Fanfic su artisti musicali > Dir en grey
Segui la storia  |       
Autore: Callie_Stephanides    05/12/2010    0 recensioni
Una storia di amicizia, una storia di crescita, una storia di incomprensioni, una storia di speranza.
Sullo sfondo, il ferroso mare di Osaka.
[...] Avremmo potuto essere una bella coppia?
La verità è che i sentimenti somigliano spesso a una roulette, e solo il croupier sa dove finirà la sfera, oppure lo ignora anche lui, ma finge perché il gioco continui.
Sul rosso e sul nero [...]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Die, Shinya, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Il problema della comprensione è che vive di superficie. Quando guardiamo gli altri, non a caso, non ne cogliamo che lo strato più superficiale. Sotto questo profilo posso dire d’essere sempre stato fortunato, perché, come Kyo mi aveva non a caso pronosticato, avevo il viso e l’aspetto giusto per piacere a chi avrei dovuto.
In quei mesi convulsi e dai contorni sfumati accadde qualcosa che dissolse il mio interesse per la realtà e mi isolò da quel che avrei invece dovuto tener ben presente, fosse pure per un principio di lealtà e di amicizia: incontrai Yoshiki. È facile sognare, ma pure pericoloso com’è altrettanto difficile credere. Per anni avevo tentato solo di focalizzare l’istante in cui mi avrebbe stretto la mano e passato il testimone – erano fantasie del genere, insomma. Puerili, diciamolo pure, ma anche oneste – che quando accadde quasi non me ne resi conto. Peggio, la sua presenza azzerava del tutto le mie risorse, tant’è che al primo incontro potrebbe avermi scambiato per una pianta d’angolo. Era diverso rispetto a come lo ricordavo – per me c’erano sempre e solo i suoi capelli d’oro e tutta Tokyo ad acclamarlo nel concerto di addio – eppure fedele a se stesso. Era l’illusione che abbandonava i confini limitanti di un poster della mia stanza per parlarmi.
Visto che di mio non sono per niente loquace e la circostanza non avrebbe fatto miracoli, in ogni caso, mentirei se dicessi che ci sia stata chissà quale formidabile conversazione. In verità parlò soprattutto Kaoru, com’era inevitabile, visto ch’era il leader. E Die, visto che aveva la faccia come il culo, ma era pur vero ci sapesse fare.
Kyo era annoiato come in tutte le occasioni che contano. Toshiya intimidito e il sottoscritto estatico e incredulo, ma fisso sulla mia abituale espressione d’indifferenza. Quando l’incontro ufficiale si concluse, non a caso, Kaoru ci diede una lavata di capo indimenticabile, ma condivisibile.
“Non vi entusiasmate troppo, mi raccomando, eh! L’avete capito o no chi è quello? Quello ha suonato con hide!”
Francamente quel dettaglio non mi eccitava tanto quanto pareva coinvolgere il leader, ma quando Niikura s’incamminava per la via dello scazzo, era meglio lasciarlo procedere da solo. Non sarebbe stato una compagnia piacevole.
Quando arrivò Yoshiki, per il gruppo fu quasi come aprire le ali e spiccare un volo epocale. Tutto era come prima, ma meglio di prima: avevamo un manager che incuteva rispetto e credenziali diverse da un pugno di buoni propositi. Ora c’erano set fotografici e interviste e anche se allo Shock Wave del millenovecentonovantotto avevo chiesto ancora a mia madre di aiutarmi con il trucco per essere davvero degno della mia parte, alla fine sapevo alla perfezione cosa fare e come muovermi. Mi sembrava quasi assurdo aver provato un tempo disagio per riti che erano ormai una variabile prevedibile e una routine rassicurante – forse anche perché Kyo aveva deciso di fermarsi al biondo e per un po’ non dovetti più preoccuparmi del colore che avrei dovuto usare per identificarlo fosse mai me lo perdessi durante una trasferta.
Sembrava incredibile esibirsi con i Malice Mizer ed essere indicati tra quelle che Die aveva ribattezzato le V.I.B. (salvo dovermi sciogliere l’acronimo, perché la mia conoscenza dell’inglese non era migliorata): very important bitch(es). Sarebbe a dire, per citare il nostro profeta, le troie del palco. I gruppi visual-kei, per farla breve. Eravamo qualcosa di più di semplici promesse, i Dir en grey potevano permettersi di produrre quel che volevano con l’assenso di Yoshiki.
Era quasi ricevere i comandamenti direttamente da Dio, almeno nel mio personalissimo modo di leggere volti e situazioni.
Come ho detto, però, era un’onda leggera che distraeva in modo pericoloso e ti portava a guardare tanto avanti che del presente quasi non riuscivi ad accorgerti. Ad esempio avevo smesso di interrogarmi sui rapporti interni al gruppo. Non mi chiedevo, cioè, chi fosse l’amico di chi, né come diventare a mia volta intimo di qualcuno. Avevo la patente e potevo fare a meno della metropolitana. A casa, con i miei genitori, mi aspettava Puppy e bastava senz’altro – almeno finché non cominciai ad allontanarmi troppo spesso, e allora venne Miyu. Quando si trattava di suonare l’intesa era perfetta e, in fin dei conti, quello che volevo mostrare a me stesso e a Yoshiki era che fossi un professionista.
E lo ero.
Non ho mai capito perché nelle interviste si finisca con il parlare di tutto fuorché della musica che suoni, ami o componi. Non mi pare che nessuno mi abbia mai chiesto di descrivergli la differenza tra una Pearl e una Ludwig, ad esempio. In compenso morivano dalla voglia di sapere di che colore fossero i miei slip. Kaoru ogni tanto mi ricordava che tra l’essere riservato e l’essere stronzo c’era una linea non molto sottile, che passava per l’asocialità, e stessi attento a non innamorarmene troppo, perché eravamo comunque una band da promuovere e contava anche come riuscivamo a venderci.
Poi Kyo aveva detto che faceva colazione con gli scorpioni e Kaoru si arrese.
In fondo eravamo una visual-kei e su certe cose era ancora possibile ridere. A parte la tendenza a dare del gruppo un’immagine opinabile, come inevitabile se il cantante si sforzava – con un qualche successo, per altro – di passare per un malato di mente, mentre il batterista sembrava muto, la band funzionava benissimo. Il seguito sempre più ampio ripagava la critica che avrebbe preferito snobbare esempi di degenerazione musicale pura e semplice quali eravamo ai loro occhi, anche se quelle di Kyo erano poesie contornate dal talento di noi quattro. Tutto andava a meraviglia, insomma, almeno in superficie.
Il problema è che le cicatrici vere, quelle che non se ne vanno più, anzi divengono ancora più spesse, gravi e pericolose, sono sotto la pelle. Sempre e solo sotto la pelle.
Ogni settimana la nostra fanmail ci depositava in grembo una quantità di lettere ch’era quasi difficile smaltire. Kyo, malgrado i suoi sforzi per apparire mostruoso e poco frequentabile, riceveva fiumi di zucchero in cui gli si dava del carino in mille modi possibili. Credo che abbia corso il rischio di diventare schizofrenico, perché davvero non sapeva se essere contento di avere tante fan, oppure incazzarsi sui motivi – che erano poi quelli sbagliati.
Kaoru reclutava la frangia più estrema delle fangirl: quelle senza peli sulla lingua e con una fantasia molto spiccata quando si trattava di coinvolgerlo in ipotesi di contorsionismo sessuale. Quando si imbatteva in qualcosa di particolarmente osceno, chiamava o me, o Kyo o Toshiya e ci chiedeva di fargli da cavie per vedere se usciva un fanservice guardabile o se ci sarebbero stati morti e feriti.
Totchi si era guadagnato un nomignolo kawaii già alla seconda uscita ed era sommerso di carta. Era anche l’unico che, se leggeva qualcosa in grado di colpirlo particolarmente, si concedeva gli occhi lucidi e rispondeva persino; meritava, insomma, tutta la popolarità che la sua gentilezza gli portava. Per quanto mi sembrasse assurdo, anche il sottoscritto aveva la propria dose di fama e anche in tal senso credo che c’entrasse l’abilità profetica di Kyo. Non posso negare che mi facesse piacere, ma era soprattutto una forma di rassicurazione personale; la prova, diciamo, che sapevo farmi notare benché in fondo al palco. In fin dei conti il batterista è sempre quello che si espone meno, però non avevo idolatrato Yoshiki perché fossi una ragazzina invaghita dei suoi boccoli, ma perché era un musicista meraviglioso. Così, insomma, speravo fosse per me.
Chi riceveva poco o nulla era Die. Non sembrava molto popolare tra le nostre fans, anche se era quello che più animava la scena, ed era bravo, davvero, un musicista come pochi: però non piaceva, non abbastanza. Non come noi quattro.
Se fossi stato più attento, forse mi sarei accorto della strana ombra che gli scivolava nello sguardo quando si smistava la posta, o delle mille scuse con cui tentava di non esserci, quando invece Kaoru e Toshiya si tuffavano nel mezzo per cercare la trovata più strana, più divertente o più sporca.
L’ho detto, a volte è come se non vedessi nulla, non più in là del mio naso, almeno; perché sono egoista, senz’altro, e non sono abbastanza sensibile.
Con noi, per altro, Die era sempre lo stesso: lavorava sodo, rideva molto, parlava come al solito a ruota libera, come un idiota. Più o meno era il complimento più gentile che gli facessi, oltre a intimargli di starmi a qualche chilometro, perché non sopportavo di averlo sempre tra i piedi. Die era un pagliaccio perfetto, ma a me i clown non sono mai piaciuti. È come se sotto la biacca nascondessero un cuore triste; forse è una delle poche immagini realistiche sia stato in grado di elaborare, ma io ero solo il batterista, non il profeta e neppure il portavoce. Mi accontentavo di suonare e non mi accorgevo di nient’altro – per fortuna, però, c’era chi aveva occhi migliori dei miei.
Nei primi mesi di attività dei Dir en grey, Kaoru si era occupato soprattutto di Toshiya, perché era l’unico che non avesse già militato con noi, il che poteva importare qualche mese di assestamento. Come ho già detto, però, Hara non aveva solo una buona tecnica, ma era soprattutto aperto, spontaneo e pronto a mettersi in gioco, così trasparente che anche a me, alla fine, venne spontaneo pensare ci fosse sempre stato. Die e Kaoru erano amici, ma ora che i rapporti lavorativi si erano stabilizzati, i legami affettivi diventavano più tenui. Eravamo al contempo più vicini e più lontani, perché avevamo meno tempo per giocare, mentre costruivamo il tappeto di stelle su cui avremmo sfilato da vincitori.
Che stesse accadendo qualcosa di grave me ne accorsi verso la fine del millenovecentonovantanove, poco prima del concerto all’Osaka Jo Hall. Me ne accorsi da una frase che Kaoru ripeteva sempre più spesso, all’inizio con un tono divertito, poi talmente serio da farti perdere la voglia di scherzarci su.
“Die, se crepi, giuro che ti ammazzo io.”
Era degno di Niikura, ma in una duplice accezione: era senz’altro vero che Kaoru potesse essere imperativo fino a scivolare in ossimori improbabili come quello, ma era anche vero che fosse soprattutto un tipo che aveva l’occhio lungo e sapeva guardare sulle distanze.
Die aveva cominciato a dimagrire dai primi mesi dell’anno, ma era inverno e sul momento non era stato neppure facile rendersene conto. All’epoca portava un lungo trench nero in stile nazista che gli nascondeva buona parte del corpo – e poi, con la sua statura e quella selva di capelli, la sua presenza scenica restava imponente.
Era quella alla base dell’equivoco.
Una volta Kaoru ci aveva letto una delle sue lettere, pescandola tra quelle che aveva qualificato come abbastanza ridicole da dargli qualche idea. Era una prassi tanto abituale che quasi speravamo ogni volta che ci fosse almeno un’invasata come quella che gli aveva mandato il proprio reggicalze – e Kaoru l’aveva indossato nel concerto successivo. Dopo il solito delirio gotico, però, la nostra chiudeva con un inciso apparentemente innocuo, o, quantomeno, intonato all’inutilità di quella pagina. Teneva a far sapere a Kaoru che Toshiya era molto più carino e delicato da baciare, e che se dunque doveva proprio innamorarsi, che pensasse a Hara anziché a Die ch’era tanto grasso da poterlo schiacciare.
Ridemmo come deficienti per mezz’ora, perché Andou per primo aveva finto d’esserne piccato e aveva coinvolto il nostro leader e Toshimasa in una specie di parodia del triangolo suggerito. A nessuno di noi venne in mente che fosse un modo per inghiottire e negare che la frecciata aveva colto nel segno.
In tal senso potrei rovesciare la tesi con cui sino ad allora avevo tentato di giustificarmi sempre e comunque: non toccava a me, dunque non riuscivo a capirlo.
Daisuke non era grasso per niente – al più si poteva dire grosso. Anch’io gli davo dell’elefante, ma ce l’avevo con la sua irruenza; lo dicevo anche a Kaoru, che era stagno, ma non certo corpulento. Non so quale fu il cortocircuito che entrò in conto: di sicuro si sentì solo, in qualche modo, perché Kaoru aveva il gruppo a cui pensare e il sottoscritto non aveva la minima sensibilità per rendergli in qualche modo le gentilezze del passato. In quel periodo, anzi, forse proprio per confondere meglio le acque, Die divenne più rumoroso e indisponente che mai. Gravitava sempre dalle mie parti, ottenendo come unico effetto che mi irrigidissi alla sua sola presenza. Non c’era nulla di accogliente in me, né di amichevole, eppure forse avrei dovuto capire che mendicava un po’ di comprensione e niente di più.
Non era una pretesa assurda, in fin dei conti.
Tuttavia cominciammo a realizzare che Die avesse qualcosa di strano un po’ prima che la primavera arrivasse, costringendoci ad alleggerirci. Bastava guardarlo in viso. Anche se non aveva una faccia piena, Die non aveva un ovale patito: ora era tutto zigomi e i suoi occhi avevano qualcosa di febbrile ed estenuato al tempo stesso.
Fu da quel momento che Kaoru mangiò la foglia e cominciò con la sua litania, non senza avergli rimproverato il disturbo che gli aveva arrecato costringendolo a rifare tutti i bozzetti per i costumi. Per la prima volta, cioè, anche Die cominciò a salire sul palco con gli shorts o con tenute fetish talmente strette che pareva quasi gliele avessero cucite addosso. Aveva l’aspetto di una mantide religiosa o di un insetto in cui l’eleganza fosse comunque qualcosa di maligno e ingannevole – soprattutto era un ragazzo emaciato ben oltre il livello di guardia.
Die, se crepi, giuro che ti ammazzo io”: dunque la litania di Kaoru, persino il giorno del grande concerto dell’Osaka Jo Hall.
La giornata era iniziata in modo convulso. Soggiornavamo tutti in un albergo non troppo distante dal luogo in cui ci saremmo esibiti, ma quella notte non era stato il solo Kaoru a non prendere sonno. Eravamo emozionati e carichi dell’adrenalina ch’è la naturale contropartita del successo, sicché avevamo tirato tardi nella hall, quasi fossimo dei liceali in gita. L’umore era altissimo e la voglia di farci sentire più assordante che mai. Era una sfida meravigliosa, che bastava ad azzerare qualunque altra sensazione, persino annichilire il naturale buonsenso e la percezione di una stonatura sospesa nell’aria.
Eravamo impegnati a truccarci nel backstage, quando realizzai come Die non avesse pronunciato da ore una sola sillaba. Era seduto davanti allo specchio e fumava. Fumava e fumava. Solo quello.
Toshiya, per contro, dopo aver saputo che suo padre era venuto da Nagano apposta per vederlo cominciò a piagnucolare di felicità, lasciandoci immaginare che al primo break sarebbero arrivati i singhiozzi e in chiusura le fangirl sarebbero impazzite.
Kaoru, che nel mentre cercava di capire se non ci fosse pure la sorella di Totchi (e, soprattutto, all’occorrenza capire se gli somigliasse o meno), lasciava ci pensasse Kyo, che con Hara sapeva sempre come comportarsi. Quanto a me, ero soprattutto impegnato a capire come venire a patti con il costume di scena per perdermi in pensieri oziosi. Tutto andò alla perfezione sino alla prima metà dell’esibizione, poi vidi che Die smetteva di saltare da tutte le parti e, per converso, dopo un’occhiata reciproca, Kaoru e Toshiya si erano spostati in prima linea. C’era qualcosa di sbilanciato e imperfetto, che non si lasciava cogliere con nitore solo perché Kyo era un performer eccezionale e gli altri riuscivano a stargli dietro. Quando venne il momento di cambiarsi, però, Die si stravaccò sul divanetto del camerino e non sembrava che avesse la forza di tirarsi su di nuovo.
Kaoru gli si sedette accanto, gli prese il polso e decretò senza scomporsi: “Sei morto e non te l’ha detto nessuno?”
“Mi gira la testa, Kao.”
“E a me girano le palle. Vedi cosa puoi combinare.”
Niikura non era un criminale di guerra fiero di essere tale – non del tutto, almeno – voleva solo scuoterlo un po’, perché comunque Die non era un vigliacco e aveva un forte orgoglio. Come riprendemmo, nei fatti, la sua esecuzione fu brillante come di consueto, almeno fino a Zan. Alla terza ripresa, nei fatti, cadde in ginocchio, senza lasciare la chitarra, ma senza dare un segnale concreto di ripresa. Fu allora che Kaoru mostrò una volta in più perché fosse il leader: non tanto perché sapeva comandare, quanto improvvisare – non restava mai senza risorse, insomma.
Prima si avvicinò a Die, imbastendo quello che per il pubblico era un fanservice, ma che sulle sue labbra era un “Ce la fai a morire alla fine del concerto, così ti ammazzo dopo con calma?”, poi si lanciò tra il pubblico, facendo del pezzo una giostra in cui ognuno di noi potesse riprendere fiato e forze. Si alternarono, Toshiya, Kyo e Kaoru, finché non vedemmo Die rialzarsi; a quel punto la nostra esibizione era alle note finali, e il sollievo e il calore del pubblico bastarono per tenerci a galla fino alla fine.
Sospirai sollevato solo quando potei lanciare le mie bacchette, perché a quel punto era evidente che il peggio fosse passato. Nel camerino, oltre a Kyo, c’era un signore di mezza età, un po’ a disagio, che cercava di evitare che Toshiya morisse disidratato dalla felicità. Non so perché, ma c’era qualcosa di consolante e tenero in quella vista, era una specie di punto fermo negli affetti: la dimostrazione del fatto che fosse possibile tornare sui propri passi, dimenticare e sanare i contrasti. Per questo, forse, quando vidi Kaoru inginocchiato davanti al divanetto su cui si era allungato Die, non feci finta di nulla come al solito, ma mi avvicinai a mia volta.
Niikura sembrava più preoccupato che non arrabbiato e non pareva nella disposizione di spirito per ucciderlo (anche perché Kao non si diverte a infierire sulle carogne). “È meglio se torni in albergo,” lo sentii considerare. Die si era limitato ad annuire, senza una parola. Solo in quel momento si accorse anche della mia presenza, per quanto pure non avessi fatto nulla per renderla evidente.
“Lo accompagno io.”
Fu come se la mia lingua si fosse mossa da sola, oppure, una volta tanto, il livello di guardia era sceso abbastanza da far avanzare quello del buonsenso.
Daisuke sgranò quei suoi occhi già immensi nel viso scavato offendendomi persino un po’, ma non avevo voglia di recriminare. Mentre gli altri si preparavano a essere sbranati dal fanclub, insomma, noi due sgattaiolammo da un’uscita secondaria, ben lontani da troppe luci artificiali e da acuti isterici. Era la fine di dicembre e faceva un freddo insolito per Osaka; raffiche di vento gelato ci arrivavano contro rendendo quasi faticoso andare avanti.
Lo vidi volgersi nella mia direzione, con quella sua fisionomia, ora incredibilmente sottile, alterata dal pesante piumino bordato di pelliccia. “Ce la fai?” mi chiese con la consueta gentilezza, quasi fossi stato io a crollare nel bel mezzo del concerto.
O era proprio stupido, o il suo senso dell’umorismo aveva bisogno di una revisionatina come il resto.
“Non credo che tu sia la persona più adatta a fare domande simili, cretino,” gli dissi, affiancandolo e osando persino qualcosa che era molto improbabile appartenesse al repertorio di una gelida dama in nero – lo presi sottobraccio. Die non disse niente, limitandosi a far scivolare la testa contro la mia spalla e facendosi trascinare quasi con indolenza.
Una vecchietta di trecento anni almeno, che gironzolava chissà per quale ragione nel luogo meno opportuno, ci salutò con un insulso sorrisone sdentato.
“Che bella coppia! Che Dio vi benedica!”
Mi sarei sotterrato o scollato bruscamente, se non avessi avuto l’impressione che Die non ce l’avrebbe fatta se non fossi rimasto lì in quel momento, con lui, incastrato in una brutta recita, che però poteva avere anche un suo significato.
Avremmo potuto essere una bella coppia?
La verità è che i sentimenti somigliano spesso a una roulette, e solo il croupier sa dove finirà la sfera, oppure lo ignora anche lui, ma finge perché il gioco continui.
Sul rosso e sul nero.

 
 
 
N.d.A. Forse i più attenti tra voi se ne saranno già accorti, ma per tutti gli altri è tempo sveli un piccolo gioco retorico. Il titolo di questa fanfiction, nonché i titoli di tutti i capitoli interni, sono infatti i nomi di alcuni celebri romanzi, citati per assonanza con quanto poi riportato in termini di contenuto (nella mia narrazione). Per la precisione:
Il rosso e il nero: questo immagino sia stato riconosciuto da chiunque. Rosso e nero come opposizione cromatica tra Shinya e Die, come “Il rosso e il nero” celebre romanzo di Stendhal.
Opera al nero: romanzo molto famoso di Marguerite Yourcenar. Qui il richiamo è complesso e va spiegato, perché ho adottato un doppio grado simbolico. Opera al nero come metafora della vita nascosta e opera al nero nell’accezione alchemica. L’opera al nero è infatti il primo passaggio della Grande Opera che conduce alla trasmutazione interiore dell’Uomo. In questo capitolo, non a caso, si parla del percorso di crescita di Shinya.
Memorie del sottosuolo: capolavoro di Fëdor Michailovic Dostoevskij, citato per la particolare digressione sui bagni che occupa la parte centrale del capitolo.
L’enigma del solitario: dopo “Il mondo di Sophia,” forse il romanzo più celebre di Jostein Gaarder. Perché questo titolo? Perché anche se il romanzo riferisce di un gioco di carte, solitario è anche il protagonista del capitolo con le sue contraddizioni.
Il mio cuore ferito: titolo della biografia-romanzo di una vittima dell’Olocausto, Lilli Jahn, citato in quanto descrive il particolare stato d’animo dominante in queste pagine.
Chiedi perdono: grande epopea di Ann-Marie MacDonald, citato con riguardo al tema del rapporto tra Toshiya e il proprio padre.
Sotto la pelle: opera minore di Faber, citata in aggancio a uno degli aforismi introdotti nella sezione iniziale del capitolo.

   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Dir en grey / Vai alla pagina dell'autore: Callie_Stephanides