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Autore: Elos    05/12/2010    3 recensioni
Gabriel non ricorda di essere stato umano, Gabriel non ha più nessuno. C'è stato un tempo in cui era bello, molto bello, bellissimo, ma adesso quel tempo è passato. Gabriel viaggia con un armadio al seguito e quattrocento anni di ricordi perduti sulle spalle.
In una casa antichissima piena di cose rotte e di cose preziose avrà inizio la più bizzarra delle convivenze.
Prima classificata e vincitrice del Premio Attinenza al concorso Once upon a Bloody December indetto da storyteller lover.
Genere: Dark, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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2. carillon



Edouard Le Chavalier l'aveva rubato ad una vita tranquilla e ad un amatissimo fratello per dargli qualcosa che era altro, che era oltre.
Questo altro, questo oltre, aveva deciso Gabriel, era meraviglioso.
Era come volare senza avere bisogno delle ali. Era correre, essere libero. Sentire tutte le cose tre volte, sei volte, dieci volte di più. Era non avere più obblighi, più restrizioni. Il senso di colpa si dissolveva come nebbia e non aveva valore, non più, non in questo corpo.
- Mi piacevano i tuoi occhi. - Gli aveva detto Edouard. - Avevano l'aria di dire di no a tutto. Uno come te potrebbe bruciare per un attimo glorioso, potrebbe farsi ammazzare, ma sarebbe un peccato. -
Gli accarezzava il viso con il dorso di una mano, parlando, con gentilezza.
- Una cosa così bella andrebbe conservata con infinita cura. -


Nella casa di Candledoore Square, Gabriel e Morrigan trovarono sette specchi: uno in ciascuno dei due bagni, uno nel corridoio dell'ingresso, uno nel corridoio del piano superiore, due nella grande camera da letto padronale nella quale Gabriel aveva riposto l'armadio e uno nella stanza di Morrigan.
Lasciò intatto quello nella camera di Morrigan, un grande, alto specchio dalla cornice d'argento vecchio e dalla superficie ossidata, ma spezzò tutti gli altri.
Gabriel non amava gli specchi. Davanti a ogni specchio c'era Etienne ad aspettarlo, con quattrocento anni e nulla di più a separarlo da lui: ma, a guardar bene, Gabriel vedeva le cicatrici, le cicatrici, e il riflesso si deformava, si spezzava. Il viso di Gabriel non era più quello di Etienne.
Il viso allo specchio aveva occhi scuri, lineamenti regolari. Il viso allo specchio era bello e armonioso, e un tempo Monsieur Le Chevalier l'aveva apprezzato grandemente. Il viso allo specchio era giovane in eterno, e pallido in eterno, ed eterne sarebbero state così anche le cicatrici sulla guancia e sulla fronte, sulle labbra e sul naso, lunghe e affilate e argentate come segni d'artigli: quelle non c'erano state, prima. Etienne non le aveva mai avute.
L'unico specchio sopravvissuto alla distruzione, dunque, era stato quello di Morrigan. Gabriel l'aveva risparmiato per permetterle di prepararsi, di vestirsi, di raccogliersi i capelli. Le cose belle gli piacevano, e Morrigan poteva essere bella. Era bella quando ballava. Era bella quando roteava attraverso le stanze della casa, piene di cose vecchie, cose rotte e marcite, e la luce che si rifletteva sulla sua pelle chiarissima diventava polverosa e come d'oro.
Due giorni dopo il loro arrivo Gabriel la mise seduta sul bordo della vasca e le tinse i capelli come aveva detto che avrebbe fatto: ciocche viola e ciocche blu, seguire le istruzioni sulla scatola era stato più facile del previsto, e alla fine c'erano strisce variopinte in quel nero senza sfumature. La prese tra le braccia, dopo averle tolto l'asciugamano dalla testa, e la portò in stanza per sistemarla davanti allo specchio. Morrigan guardò il proprio riflesso per un lungo istante. Si passò le dita tra i capelli, socchiuse le labbra e parve incantata; le sue mani cercarono lo specchio, i suoi occhi cercarono Gabriel. Gabriel le sorrise.
- Ci sono poche regole... - le disse una notte, mentre se ne stavano seduti sulle scale senza far niente di particolare: - ... e, se le seguirai, starai bene con me. Devi fare tutto quel che ti dico, quando te lo dico, ogni volta che te lo dico. Non devi provare a scappare. Se scappi, ti trovo e ti ammazzo. Puoi uscire dalla tua camera ma, se chiudo la porta a chiave, vuol dire che devi rimanerci, che non devi provare ad andartene. Annuisci se hai capito. -
Morrigan annuì. Giocherellava con un gomitolo di polvere, e aveva gli occhi persi in un qualche universo infinitamente distante da lì, da lui, infinitamente nebbioso.
- E devi stare lontana dal mio armadio. - aggiunse Gabriel. Questo era importante. Le afferrò il mento per costringerla a guardarlo, così, mentre lo ripeteva con voce più bassa, più dura, rauca e gelida e minacciosa: - Starai lontana dal mio armadio. Fa' cenno di sì. -
Morrigan fece cenno di sì.
Quasi sempre, Morrigan era una cosina docile e graziosa, e molto decorativa. A Gabriel piaceva guardarla, gli piaceva seguirla con lo sguardo mentre scendeva le scale e il sonaglio tintinnava senza sosta, incessantemente, gli piaceva lasciarla stare seduta sul divano sfasciato del pianterreno - un grande divano che un tempo doveva aver avuto un rivestimento sontuoso di damasco a fiorami, ma con il tempo la stoffa era diventata grigia, logora, le molle erano emerse dall'imbottitura affiorando come tronchi caduti in acqua - e mettersi proprio accanto a lei per spiare il modo in cui il respiro le riempiva i polmoni, il petto, e poi la gola, le guance, il naso. Morrigan non aveva paura, Morrigan non gli faceva domande. Morrigan non guardava le cicatrici. Morrigan era infinitamente paziente, infinitamente ubbidiente.
Morrigan sembrava molto poco lucida per gran parte del tempo; ma poi c'erano delle volte in cui lo fissava, e lo fissava in quel modo, e gli occhi grigi diventavano specchi spaccati, infranti, schegge lucidissime nelle quali Gabriel riusciva per un attimo a vedersi.
E quel che vedeva riflesso lo spaventava.

Nella cassa di vestiti che la gens del cimitero gli aveva consegnato, la cassa per Morrigan, c'erano abiti vaporosi di stoffe consunte, multicolori, rosse, dorate, color della polvere, stringhe viola e nastri blu, nastri neri, pizzi che il tempo aveva ingiallito e che gli sembravano più belli, così, più veri. Il mondo fuori dalla casa aveva televisioni e antenne, macchine a sfrecciare lungo la strada, neon azzurri accesi a illuminare le strade, ma nella casa di Candledoore Square l'orologio si era rotto e non scorreva più.
A Gabriel questo piaceva. Gabriel sapeva quanto era prezioso il tempo, quanto valore aveva il passato, com'era delicato, fragile, una cosa intrappolata dietro un vetro sottilissimo. Se il vetro si fosse rotto, se il tempo avesse ripreso a scorrere, il passato sarebbe fuggito via.
La grande giacca di Gabriel era stata di Monsieur Le Chevalier. Aveva ancora il suo sangue a intridere le pieghe del petto, attorno ad uno strappo che Gabriel conosceva benissimo - l'aveva aperto lui, dopotutto. La giacca era di velluto blu, lucido e sottile per i secoli in cui era stata maneggiata, indossata, lavata, piegata e riposta, e aveva grandi bottoni d'oro sul torace e sui polsini. Gabriel la indossava solo nelle grandi occasioni.
Possedeva molte camicie, poi, sicuro. Camicie e maglie e calzoni che gli permettevano di girare inosservato, durante la notte, in mezzo agli umani. Tutti guardavano le cicatrici, guardavano il suo bel viso che non era più quello di Etienne, no, ma sembrava umano anche per quelle, ma nessuno badava troppo a com'era vestito. La camicia preferita di Gabriel aveva più di un secolo e mezzo cucito nel suo tessuto logoratissimo, ormai rado e impalpabile come una ragnatela. L'aveva acquistata per lui una donna molto bella, dai gusti eccellenti e dal sangue dolcissimo. Gabriel l'aveva cullata gentilmente mentre la spingeva a sdraiarsi, ad addormentarsi, e le diceva che non avrebbe fatto male, no, no, no, e invece aveva fatto male, molto, e lei aveva urlato. Di quei tredici giorni trascorsi in sua compagnia gli era rimasta la camicia, però. Gli erano rimasti anche i suoi orecchini. Ne aveva appeso uno ad un lacciolo di cuoio, e adesso lo portava al collo.
Gabriel aveva addosso tanti laccioli, tanti ciondoli: ne prendeva uno nuovo per ogni posto nel quale viveva, per ogni persona interessante che incontrava, ed erano i suoi amuleti, i suoi fermatempo. Gli anni che aveva vissuto sarebbero rimasti con lui finché li avesse portati indosso, pensava Gabriel, non sarebbero mai andati via.
Morrigan sembrava essere affascinata da tutti quei ciondoli, così com'era affascinata da qualunque cosa splendesse, luccicasse o fosse colorata.
Un giorno ne afferrò uno - una larga moneta di bronzo antichissimo, resa opaca da tutte le dita che si erano posate su di essa nel corso dei secoli - e Gabriel le allontanò la mano, senza violenza ma con fermezza.
- Lasciala stare. - le disse. E poi, con un sorriso solo un po' divertito, e molto beffardo: - Ne prenderò uno anche per te, se ci tieni tanto. -
Ne avrebbe preso uno da lei, pensò, perché a lei non sarebbe servito. Ai morti non serve fermare il tempo.
Non voleva ucciderla, ancora, ma ancora non è sempre.

Le bende attorno ai polsi di Gabriel avevano il sentore secco delle cose molto antiche. Sfilacciate, devastate, le maglie del tessuto si erano slabbrate con il passare dei secoli.
Quando il giorno arrivava, portandogli il sonno profondissimo e immobile al quale non c'era modo di sfuggire, si rannicchiava sempre sdraiato su un fianco e con i polsi vicini alla faccia. L'odore secco di tempo perduto sembrava sparire, allora, e tornava invece quello di Etienne. Etienne, Etienne. Le bende conservavano ancora l'odore di Etienne.

Permetteva a Morrigan di uscire quasi tutte le notti: non fuori dalla porta di casa, in strada, ma nel cortile interno.
Il cortile era un rettangolo stretto ed allungato ingombro di verde incolto: l'erica era cresciuta ovunque, selvaggiamente, e apriva infiorescenze che di giorno sarebbero state violacee, ma dopo il tramonto erano blu e nere. C'erano ranuncoli che la luna faceva di un pallido azzurro, ed edera attorcigliata alle pareti rovinate. La pozza d'acqua al centro del cortile era coperta da una spessa, morbida pellicola vellutata di muschio e foglie morte; una volta doveva essere stata un'elegante vasca di pietra, una fontana, ma adesso l'acqua era scura, il fondo non si vedeva più. Nel mezzo facevano bella mostra di sé due ninfee sopravvissute ostinatamente allo sfacelo della casa.
Il cielo sopra il cortile era nulla più che un riquadro di buio e di stelle.
A Morrigan piacevano i fiori dell'erica. Stava inginocchiata in mezzo alle foglie e ai fusti contorti e se li faceva passare tra le dita con lente carezze.

Gabriel teneva Morrigan con sé fin quasi al mattino. In giardino o nella casa, la prendeva sulle ginocchia e la fiutava, l'annusava, le accarezzava i capelli per cercarvi l'odore dell'erica del cortile, quello della polvere, quello dei vestiti e del materasso nuovo. La lasciava girare nel cortile, nei corridoi, nelle camere. Le dava da mangiare e la guardava mentre si cacciava in bocca pane, latte, biscotti, la carne in scatola e le cipolle sottaceto.
C'era un negozio, all'angolo orientale di Candledoore Square, che la sera restava aperto fino a tardi. Gabriel andava a fare la spesa come facevano la spesa gli umani: aveva un cucciolo d'uomo, adesso, e doveva prendersene cura. Doveva nutrirlo, doveva dargli da mangiare cose che lo facessero stare bene. Morrigan lo divertiva, Morrigan era piacevole. Non la voleva morta, ancora.
Un giorno ritornò a casa con una busta di limoni. Guardò Morrigan aprirne uno, morderne la polpa liquida, luminosa, e poi sputare e tossire e respingere il frutto con una smorfia. Un'altra volta le prese un cilindro di plastica morbida piena di qualcosa chiamato yogurt. Gabriel non ricordava di averne mai mangiato, da vivo, ma a Morrigan sembrò piacere.
Le mele. Le labbra di Morrigan bagnate del succo dolce, gli occhi scintillanti perché quelle cose gialle e tonde e dure dovevano essere buone, di suo gradimento. Gelato, l'aveva visto nelle mani di una coppia di adolescenti appena fuori dal supermercato e aveva pensato che Morrigan l'avrebbe apprezzato. Osservare Morrigan mangiare la carne cruda di manzo, le dita sporche di rosso, il viso macchiato, e scoprire il giorno dopo che avrebbe dovuto cuocerla, prima.
Le dita sporche di rosso. Gabriel aveva dovuto usarsi violenza per resistere, per non bloccarla contro il tavolino e affondarle le zanne nella gola e bere, berla. Doveva essere dolce, Morrigan, anche per nutrirsi.

Di tanto in tanto Gabriel lasciava la casa e si allontanava per le strade della città.
Tornava prima dell'alba: apriva la stanza di Morrigan, la portava in cortile e restava con lei finché il sole non sorgeva. A volte aveva dei regali, come a volersi far perdonare l'assenza: ciondoli e collane e orecchini, borse, una giacca di seta, un paio di scarpe di velluto. Erano regali che avevano l'aspetto di qualcosa già messo, già usato, con l'odore di altre pelli, altri colli e capelli e mani, ma Morrigan sembrava felice lo stesso.
Gabriel faceva ritorno da queste sue gite sazio e quieto.

Vivevano una vita scandita da un sonaglio d'ottone, una vita come un carillon, fatta di abitudini che si ripetevano un giorno dopo l'altro, una notte dopo l'altra.
La loro vita cominciava poco prima del tramonto e finiva con l'alba.

Una sera Gabriel si sedette sul divano, le gambe allungate e una mano abbandonata sul bracciolo con una sorta di indolente, stracca eleganza, a osservare pigramente Morrigan: la ragazza se ne stava sdraiata per terra, prona, intenta a giocare con un grosso ragno. Aveva i capelli sciolti sulle spalle e sul collo, le striature viola e blu a spiccare come nastri sotto la luce della lampada da tavolo, il viso chiaro appena curioso, appena interessato. Sorrideva come sorrideva di solito, due punte di cortese disinteresse ed una di contentezza distratta.
Tutto ad un tratto si mise in ginocchio, tenendo il ragno stretto nel pugno sinistro, e gattonò verso Gabriel: si arrampicò sul divano per sederglisi accanto, il campanello d'ottone a tintinnare rumorosamente appeso alla sua caviglia, e allungò la mano verso di lui.
Il ragno le si arrampicava lentamente tra le dita, grosso come una moneta, di un marrone scurissimo. Gli occhi di Gabriel erano in grado di vedere tutto quel che era: la piega adunca delle zampe simili ad artigli, gli occhi spalancati come grumi minuscoli attaccati alla testa, il punto in cui il filo della ragnatela spariva nel corpo rigonfio.
- Ti piace? - le chiese.
Morrigan inclinò la testa da una parte e annuì.
- Non ti fa paura? - Morrigan sembrò stupita dalla domanda. Scosse la testa, l'espressione perplessa, e allungò ancora la mano - e il ragno - verso di lui, come un'offerta.
Gabriel le accarezzò la testa, distrattamente, osservando il piccolo mostro mentre le si incamminava sul palmo e cominciava ad inerpicarsi su per la manica del suo vestito.
- E io? - le chiese morbido. - Ti piaccio, io? -
Morrigan non ebbe bisogno di pensarci su: annuì senza neanche sollevare lo sguardo, con tanta sicurezza e tanta spontaneità che Gabriel non riuscì a trattenersi, e sorrise di nuovo. La strinse in vita e se la tirò addosso, ordinandole:
- Vieni qui. -
Ancora il tintinnare del sonaglio, mentre lei gli obbediva. Il ragno ne approfittò per tentare la fuga e Morrigan si sporse oltre il bracciolo del divano per provare a riacchiapparlo senza dover scendere dalle gambe di Gabriel. Lui la lasciò fare, divertito, strofinandole una ciocca tra le dita.
- Anche tu mi piaci. - le disse.
Anche lei gli piaceva. Era per questo che l'aveva presa, era per questo che non la uccideva, ancora.

Novembre passò in una bruma di notti tranquille.
Con la prima neve, arrivò dicembre.


Mi scuso per il ritardo nell'aggiornamento: avevo perso il conto delle settimane.
Immagine di Prisca Turazzi
  
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