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Autore: itsmemarss    09/12/2010    1 recensioni
(…) Quando ti risvegli nella devastazione, quando aspetti sul bordo del nulla, con il caos che piove giù come fuoco, l’unica cosa che ti resta da fare è piangere, invocare aiuto. Perché sei solo, perché hai paura, e non puoi fare altro. Fu l’unica cosa che mi riuscì, quando con mani tremanti raggiunsi il suo corpo inerme. La gamba sinistra era piegata in una posizione innaturale, mentre le mani si stringevano convulsamente intorno alla ferita al fianco. (...)
Ellie, Gale, Liam e Joleen. Quattro destini collegati tra loro. Un piano che cambierà totalmente il loro mondo e quello di tutti gli altri abitanti della Terra. Ma tra intrighi e bugie, nessuno di loro è immune al caos. Soprattutto quando a crollare è il muro di certezze che uno si è costruito intorno a sè. Nessuno può fidarsi più di nessuno. Non più.
Genere: Avventura, Romantico, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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06
(a city of light)

 



In realtà ci vollero altre due ore, prima di arrivare davvero a Helium. Trovandosi sottoterra, scendemmo lungo un canale, costruito direttamente nel suolo, illuminati da due torce – una dell’aprifila e un’altra del chiudi fila. In tutto eravamo sei: il pilota – che scoprii chiamarsi Walt – mio padre, Gale, Liam, Joleen e infine me.
Il soffitto basso, il terreno ripido e la totale oscurità mi costrinsero ad affidarmi a Gale e la sua mano, che stringeva la mia senza mai lasciarla andare. Nemmeno quando, scivolando sulle numerose pozzanghere di fango lungo il percorso, rischiavo di trascinarlo giù con me.
Fu anche a causa di questo, che impiegammo più tempo del previsto.
I cunicoli formavano davvero un labirinto, ma ormai la memoria aveva sostituito le mappe e Walt avanzava sicuro davanti agli altri.
Alla fine, giungemmo al crepaccio. Come aveva raccontato papà, a molti metri sopra le nostre teste, si poteva scorgere il soffitto di stalattiti. Lunghe e appuntite, svettavano minacciose verso il basso. Sotto i nostri piedi, invece, il nulla più totale. Capii cosa provassero, in un certo senso, i ciechi e rabbrividii nella paura di esserlo diventata per davvero.
Papà prese un bel respiro e portò le mani al viso. Erano unite tra di loro attraverso i palmi. Dopodiché le sistemò fino a formare un intrico complicato di dita: i due pollici erano ripiegati verso il dentro, gli indici staccati dai medi, i mignoli incastrati tra loro. C’era poi un piccolo spazietto, tanto invisibile da vedere, quanto impossibile da localizzare con quella luce fioca.
Infine, espulse l’aria dai polmoni e sentii il Segnale. Era insieme acuto e basso, un insieme di toni diversi tra loro che creavano una perfetta melodia. A giudicare dal sorriso di Walt, aveva imitato alla perfezione quello che Kato aveva usato la prima volta che erano stati lì sotto.
Comparve prima una luce, poi un’altra e un’altra ancora. Minuscole scintille gialle, arancioni e rosse non smettevano di comparire da ogni dove. Era come se milioni di stelle stessero esplodendo tutte insieme, nello stesso momento.
Mi coprii gli occhi subito dopo la seconda, incapace di sopportare tutta quella luminosità dopo ore passate alla sola luce delle torce. Persi così la presa di Gale, che però mi abbracciò e si nascose il suo viso fra miei capelli.
Al sicuro in quell’abbraccio caldo, non ebbi fretta a riaprire gli occhi. Anche perché lampi verdi e bianchi continuavano a comparirmi davanti, provocati dalla luce accecante di prima.
Quando finalmente riuscii a tornare a vedere, sbattei un paio di volte le palpebre, totalmente a bocca aperta. Helium era ancora più bella di quanto me l’avesse descritta mio padre.
Le luci – provenienti da lampioni, case, lampadine sospese – erano milioni, forse anche di più.
Era una città di luce, letteralmente.
<< E’… stupenda >> mormorai, staccandomi lentamente da Gale. Avanzai verso il crepaccio, incapace di dire altro, e rimasi a fissare il panorama che si estendeva da lassù.
Le strade seguivano un intreccio perfetto di linee e incroci, gremite di persone. I tetti splendevano di ogni colore immaginabile – rosso, viola, blu, arancione – estendendosi per vari chilometri, prima di terminare a ridosso della roccia dall’altra parte. Cupole e torri svettavano un po’ dappertutto, costruite in vetro e mattoni. Nessuna traccia di metallo o acciaio.
Non sembravano esserci mezzi di trasporto particolari, né vecchi né nuovi. La maggior parte si muoveva a piedi. Avevo notato, però anche strane canne di ferro, munite di due gomme e un manubrio: biciclette, così le chiamò Gale. Qualunque cosa fossero, sembravano in grado di raggiungere il doppio della velocità di un uomo appiedato.
Scendemmo ancora, questa volta attraverso delle piccole scale, costruite direttamente nella parete di roccia, scivolose per via dell’acqua piovana che cadeva dal soffitto e ripide per l’erosione. Dovevano essere lì dalla costruzione di Helium.
Cercai di fare più attenzione possibile, attaccandomi con una mano al muro di roccia alla mia destra. L’altra rimase libera, brancolante nell’aria calda del sottosuolo, così da darmi un po’ di equilibrio.
Fortuna volle che non cadessi, evitandomi così uno spiacevole impatto facciale con il terreno poco più giù.
Trenta gradini dopo, toccammo il terreno di Helium con i nostri piedi.
Come sistema di difesa, la città aveva adottato delle semplici mura in mattoni, alte all’incirca dieci metri e sorvegliate da una decina di uomini ciascuna. Ogni Porta che dava accesso a Helium era munita di una grossa campana, da suonare per avvertire in caso di pericolo.
Walt parlò a una delle guardie – un uomo bassino, ma robusto, con un grosso elmo sulla testa – e qualche secondo dopo, il grosso cancello di ferro si aprì davanti a noi, mostrandoci un grande viale, attorniato da erba e alberi. Più in là, a un centinaio di metri, riuscii a scorgere le prime case di Helium. Nessuna di esse raggiungeva l’altezza massima di tre piani. Anche alcune cupole erano già ben visibili.
Non appena il cancello si richiuse, però tutto cambiò. Qualcosa ondeggiò e subito dopo cominciarono a comparire i contorni di una cupola altissima: quasi toccava il punto più alto della grotta, partendo dalle Mura stesse e circondando tutta la città.
Il crepaccio, le scale, il soffitto di roccia… non c’erano più. Al loro posto comparve il cielo, uno di quelli veri, con tanto di nuvole e stelle, appena accennate vista l’ora – doveva essere appena pomeriggio.
Strane creature volanti, tra cui anche qualche Aquila, svolazzavano attorno a dirigibili, l’equivalente di grossi aerei che riuscivano a stare sospesi nell’aria per via dell’elio nei palloni aereostatici.
Dall’alto non avevo notato niente di tutto questo, ma da quaggiù sembrava quasi di trovarsi ancora in superficie. Gale, forse vedendomi così sorpresa, cercò di rispondere ai miei dubbi mentali.
<< Si tratta di una barriera invisibile, la Cupola. Noi non possiamo vedere l’esterno e, viceversa, quelli dall’interno non possono vedere fuori. Fu creata dal primo abitante di Helium ed esiste da allora, come quasi tutti i palazzi e abitazioni che noti in lontananza. Non ne riconosci l’architettura perché appartengono al Mondo Passato. Un tempo ogni città ne aveva più di uno. Poi sai il resto della storia >>, mi rivolse un sorriso mesto.
Annuii, guardando un’ultima volta il paesaggio in lontananza, prima di seguire gli altri.
In sintesi le luci della città non si spegnevano mai, nemmeno quando arrivavano nuovi Esterni. Semplicemente, Helium si nascondeva dietro una cupola invisibile. Astuti, dopotutto.
Attraversammo la via principale della città, diretti al Palazzo del Sindaco. I marciapiedi erano così affollati che la gente era costretta a passare per strada, con il rischio di venire investiti da carretti di legno o biciclette. Fortunatamente non ci furono incidenti. Forse erano tutti così abituati a quel caos, da non farci nemmeno caso. Per me, però che arrivavo da Pandora, tutto questo era un incubo.
Il problema del rumore e delle spintonate, però, fu ben presto accantonato. Rimanevo, infatti, ogni volta meravigliata dalle espressioni dei passanti. Sembravano tutti così felici, così veri e sinceri nel mostrare le proprie emozioni: tutto il contrario degli abitanti di Pandora, tremendamente grigi e falsi.
Mi chiesi più volte il motivo, ma non riuscii ad arrivarci. Forse con il tempo lo avrei capito.
Il Palazzo del Sindaco si trovava esattamente davanti alla Piazza principale – un quadrato perfetto che ospitava il Mercato. La sua architettura ricordava vagamente una chiesa. La cupola principale era di forma ogivale e poggiava sul tamburo, la base in muratura poligonale. I pennacchi, elementi architettonici di raccordo tra la struttura di base e la calotta, erano intarsiati finemente.
I contrafforti, per la maggior parte esterni, sostenevano il peso delle mura e della cupola stessa, divisa in dodici spicchi e con i mattoni a spina di pesce. C’erano poi colonne, bassorilievi e piccole statue bianche, posizionate in nicchie lungo tutta la superficie dei muri.
C’era poi la torre più alta, terminante con un tetto spiovente a quarantacinque gradi verso il terreno, che ospitava un orologio. Veniva più comunemente chiamato Misura Tempo e a Pandora erano quasi del tutto introvabili. L’unico che avevo mai visto in tutta la mia vita, apparteneva a mio padre e avevo visto indossarglielo solo a casa. Fuori lo avrebbero sicuramente arrestato. Per qualche motivo inspiegabile, il Consiglio li aveva proibiti. Per questo mi sembrò strano vederne uno lì, addirittura su uno dei palazzi più importanti, sede del governo della città.
Era davvero ben fatto, molto diverso da quello di mio padre: roccie più piccole, intagliate in numeri romani, segnavano i minuti, mentre altre più grandi le ore. Le lancette di metallo ramato, che a una prima occhiata mi erano parse immobili, in realtà si muovevano, solo più lentamente del normale. Attorno ad esse, c’erano di bassorilievi dorati su sfondo blu: una donna che tenava in mano una bilancia, due bambini che si tenevano per mano, una donna dalle lunghe corna, un uomo con zoccoli al posto delle mani e una coda di pesce al posto delle gambe, un bambino con pinze al posto delle mani…
Erano tutti segni zodiacali. Un tempo, ancora prima degli uomini del Mondo Passato, gli antichi pensavano che attraverso essi fosse possibile svelare l’animo umano di una persona. Derivavano dalle costellazioni, i raggruppamenti di stelle che spesso in passato osservavamo io e Gale. Usavamo il telescopio di mio padre, nascosto in soffitta, e passavamo intere notti in cerca di comere in grado di esaudire ogni nostro desiderio più nascosto, stando alle leggende che avevamo sentito su di esse. A quei tempi sognavo ancora di poter scappare via nelle volte celesti.
Fu attraverso l’astrologia che gli uomini del passato assegnarono un nome a ogni gruppo di stelle: Ariete, l’uomo dalle lunghe corna ondulate; Toro, la donna dalle corna di mucca; Gemelli, i due fratelli che si tenevano per mano; Cancro, la bambina dalle mani di crostaceo; Leone, il ragazzo dalla folta criniera; Vergine, la bellissima donna dai capelli d’acqua; Bilancia, la donna che reggeva l’omonimo oggetto; Scorpione, l’uomo dalla coda velenosa; Saggittario, l’arciere; Capricorno, l’uomo metà pesce e metà capra; Acquario, la bambina con i vasi colmi d’acqua; e infine Pesci, il tritone e la sirena che nuotavano insieme. Ad esempio io ero un ariete, mentre Gale un pesci.
Alla fine passammo oltre un paio di gradini e ci trovammo nel piccolo portico davanti alla porta a vetri. Pesanti tende di stoffa rossa tagliavano fuori il mondo esterno.
Walt bussò una volta, impugnando il grosso battente d’oro, ornato con una bocca di leone.
Qualche secondo dopo, un ragazzino che doveva avere all’incirca undici anni, vestito con un’uniforme rossa, bianca e blu venne ad aprirci. Mi ricordava Gale alla sua età.
<< I vostri nomi, signori >> ci chiese con una vocina bassa, ma senza alcuna timidezza.
<< Walter e Lucifer Morningstar. Il sindaco Whitfield è già stato informato del nostro arrivo >> rispose la nostra guida e pilota.
<< Prego, allora >> il paggetto si fece indietro e la porta si aprì del tutto, mostrando un interno ancora più sfarzoso e antico dell’esterno. L’ingresso abbastanza grande dava direttamente sull’interno della cupola, terminante con un serraglio, il quale chiudeva le due calotte come fosse un anello e faceva passare la luce dall’esterno.
Il soffitto riprendeva la volta del cielo, dipinta di blu scuro, in stretto rapporto con le proporzioni architettoniche della cappella. Le partizioni si basavano sulla scansione delle finestre – tanto piccole da non essere di forte impatto visivo – che generavano lo spazio per sei riquadri sotto ciascuna finestra delle pareti laterali e per due in quelle frontale e posteriore. Ricordava vagamente una carta celeste, una rappresentazione delle principali stelle e costellazioni, e fa questre riconobbi il Grande Carro. A formarlo erano le sette stelle più brillanti della costellazione dell’Orsa Maggiore: Dubhe, Merak, Phecda, Megrez, Alioth, Mizar e Alkaid.
Poteva sembrare impossibile, ma la carta comprendeva tutte le stelle conosciute.
Da serraglio pendeva poi un ernome lampadario in vetro, che illuminava a giorno la stanza.
Le pareti laterali della sala circolare erano sempre affrescate, ma con diverse scene che dovevano risalire al tempo degli Antichi, forse dei greci o dei romani.
Una scena in particolare attirò la mia attenzione, ambientata in un boschetto di aranci, colmi di frutti e arbusti, sullo sfondo di un cielo azzurrino. Erano presenti nove personaggi, bilanciati ritmicamente e simmetrici attorno al perno centrale della donna col drappo rosso e verde sulla veste setosa. Il suolo era composto da un prato verde, disseminato di fiori: iris, fiordalisi, ranuncoli, papaveri, margherite, viole, gelsomini…
A sinistra c’era un ragazzo, vestito di rosso, con una spada legata al fianco. Aveva l’aria indifferente e teneva in alto uno strano cilindro metallico. Seguivano poi un gruppo di tre ragazze, rappresentate nell’atto di danzare, alzando le braccia e intrecciando le dita, tutte vestite di leggere tuniche bianche. Al centro stava una donna, quella circondata dal drappo rosso. Il viso inclinato sembrava guardarmi, mentre osservavo il dipinto. Un bambino dalle ali d’angelo, con gli occhi bendati e un arco in mano, svolazzava sopra la sua testa. C’era poi un’altra ragazza, dal sorriso enigmatico, e con i capelli biondi intrecciati di fiori. Indossava un vestito stupendo a fantasia floreale e dal grembo gettava fiori ovunque. Portava una ghirlanda al collo e camminava scalza.
Verso il finire della scena, sulla destra, comparivano invece una donna e un uomo. Quest’ultimo cingeva il busto della prima. Sembrava quasi che volesse trattenerla contro il suo volere. Dalla bocca della donna spuntavano una serie di fiori intrecciati.
Venni poi a scoprire da mio padre che le persone nel dipinto rappresentavano gli dei della mitologia greca degli Antichi. Zefiro, il vento della primavera, era l’uomo dall’espressione imbronciata e le guance gonfie d’aria, che teneva tra le mani la donna dall’aria spaventata, la ninfa Cloris. La ragazza con la ghirlanda era invece Flora, la personificazione stessa della primavera e figlia di Zefiro e Cloris. La donna al centro era invece Venere, dea dell’amore, che sorvegliava e dirigeva gli eventi, quale simbolo dell’amore più elevato. Sopra di lei voleva il figlio Cupido, mentre a sinistra si trovavano le sue tradizionali compagne, le Grazie. A chiudere il gruppo, c’era il ragazzo disinteressato, Mercurio, con i tipici calzari alati, che scacciava le nubi con il caduceo, il bastoncino sconosciuto, per preservare un’eterna primavera.
Al centro della sala, subito dopo la parete affrescata, si ergeva una scala di marmo, coperta da un tappeto rosso, forse per evitare cadute indesiderate o il rumore di tacchi. Davanti ad essa erano sistemati un paio di divanetti azzurri e tavolini bassi, in rifiniture dorate.
Salimmo fino al primo piano e ci fermammo davanti a una porta più grande della altre. Anche lì un leone faceva da battente.
<< Il Sindaco ha chiesto di parlare esplicitamente SOLO con te, Ellie. Quindi mi dispiace dirlo, ma da ora dovrai continuare da sola. Noi ti attenderemo da basso, va bene? >> disse mio padre, prima di girarsi. Istintivamente gli afferrai la mano e lo bloccai a metà dell’azione, costringendolo a voltarsi e a guardarmi. Di colpo ebbi timore di perderlo nuovamente. Come se entrando in quella stanza, poi non ne sarei più uscita.
<< Ti prego, papà… >> biascicai, mordendomi il labbro.
<< Shh, va tutto bene, piccola. Ti prometto che sarò di sotto, quando avrai finito >> mi diede un bacio sulla fronte e mi strinse forte la mano, poi lasciò la presa e cominciò a riscendere le scale insieme con gli altri. L’ultima cosa che vidi fu il sorriso d’incoraggiamento di Gale e l’occhiolino di Liam.
Alzai gli occhi al cielo, prima di voltarmi nuovamente a fissare la porta. Mi concentrai tanto intensamente sul legno che per un momento ebbi paura di bruciarla con lo sguardo. Ero tanto nervoso che mi tremavano le mani.
“Calmati, Ellie, non essere fifona… non ti mangia mica”, pensai.
Alla fine presi un bel respiro e battei forte il pugno. Solo quando sentii un ‘avanti’, appoggiai la mano destra sulla maniglia dorata e l’abbassai verso il basso.
   
 
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