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Autore: Ksanral    05/12/2010    11 recensioni
Lily Evans, quindici anni, Prefetto di Grifondoro, studentesa impeccabile, abilissima pozionista, sta per cominciare il suo quinto anno ad Hogwarts (Ricordate...? Quello del peggior ricordo di Piton).
Ma siamo sicuri che sia solo questo? Siamo sicuri che la storia sia andata esattamente come la pensiamo?
Volete sapere come mai Lily Evans rifiutava continuamente gli inviti di James Potter? Forse non è solo perché lui è così tanto pieno di sé...
Dal ventottesimo capitolo:
«Neanche morta, Potter! Neanche morta!»
«Ma non sai neanche cosa stavo per chiederti!»
«E da quanto aspetto di ascoltarti prima di dirti di no? Tanto, Potter, sia che tu mi stia per chiedere di uscire, sia che tu mi stia per chiedere qualsiasi altra cosa, la risposta sarà comunque “no”.»
Genere: Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: I Malandrini, Lily Evans, Severus Piton
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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= Naufragio =

La lettera di Petunia, se possibile, fu quella che più mi sconvolse. Sentivo di stare cadendo a pezzi, era come se potessi davvero udire il rumore di me rompermi e ciò mi faceva impazzire. Sapevo di stare piangendo, singhiozzando forte, ma non potevo curarmene, c’era qualcosa che continuava a ripetersi nella mia mente. Una parola dell’ultima lettera: morti. Era come un urlo incessante, come un tuono fragoroso che non riuscivo ad ignorare. Finché si trattava di “deceduti” potevo ancora gestire la situazione, fingere di non capire, di non sapere cosa significasse… Ma “morti” era molto – troppo – definitivo e mi faceva uscire di senno. Come potevano essere morti? Come poteva la mia dolce, bella e solare mamma, quella che si era commossa quando avevo ricevuto la mia lettera da Hogwarts, quella che aveva sorriso complice quando le avevo raccontato di essere innamorata, quella che aveva pianto e si era sentita in colpa quando le avevo spiegato della guerra in corso, come poteva quella bellissima persona che era, essere morta? E come poteva il mio buon papà, che era sempre così orgoglioso di me, che aveva sempre cercato di placare i conflitti tra me e Petunia perché ci voleva troppo bene per vederci separate, come poteva essersene andato via per sempre? Com’era possibile che non avrei più sentito le loro voci, visto i loro sorrisi sulle labbra, o potuto dire quanto volevo bene loro? Com’era possibile che non mi avrebbero mai più abbracciato? Non riuscivo a capacitarmene, a farmene una ragione. Non avevo mai pensato che fosse possibile. Avevo sempre creduto, ingenuamente, che loro ci sarebbero stati, sarebbero stati per sempre al mio fianco. Che mi avrebbero visto crescere, che mi avrebbero visto diplomarmi, trovare un buon lavoro, formare una famiglia. Quell’ultimo pensiero mi lacerò ulteriormente alla consapevolezza che mio padre non avrebbe potuto accompagnarmi all’altare con un sorriso commosso ma orgoglioso sulle labbra, che mia madre non avrebbe potuto prendere in braccio i miei figli, coccolarli e viziarli come ogni buona nonna. Com’era possibile tutto quello? Quant’era ingiusto? Ma non avevo perso soltanto loro, anche Petunia. Sentii un altro enorme pezzo di me staccarsi dolorosamente e andare alla deriva. Mi accorsi soltanto allora che, nonostante tutto, avevo sempre contato anche su di lei. Per me era ancorala sorellina maggiore con cui giocavo ogni giorno, quella che, a volte, si prendeva le colpe delle mie malefatte, ma che altrettante scaricava su di me le sue. E nonostante negli ultimi sei anni aveva dimostrato soltanto disprezzo nei miei confronti, sapevo – speravo – che mi voleva ancora bene, speravo che in un momento come quello avesse potuto mettere da parte l’invidia e starmi vicina, così come io lo sarei stata a lei. Invece mi aveva sbattuta in faccia quelle sue velenose parole, mi aveva bandita dalla mia stessa famiglia e esigeva che non dessi l’ultimo saluto ai miei stessi genitori. Ero sola, completamente sola.
Scoppiai a ridere. Durante tutto quell’anno avevo pensato quella frase diverse volte, avevo pensato di essere sola, che nulla potesse andare peggio, ma era sempre andata peggio. Però questa volta avevo quasi la certezza che non potesse succedere nient’altro. Come poteva qualsiasi altra cosa sconvolgere più di così? Questa volta ero davvero sola. Certo avevo amici che si sarebbero affannati a starmi intorno a cercare di rallegrarmi, ma nessuno, nessuno avrebbe capito. Come potevano capire il dolore, lo sconforto, la paura che provavo? Non potevano…
Mi sentivo alla deriva, come se mi fossi ritrovata in un fiume in piena, aggrappata a un minuscolo pezzetto di legno.
Non sapevo più dov’ero. Non vedevo più nulla intorno a me. Non sapevo più chi ero.
L’unica cosa che continuava a rimanere viva – ironia della sorte – nella mia mente erano parole che si rincorrevano.
Deceduti.
Ieri pomeriggio.
Gravi condizioni.
Inconvenienti tecnici.
E’ colpa tua.
Ti odio.

Ed era vero, mi odiavo. Nonostante Petunia fosse animata dal dolore, aveva ragione. Era colpa mia. Soltanto colpa mia. Se io non fossi stata una strega, una “sporca mezzosangue”, loro non sarebbero mai stati coinvolti nel mondo magico. Se avessi dato retta a Petunia e avessi lasciato perdere la magia, loro sarebbero ancora vivi e felici perché non ci sarebbero state liti tra me e mia sorella. Non avrei mai conosciuto Severus, né l’avrei perso. Non avrei mai conosciuto Sirius, né l’avrei perso. Avrei evitato molto dolore inutile. A cosa mi aveva portato? A nulla. Non mi aveva portato a niente. Soltanto a essere completamente sola, a naufragare in quest’oceano sconosciuto, freddo e nemico.

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Mi svegliai col soave, classico trambusto della stanza dei Malandrini. Sirius lanciava in aria oggetti perché non riusciva a trovare qualcosa e urlava alla volta di Peter. Remus, nonostante la sera prima fosse tornato all’alba dalla festa, si era già svegliato ad un orario che per me era ancora nel cuore della notte.
«Ramoso alzati! Devi trovare la mia bacchetta!» urlò Sirius da un luogo imprecisato troppo vicino al mio orecchio.
Io mi voltai dall’altro lato, sbuffando. «Lasciami dormire Sirius… E’ presto…» biascicai mettendomi il cuscino sulla testa.
«Presto? Sono le tre del pomeriggio!»
Sbuffai un’altra volta e mi misi a sedere. Quasi non riuscii ad aprire gli occhi che Sirius mi ficcò gli occhiali sul naso.
«Dove l’ho messa ieri?» mi domandò subito dopo.
Mi guardai intorno, riluttante. La stanza era nel caos, cioè molto più del solito. Sospirai.
«Non lo so dove l’hai messa ieri sera… Ma ora la troviamo, così io posso tornare a dormire…» replicai, afferrando la mia bacchetta dal comodino.
«Accio bacchetta di Sirius!» mormorai, agitandola appena. E non appena l’ebbi chiamata la bacchetta si lanciò verso di me e mi avrebbe colpito in volto se non fosse stato per i miei eccellenti riflessi da Cercatore. La passai al mio amico, poi mi rimisi sdraiato, tirai il lenzuolo fin sopra la testa e cercai di riaddormentarmi. Ma evidentemente quello non era il mio giorno.
«Ehi James, c’è Artù…» squittì Peter. Sbuffai di nuovo e mi alzai per vedere cosa voleva quello stupido gufo di famiglia. Raccolsi la lettera dalla sua zampa, gli diedi una pacca affettuosa sul capo e poi aprii la busta. Per poco non caddi a terra, scioccato da quello che lessi.
«Cosa dice?» mi domandò Sirius, voltandosi verso di me. Riuscii a ricompormi, prima che vedesse la mia espressione. Per qualche motivo, non volevo condividere con loro, nemmeno con quello che consideravo un fratello, ciò che avevo letto.
«Oh nulla… Le solite raccomandazioni di fine anno…» replicai, senza incrociare il suo sguardo e scrollando le spalle.
D’un tratto mi sembrò che le pareti della stanza iniziassero a stringersi intorno a me. Mi sentivo soffocato da quei muri, dal rassicurante caos che vi regnava e dai due ragazzi ignari di tutto. Cercando ancora di controllare la mia espressione e i miei movimenti, andai al bagno, per la prima volta in sei anni chiusi a chiave la porta e buttai la testa sotto il rubinetto del lavandino. Quando iniziai a non sentire più il freddo dell’acqua, lo chiusi e mi asciugai. Poi tornai in camera, mi vestii senza dire una parola e mi avviai alla porta.
«Ragazzi, vado a fare due passi… Non sia mai che riesca a incontrare la Evans da qualche parte…» dissi, cercando di sembrare convincente. Poi senza aspettare una risposta, uscii e quasi correndo cercai di raggiungere il portone d’ingresso.
Sembrava che tutto il mondo ce l’avesse con me dal momento in cui avevo aperto quella lettera. Diversi studenti mi fermarono in corridoio, alcuni soltanto per salutarmi, altri per complimentarsi per la Coppa del Quidditch, altri per commentare alcune delle mie mosse migliori. Ero abituato a tutto, ma quel giorno non ero dell’umore adatto per star lì e far finta di essere entusiasta. Alla fine riuscii a liberarmi e, in cortile, lontano dagli occhi indiscreti potei sfogarmi.
Quando decisi di andare nel mio solito posto, quello dove andavo per stare solo, per crogiolarmi nelle mie preoccupazioni e deprimermi, prima di indossare di nuovo la maschera del Magnifico Potter, avevo già la vista completamente oscurata, ma conoscevo quella strada a memoria e avrei potuto percorrerla anche ad occhi chiusi… Cosa che in un certo senso stavo facendo.
Quando lo raggiunsi, mi fermai, prendendo fiato, nemmeno mi ero accorto di essermi messo a correre. Alzai lo sguardo e gelai: il mio posto era occupato. Fui preso da un moto di rabbia, come poteva essere occupato? Proprio ora che mi serviva? Stavo quasi per mettermi ad urlare o a correre via, ma poi mi venne in mente una cosa. Per tutti io ero il Magnifico Potter, perciò, anche se non riuscivo a vederla, sapevo che non appena sentita la mia voce quella persona se ne sarebbe andata.
«Quello è il mio posto.» dissi con il tono più autoritario e Malandrino che riuscii a trovare.


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Dopo un tempo interminabile in cui avevo perso la nozione di ogni cosa – non riuscivo nemmeno più a trovare i miei stessi muscoli – qualcosa oscurò il sole. Non vedevo cosa fosse e per un attimo temetti che fosse un altro gufo pronto a darmi altre pessime notizie, anche se ero convinta che non ce ne potessero essere. Ma l’ombra, che non vedevo per via delle lacrime, non si muoveva perciò quel terrore si spense. Stavo quasi per dire qualcosa, se avessi ritrovato la bocca, ma una voce mi precedette.
«Quello è il mio posto.» dissi e impiegai diverso tempo prima di capire a chi la voce appartenesse e reagire. Conoscevo piuttosto bene quel tono e di certo non avevo intenzione di andarmene da lì. Qualcosa di nuovo mi invase. Rabbia. Era come un vortice, no… Come una coperta calda che avvolge e rianima.
«Non mi pare di aver letto “posto riservato a Sua Altezza Reale Potter” su questo muro! E da quel che mi risulta Hogwarts non è una tua proprietà!» sbraitai, alzandomi di scatto. La rabbia che mi guidava mi imponeva di non affrontarlo dal basso, seduta in quella posizione.
«Forse non hai guardato bene!» esclamò lui con lo stesso tono che avevo usato io.
«O forse tu sei così tanto egocentrico che credi che persino i muri della scuola ti venerino!»
«O forse sei tu che non sei in grado di notare l’ovvio!» replicò.
Fu allora che la rabbia sfumò, così com’era venuta. Di nuovo mi sentii svuotata, completamente a pezzi. Forse fu proprio per questo che in un attimo in cui ero riuscita a mettere a fuoco la figura davanti a me, ebbi l’illusione di vedere Potter con gli occhi rossi e gonfi e la stessa espressione di dolore e sconforto che sicuramente io avevo.
«Senti… E’ abbastanza spazioso per entrambi questo muro…» dissi esausta.
«Senti… E’ abbastanza spazioso per entrambi questo muro…» disse lui nello stesso identico istante in cui lo feci io. Ma la contrario di una normale situazione, nessuno dei due si mise a ridere. Ci limitammo ad annuire e io mi abbandonai di nuovo per terra. Qualche istante dopo anche lui si mosse, ma invece di andare dal lato opposto del muro si sedette affianco a me, abbastanza distante da non sfiorarmi.
Il silenzio che scese divenne per me imbarazzante. Con qualcuno affianco non potevo più sfogarmi come volevo, ma non potevo impedirmi di pensare, perciò ero tesa. Guardai Potter di sottecchi, cercando di capire quanto si sarebbe fermato lì. Anche lui sembrava nervoso, cambiava posizione ogni secondo e picchiettava con le dita sul ginocchio. Era girato dall’altro lato, come se volesse dimenticarsi della mia presenza, ma io non riuscivo a fare altrettanto.
«Allora… Che ci fai qui? E’ un posto così isolato, nessuno può vederti… Come fai a metterti in mostra?» domandai schernendolo, senza nemmeno rendermene conto. Ma non appena finii la frase, capii che avevo detto la cosa più sbagliata.

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Mi sedetti affianco a lei, ma non era la stessa cosa che rimanere da solo e in quel momento ne avevo davvero bisogno. Il silenzio era pesante e un po’ gliene fui grato perché lo interruppe. Ma non appena mi fece quella domanda, così sprezzante, mi voltai di scatto a guardarla, irato. La vidi sussultare e ne gioii. Come poteva parlarmi in quel modo? Non vedeva, forse? Non vedeva il mio dolore? No, per lei ero soltanto Sua altezza Reale Potter…
«E’ tranquillo…» le risposi, cercando di mantenere la calma. Non avevo alcuna intenzione di mettermi a litigare, urlare, come facevamo di solito. Ero privo di qualsiasi forza.
Lei annuì e fu allora che vidi i suoi occhi. I suoi splendidi occhi verdi ora erano arrossati, gonfi e colmi di lacrime, mentre le guance portavano i chiari segni di quelle già versate.
«Perché piangevi?» le domandai in un sussurro.
«Ho ricevuto tre lettere…» mi disse con un leggero tremito. «Una dal Ministero, una dal San Mungo e una da mia sorella.»
Non dissi nulla, se quelle tre lettere l’avevano fatta piangere così tanto erano personali e nessuno più di me sapeva cosa significasse desiderare di tenere il personale per sé. Perciò attesi, se avesse voluto continuare, l’avrebbe fatto.
«Quella del Ministero è arrivata in ritardo…» continuò, a voce così bassa che stentai a sentirla. «Se non fosse arrivata tardi… E’ tutta colpa mia…» disse e la voce le si spezzò in singhiozzi. La guardai allarmato e vidi che aveva iniziato a piangere.
«Mi dispiace, non capisco…» le dissi incerto, temendo di peggiorare la situazione.
Cercò di dire qualcosa, ma il pianto glielo impedì. Dopo qualche istante, allora, mi porse le lettere. «Io… Non… Riesco….» cominciò, ma avevo capito cosa intendesse. Le presi, appoggiando la mia in grembo, e le lessi.
Rimasi inorridito. Per un istante il mio dolore si attenuò, mi sembrò pallido in confronto al suo. Non erano tanto le asettiche lettere del Ministero e dell’Ospedale, ma le crudeli, cattive parole di sua sorella. Non sapevo cosa dire… Farle le mie condoglianze? Sembrava troppo formale. Dirle che non era colpa sua? Era vero, certo, ma non era ciò che voleva sentire. Dirle che mi dispiaceva? Banale e inutile. Tutto era banale e inutile, perciò decisi di tacere. Sembrò apprezzarlo e quando le restituii le lettere, la mia mano tremava.
Dopo qualche minuto aveva smesso di piangere e si stava ricomponendo. Glielo lasciai fare, senza parlare e senza guardarla. Aveva tutto il diritto di essere in quello stato e non volevo che si sentisse imbarazzata.
«Ecco perché sono qui…» disse con voce arrochita dal pianto «E tu?»
Il suo tono era così dolce che non riuscii a non rispondere. «Anche io ho ricevuto una lettera. Di mio padre.» stavolta fu il suo turno di tacere e aspettare che fossi io a continuare. Mi persi in quelle poche righe vergate in fretta dalla mano di mio padre. Strinsi la pergamena fino a stropicciarla e gli occhi mi si riempirono di lacrime. Tremavo, non più per le lettere di Lily, ma per la tremenda verità contenuta in quel foglio «Mia madre ha avuto un malore, questa notte…» nonostante gli sforzi la voce mi tremò e non riuscii più a continuare. Non volevo dirlo ad alta voce, l’avrebbe reso concreto, reale. Ma sapevo anche di doverlo fare. Il dolore che poco prima si era nascosto, mi precipitò di nuovo addosso, togliendomi il respiro. Era come se una grossa onda si fosse nascosta dietro la precedente e mi avesse colto di sorpresa, scaraventandomi violentemente contro gli scogli più e più volte. «La mia mamma è morta…» la voce spezzata dal pianto era solo un sussurro, una via di mezzo tra il dirlo e il non dirlo, un compromesso tra ciò che volevo e ciò che dovevo. E subito dopo, senza provare alcuna vergogna, le lacrime iniziarono a rigarmi il volto in silenzio.
Passò appena un istante prima che capitasse una cosa incredibile.
Lily mi abbracciò. Io passai un braccio intorno alle sue spalle e la strinsi a me, traendo conforto dal suo stesso dolore. L’incredibile fu che, per la prima volta in sei anni, eravamo abbracciati ma non me ne fregava assolutamente niente.

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La sua voce era più controllata della mia, il suo dolore si propagava meno del mio, ma mi sembrò ancora più intenso. Il tono di bambino disperso con cui disse quell’ultima frase lacerò l’ultimo brandello del mio cuore. Fu l’istinto che mi guidò a cingergli i fianchi, stringere appena e appoggiare il capo sulla sua spalla. Lo feci sia per confortarlo, ma anche perché lui poteva capire cosa provavo, era la mia unica ancora di salvezza. Quando mi strinse a lui con la mia stessa forza e la mia stessa dolcezza, mi sentii come se avessi un salvagente in mezzo a un mare in tempesta. Un misero salvagente che però mi teneva a galla e seppi che per lui era lo stesso.


Note: probabilmente mi odierete, ma era necessario anche questo. Qualcuno mi ha chiesto se è stata la Rowling a dire che i genitori di Lily morirono coinvolti in un attacca. No, l’ho inventato io. Dalle mie ricerche non risulta nulla sui nonni materni di Harry, mentre risulta che nel 1977 è morta per cause naturali la mamma di James. Farlo accadere nello stesso momento è stata una triste scelta, che però era necessaria.
Un’altra cosa… Lily si è dimenticata di Sarah e della tragedia che ha scosso la sua famiglia, ma io no. =)
Ah giusto, questo è un capitolo un po’ speciale, l’avrete notato XD Forse vi sembrerò che James sia superficiale, ma vi prego di non dare giudizi affrettati, ci sono molte cose che verranno alla luce nei prossimi capitoli. Ringraziamenti: ringrazio tutti i lettori, nuovi vecchi e futuri. In particolare: Ella_Sella_Lella, bianchimarsi, jaybree88, FloorJansen, Herys, Miss_Rose e mattamaty.
Un’ultima nota, per farmi detestare un po’ meno… Quando ho scritto questo capitolo, ho pianto io stessa. Lo so che sembra stupido, piangere per una cosa che io stessa ho deciso e scritto, però mi sono molto affezionata a questi personaggi e farli stare male, fa star male anche me in qualche modo… ^_^

   
 
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