accadendo qualcosa di grave me ne accorsi verso la
fine del millenovecentonovantanove, poco prima del concerto all’Osaka Jo Hall.
Me ne accorsi da una frase che Kaoru ripeteva sempre più spesso, all’inizio con
un tono divertito, poi talmente serio da farti perdere la voglia di scherzarci
su.
“Die, se crepi, giuro che ti ammazzo io.”
Era degno di Niikura, ma in una duplice accezione: era
senz’altro vero che Kaoru potesse essere imperativo fino a scivolare in ossimori
improbabili come quello, ma era anche vero che fosse soprattutto un tipo che
aveva l’occhio lungo e sapeva guardare sulle distanze.
Die aveva cominciato a dimagrire dai primi mesi dell’anno, ma
era inverno e sul momento non era stato neppure facile rendersene conto.
All’epoca portava un lungo trench nero in stile nazista che gli nascondeva buona
parte del corpo – e poi, con la sua statura e quella selva di capelli, la sua
presenza scenica restava imponente.
Era quella alla base dell’equivoco.
Una volta Kaoru ci aveva letto una delle sue lettere,
pescandola tra quelle che aveva qualificato come abbastanza ridicole da dargli
qualche idea. Era una prassi tanto abituale che quasi speravamo ogni volta che
ci fosse almeno un’invasata come quella che gli aveva mandato il proprio
reggicalze – e Kaoru l’aveva indossato nel concerto successivo. Dopo il solito
delirio gotico, però, la nostra chiudeva con un inciso apparentemente innocuo,
o, quantomeno, intonato all’inutilità di quella pagina. Teneva a far sapere a
Kaoru che Toshiya era molto più carino e delicato da baciare, e che se dunque
doveva proprio innamorarsi, che pensasse a Hara anziché a Die ch’era tanto
grasso da poterlo schiacciare.
Ridemmo come deficienti per mezz’ora, perché Andou per primo
aveva finto d’esserne piccato e aveva coinvolto il nostro leader e Toshimasa in
una specie di parodia del triangolo suggerito. A nessuno di noi venne in mente
che fosse un modo per inghiottire e negare che la frecciata aveva colto nel
segno.
In tal senso potrei rovesciare la tesi con cui sino ad allora
avevo tentato di giustificarmi sempre e comunque: non toccava a me, dunque non
riuscivo a capirlo.
Daisuke non era grasso per niente – al più si poteva dire
grosso. Anch’io gli davo dell’elefante, ma ce l’avevo con la sua irruenza;
lo dicevo anche a Kaoru, che era stagno, ma non certo corpulento. Non so quale
fu il cortocircuito che entrò in conto: di sicuro si sentì solo, in qualche
modo, perché Kaoru aveva il gruppo a cui pensare e il sottoscritto non aveva la
minima sensibilità per rendergli in qualche modo le gentilezze del passato. In
quel periodo, anzi, forse proprio per confondere meglio le acque, Die divenne
più rumoroso e indisponente che mai. Gravitava sempre dalle mie parti, ottenendo
come unico effetto che mi irrigidissi alla sua sola presenza. Non c’era nulla di
accogliente in me, né di amichevole, eppure forse avrei dovuto capire che
mendicava un po’ di comprensione e niente di più.
Non era una pretesa assurda, in fin dei conti.
Tuttavia cominciammo a realizzare che Die avesse qualcosa di
strano un po’ prima che la primavera arrivasse, costringendoci ad alleggerirci.
Bastava guardarlo in viso. Anche se non aveva una faccia piena, Die non aveva un
ovale patito: ora era tutto zigomi e i suoi occhi avevano qualcosa di febbrile
ed estenuato al tempo stesso.
Fu da quel momento che Kaoru mangiò la foglia e cominciò con
la sua litania, non senza avergli rimproverato il disturbo che gli aveva
arrecato costringendolo a rifare tutti i bozzetti per i costumi. Per la prima
volta, cioè, anche Die cominciò a salire sul palco con gli shorts o con tenute
fetish talmente strette che pareva quasi gliele avessero cucite addosso. Aveva
l’aspetto di una mantide religiosa o di un insetto in cui l’eleganza fosse
comunque qualcosa di maligno e ingannevole – soprattutto era un ragazzo emaciato
ben oltre il livello di guardia.
“Die, se crepi, giuro che ti ammazzo io”: dunque la
litania di Kaoru, persino il giorno del grande concerto dell’Osaka Jo Hall.
La giornata era iniziata in modo convulso. Soggiornavamo
tutti in un albergo non troppo distante dal luogo in cui ci saremmo esibiti, ma
quella notte non era stato il solo Kaoru a non prendere sonno. Eravamo
emozionati e carichi dell’adrenalina ch’è la naturale contropartita del
successo, sicché avevamo tirato tardi nella hall, quasi fossimo dei liceali in
gita. L’umore era altissimo e la voglia di farci sentire più assordante che mai.
Era una sfida meravigliosa, che bastava ad azzerare qualunque altra sensazione,
persino annichilire il naturale buonsenso e la percezione di una stonatura
sospesa nell’aria.
Eravamo impegnati a truccarci nel backstage, quando realizzai
come Die non avesse pronunciato da ore una sola sillaba. Era seduto davanti allo
specchio e fumava. Fumava e fumava. Solo quello.
Toshiya, per contro, dopo aver saputo che suo padre era
venuto da Nagano apposta per vederlo cominciò a piagnucolare di felicità,
lasciandoci immaginare che al primo break sarebbero arrivati i singhiozzi e in
chiusura le fangirl sarebbero impazzite.
Kaoru, che nel mentre cercava di capire se non ci fosse pure
la sorella di Totchi (e, soprattutto, all’occorrenza capire se gli somigliasse o
meno), lasciava ci pensasse Kyo, che con Hara sapeva sempre come comportarsi.
Quanto a me, ero soprattutto impegnato a capire come venire a patti con il
costume di scena per perdermi in pensieri oziosi. Tutto andò alla perfezione
sino alla prima metà dell’esibizione, poi vidi che Die smetteva di saltare da
tutte le parti e, per converso, dopo un’occhiata reciproca, Kaoru e Toshiya si
erano spostati in prima linea. C’era qualcosa di sbilanciato e imperfetto, che
non si lasciava cogliere con nitore solo perché Kyo era un performer eccezionale
e gli altri riuscivano a stargli dietro. Quando venne il momento di cambiarsi,
però, Die si stravaccò sul divanetto del camerino e non sembrava che avesse la
forza di tirarsi su di nuovo.
Kaoru gli si sedette accanto, gli prese il polso e decretò
senza scomporsi: “Sei morto e non te l’ha detto nessuno?”
“Mi gira la testa, Kao.”
“E a me girano le palle. Vedi cosa puoi combinare.”
Niikura non era un criminale di guerra fiero di essere tale –
non del tutto, almeno – voleva solo scuoterlo un po’, perché comunque Die non
era un vigliacco e aveva un forte orgoglio. Come riprendemmo, nei fatti, la sua
esecuzione fu brillante come di consueto, almeno fino a Zan. Alla terza ripresa,
nei fatti, cadde in ginocchio, senza lasciare la chitarra, ma senza dare un
segnale concreto di ripresa. Fu allora che Kaoru mostrò una volta in più perché
fosse il leader: non tanto perché sapeva comandare, quanto improvvisare – non
restava mai senza risorse, insomma.
Prima si avvicinò a Die, imbastendo quello che per il
pubblico era un fanservice, ma che sulle sue labbra era un “Ce la fai a morire
alla fine del concerto, così ti ammazzo dopo con calma?”, poi si lanciò tra il
pubblico, facendo del pezzo una giostra in cui ognuno di noi potesse riprendere
fiato e forze. Si alternarono, Toshiya, Kyo e Kaoru, finché non vedemmo Die
rialzarsi; a quel punto la nostra esibizione era alle note finali, e il sollievo
e il calore del pubblico bastarono per tenerci a galla fino alla fine.
Sospirai sollevato solo quando potei lanciare le mie
bacchette, perché a quel punto era evidente che il peggio fosse passato. Nel
camerino, oltre a Kyo, c’era un signore di mezza età, un po’ a disagio, che
cercava di evitare che Toshiya morisse disidratato dalla felicità. Non so
perché, ma c’era qualcosa di consolante e tenero in quella vista, era una specie
di punto fermo negli affetti: la dimostrazione del fatto che fosse possibile
tornare sui propri passi, dimenticare e sanare i contrasti. Per questo, forse,
quando vidi Kaoru inginocchiato davanti al divanetto su cui si era allungato Die,
non feci finta di nulla come al solito, ma mi avvicinai a mia volta.
Niikura sembrava più preoccupato che non arrabbiato e non
pareva nella disposizione di spirito per ucciderlo (anche perché Kao non si
diverte a infierire sulle carogne). “È meglio se torni in albergo,” lo sentii
considerare. Die si era limitato ad annuire, senza una parola. Solo in quel
momento si accorse anche della mia presenza, per quanto pure non avessi fatto
nulla per renderla evidente.
“Lo accompagno io.”
Fu come se la mia lingua si fosse mossa da sola, oppure, una
volta tanto, il livello di guardia era sceso abbastanza da far avanzare quello
del buonsenso.
Daisuke sgranò quei suoi occhi già immensi nel viso scavato
offendendomi persino un po’, ma non avevo voglia di recriminare. Mentre gli
altri si preparavano a essere sbranati dal fanclub, insomma, noi due
sgattaiolammo da un’uscita secondaria, ben lontani da troppe luci artificiali e
da acuti isterici. Era la fine di dicembre e faceva un freddo insolito per
Osaka; raffiche di vento gelato ci arrivavano contro rendendo quasi faticoso
andare avanti.
Lo vidi volgersi nella mia direzione, con quella sua
fisionomia, ora incredibilmente sottile, alterata dal pesante piumino bordato di
pelliccia. “Ce la fai?” mi chiese con la consueta gentilezza, quasi fossi stato
io a crollare nel bel mezzo del concerto.
O era proprio stupido, o il suo senso dell’umorismo aveva
bisogno di una revisionatina come il resto.
“Non credo che tu sia la persona più adatta a fare domande
simili, cretino,” gli dissi, affiancandolo e osando persino qualcosa che era
molto improbabile appartenesse al repertorio di una gelida dama in nero –
lo presi sottobraccio. Die non disse niente, limitandosi a far scivolare la
testa contro la mia spalla e facendosi trascinare quasi con indolenza.
Una vecchietta di trecento anni almeno, che gironzolava
chissà per quale ragione nel luogo meno opportuno, ci salutò con un insulso
sorrisone sdentato.
“Che bella coppia! Che Dio vi benedica!”
Mi sarei sotterrato o scollato bruscamente, se non avessi
avuto l’impressione che Die non ce l’avrebbe fatta se non fossi rimasto lì in
quel momento, con lui, incastrato in una brutta recita, che però poteva avere
anche un suo significato.
Avremmo potuto essere una bella coppia?
La verità è che i sentimenti somigliano spesso a una
roulette, e solo il croupier sa dove finirà la sfera, oppure lo ignora anche
lui, ma finge perché il gioco continui.
Sul rosso e sul nero.
N.d.A. Forse i più attenti tra voi se ne saranno già
accorti, ma per tutti gli altri è tempo sveli un piccolo gioco retorico. Il
titolo di questa fanfiction, nonché i titoli di tutti i capitoli interni, sono
infatti i nomi di alcuni celebri romanzi, citati per assonanza con quanto poi
riportato in termini di contenuto (nella mia narrazione). Per la precisione:
Il rosso e il nero: questo immagino sia stato
riconosciuto da chiunque. Rosso e nero come opposizione cromatica tra Shinya e
Die, come “Il rosso e il nero” celebre romanzo di Stendhal.
Opera al nero: romanzo molto famoso di Marguerite
Yourcenar. Qui il richiamo è complesso e va spiegato, perché ho adottato un
doppio grado simbolico. Opera al nero come metafora della vita nascosta e
opera al nero nell’accezione alchemica. L’opera al nero è infatti il
primo passaggio della Grande Opera che conduce alla trasmutazione interiore
dell’Uomo. In questo capitolo, non a caso, si parla del percorso di crescita di
Shinya.
Memorie del sottosuolo: capolavoro di Fëdor Michailovic
Dostoevskij, citato per la particolare digressione sui bagni che occupa la parte
centrale del capitolo.
L’enigma del solitario: dopo “Il mondo di Sophia,” forse
il romanzo più celebre di Jostein Gaarder. Perché questo titolo? Perché anche se
il romanzo riferisce di un gioco di carte, solitario è anche il protagonista del
capitolo con le sue contraddizioni.
Il mio cuore ferito: titolo della biografia-romanzo di
una vittima dell’Olocausto, Lilli Jahn, citato in quanto descrive il particolare
stato d’animo dominante in queste pagine.
Chiedi perdono: grande epopea di Ann-Marie MacDonald,
citato con riguardo al tema del rapporto tra Toshiya e il proprio padre.
Sotto la pelle: opera minore di Faber, citata in aggancio
a uno degli aforismi introdotti nella sezione iniziale del capitolo.