Muschio
Nel silenzio, il rumore di un bacio.
“ Non siamo fatti l’uno per
l’altra”
Quella frase continuava ad echeggiarmi nella mente, ancora
e ancora.
Con la coda dell’occhio osservai le cifre luminose
dell’orologio digitale: le tre. Le tre di notte. O di mattina, dipende
dai punti di vista. Sorrisi, adagiandomi meglio sul divano. Com’era
quella frase? Nella notte nera… no, nella notte buia. Sì, era buia. Nella
notte buia dell’anima sono sempre le tre del mattino. Ah,
quant’è vero. Sospirai, sfregandomi gli occhi stanchi.
- Rebecca, mi stai ascoltando? -
Alzai la testa di scatto, incontrando gli occhi umidi e
arrossati di Giorgia. Annuii, improvvisamente seria.
- Certo che sì! Vuoi ancora un po’ di tè? –
chiesi, porgendole la teiera.
Lei negò con il capo, soffiandosi il naso con
l’ennesimo clinex.
- Non voglio il tè, voglio Antonio – bisbigliò lei,
il pianto nella voce. Sospirai, pensando che in trenta minuti era più o meno la
centesima volta che lo diceva. Voleva Antonio.
Antonio però l’aveva lasciata,
porca miseria!
L’aveva lasciata, con un messaggio nella segreteria
telefonica e lei si era precipitata a casa mia. Di notte. Alle tre. Aveva
bussato alla porta, disperata, con l’espressione di una che non ha più
ragioni per vivere. E io avevo preparato il tè, l’avevo ascoltata, e poi
ascoltata ancora. Era come un disco rotto.
Giorgia tirò su con il naso, prendendo un bel respiro. E
ora avrebbe ricominciato, di nuovo.
- Capisci che razza di bastardo è? Ha detto: “ Non
siamo fatti l’uno per l’altra” ! E
che altro? Ah, sì: “ Non abbiamo punti in comune, siamo troppo
diversi” ! Ti rendi conto? -
Piangeva, parlava e piangeva. Indignata, disperata,
risentita. Avrei voluto abbracciarla, confortarla, ma sapevo che sarebbe stato
inutile. Non era la prima volta che Giorgia veniva da me in lacrime. Era la
quarta anzi, se non la quinta. Ed ogni volta era sempre la stessa storia. Così
mi limitai ad annuire.
- E io adesso come faccio, Becca?
– sospirò, mordendosi il labbro inferiore. – Come faccio senza di
lui? -
- Senza chi? –
Ci voltammo entrambe verso la voce assonnata e confusa che
proveniva dal corridoio.
Sorrisi, vedendo Gianni che si avvicinava. A piedi nudi, i
pantaloni del pigiama smollati e la maglia del college. Sbadigliò, cercando
inutilmente di pettinarsi i capelli.
Ci mise un po’ ad inquadrare la situazione e, non
appena lo ebbe fatto si bloccò, l’espressione persa.
- Disturbo? – chiese, sfregandosi un occhio e
sorridendomi comprensivo.
Tentai di dire qualcosa ma Giorgia mi precedette, la voce
alterata dall’ imbarazzo: - No, che non
disturbi!- Mi guardò, scuotendo la testa rammaricata. Continuò, sempre più
mortificata.
- Sono io a disturbare! Io che mi presento qui in piena
notte, che sveglio te e poi anche tuo marito… mi dispiace tantissimo,
Becca. Solo, non sapevo dove altro andare – sussurrò, tormentandosi il
labbro.
Con un movimento fulmineo mi alzai, avvicinandomi a lei.
Le presi la mano, sedendomi accanto a lei sulla poltrona ed abbracciandola. La
strinsi forte, avvicinando le labbra al suo orecchio:
- Sai benissimo che non è vero. Non disturbi mai –
dissi, senza lasciarla.
Giorgia ebbe un singulto. Ricambiò l’abbraccio,
piangendomi sulla spalla. – Ma domani dovete
lavorare –
Sorrisi, scostandomi di poco: - Credi mi importi più del
lavoro che di te? – chiesi, fingendomi offesa.
Lei finalmente sorrise, guardandomi riconoscente. Si
asciugò gli occhi, cercando Gianni.
- Dov’è finito? – mi chiese,
l’aria stanca. Non aveva nemmeno finito di chiederlo che lo vidi uscire
dalla cucina portando un piatto con latte e biscotti. Si avvicinò piano,
studiandoci con sospetto.
Poggiò il piatto sul tavolino ai nostri piedi e ci allungò
un plaid colorato. Quindi prese posto sul divano
davanti a noi, sorridendo con fare protettivo. Aspettò che ci servissimo,
avvolte nella coperta, per parlare:
- Posso restare o sono questioni di donne? – chiese,
un sottofondo di sarcasmo nella voce.
Lo guardai, lui, quei suoi enormi
occhi neri e quella sua enorme sfacciataggine. Sapevamo tutti che non se ne
sarebbe andato per nulla al mondo: una volta sveglio, riportarlo a letto era
sempre un’impresa.
Lanciai un’occhiata a Giorgia che, bicchiere di
latte stretto fra le mani, gli faceva segno di restare. Gianni si illuminò,
felice come un bambino che ha appena ottenuto un regalo inaspettato. Si
accomodò meglio sul divano, le gambe piegate sotto di sé e gli occhi sgranati
dalla curiosità:
- Chi ti ha lasciato questa volta, Giogiò? – chiese,
con aria innocente.
Io sobbalzai, fulminandolo con lo sguardo. Come gli era saltato in mente di… Mi voltai verso Giorgia,
aspettandomi di vedere che le dighe si erano riaperte, ma mi sbagliavo. Lei
sorrideva appena, gli occhi socchiusi. Si inumidì le labbra, annuendo con fare
colpevole.
- Antonio – mormorò, timorosa anche solo nel
pronunciarne il nome.
Gianni annuì, con l’espressione di uno psicologo
vantante anni di decorosa professione. Alzai gli occhi al cielo, aspettandomi
di vedergli comparire in mano un quadernino per gli
appunti.
- Lo sapevo. Te lo dicevo che mi era sempre sembrato un
poco di buono – sentenziò, lo sguardo grave.
Ci volle uno sforzo di volontà non indifferente per
impedirmi di scoppiare a ridergli in faccia. Giorgia cambiava ragazzo
all’incirca ogni due mesi e Gianni non si era mai nemmeno preso la briga
di impararne i nomi. Di conseguenza non aveva la più pallida idea di chi fosse
Antonio, né di che faccia avesse.
Giorgia però sembrava non averlo realizzato e pendeva
letteralmente dalle sue labbra.
Gli lanciai un’occhiata in tralice, chiedendogli
silenziosamente di smetterla di fare il buffone.
Lui mi sorrise appena in risposta, inclinando la testa
verso il corridoio. Chiunque, anche qualcuno che non fosse la moglie da più di
dieci anni, avrebbe capito il messaggio implicito: stava cercando di rimetterla
in sesto il bastevole per cacciarla di casa e tornare in camera con me. Lurido
truffatore.
Ascoltai ancora per un po’ le parole dolci che
pronunciava con semplicità, neanche fosse un discorso preparato che aveva anche
già provato. Mi strinsi di più a Giorgia, per solidarietà e senso di colpa.
All’ennesimo “ E’ lui che non sa cosa ha perso” mi
spazientii, ormai pronta ad intervenire e bloccarlo, ma ci pensò il campanello
a farlo per me. Suonò, più volte, interrompendo la filippica di Gianni.
Fu proprio lui ad alzarsi, l’espressione sorpresa e
le labbra corrucciate. A passo indolente si avvicinò al citofono pronto a
bistrattare chiunque fosse la causa del nuovo disturbo. Fece per rispondere,
quando bussarono alla porta: tre colpi netti e forti. Gianni si voltò verso di
me, convinto che fossi a conoscenza dell’identità dell’ospite
accanito. Io mi strinsi nelle spalle, incitandolo ad aprire.
Sbuffando, Gianni aprì la porta lo stretto necessario ad
individuare il viso nuovo, pochi istanti dopo la stava spalancando
completamente, arretrando per lasciar entrare un giovane a testa bassa. Lo
riconobbi solo quando, raggiunto il salotto, ebbe alzato il viso.
- Vincenzo! – esclamai, mentre lui, ridendo
istericamente, si lasciava cadere sul divano prima occupato da Gianni. Gli
occhi lucidi, le gote infiammate, continuava a ridere, interrompendosi solo per
brevi singulti.
- Mi ha lasciato – sibilò, a denti stretti,
stringendosi le gambe al petto.
Gianni prese posto accanto a lui, guardandolo serio in
volto:
- Cosa? – gli chiese, lanciandomi un’occhiata
oltremodo incredula.
- Mi ha lasciato – sillabò Vincenzo, reclinando la
testa all’indietro. Rideva ancora, a tratti. – Eleonora, che
vipera. Eleonora la vipera, ecco come l’avrebbero dovuta chiamare
all’anagrafe –
Trattenni il respiro, riuscendo a stento a crederci.
Incredibile! Guardai Vincenzo, affranto ed adirato, cercare una consolazione
nell’amico. Sentii un movimento accanto a me, e vidi Giorgia che si
allungava verso il nuovo venuto, l’espressione contrita e solidale.
Iniziarono così, senza conoscersi né presentarsi. Un
incontro casuale di occhi che stavano vivendo le stesse emozioni bastò. Fu come
se Gianni ed io non ci fossimo più: insulti, consigli, scambi di opinioni. Cose
già dette, che sembravano andar sempre bene. Cercai furtiva lo sguardo di
Gianni, incitandolo a seguirmi. Ci ritrovammo in cucina, la porta appena
socchiusa, entrambi presi in contropiede dall’inaspettata situazione.
- Come facciamo? – mi chiese, poggiandosi al piano
da cucina con uno sbuffo indispettito.
- A fare cosa? – risposi, sciacquandomi le mani nel
lavandino.
- A liberarci di loro – ribattè
lui, con ovvietà. Girò attorno al tavolo, raggiungendomi ed abbracciandomi da
dietro. Mi sorrise, baciandomi sul collo e sussurrando piano: - Manca
mezz’ora alle quattro, Becky. Non li voglio
qui. Voglio tornare a letto con te e dormire almeno tre ore prima della sveglia
–
Lo lasciai fare, godendo di quella stretta forte e
confortevole.
- Mancano quasi quattro ore alla sveglia, Gianni –
risposi, decisa a contrastarlo.
- Non ho detto che raggiunto il letto ho subito intenzione
di addormentarmi – bisbigliò, malizioso.
Sentii il solito rossore che mi infiammava le guancie e lo
accolsi quasi con sollievo.
- Li facciamo sloggiare allora? – chiese, convinto
di aver vinto la partita. Io negai con il capo, scostandomi per asciugarmi le
mani con uno strofinaccio.
- Non essere egoista – lo
ripresi, il rimprovero nella voce.
- Non sono egoista – rispose lui, mettendo su il
broncio – Sono loro che rompono i… -
Lo bloccai, girandomi e poggiandogli un dito sulle labbra.
Sorridendo, scossi la testa per richiamarlo.
- Non alzare la voce – sussurrai, - E non dire cose
del genere. Sono nostri amici, è nostro dovere -
Lui sospirò, alzando gli occhi al cielo.
- Fa tanto: “ Da grandi poteri derivano grandi
responsabilità” – disse, citando come al solito un film.
- E’ così – risposi, prendendolo per mano
– E ora torniamo di là, dove farai il bravo –
Gianni mi solleticò un fianco, facendo una linguaccia
irriverente. Me lo tirai dietro, trascinandolo fino al salotto e spingendolo
sul divano accanto a Vincenzo. Non fu difficile reinserirci nella
conversazione, per niente diversa da quella che ormai temevo avrei sentito
anche in sogno. Presi posto accanto a Giorgia, avvolgendomi
le ginocchia con le braccia e, con un sospiro, mi accomodai, sprofondando nei
cuscini.
Non ascoltavo, riscuotendomi dallo stato di apatia in cui
mi nascondevo solo lo stretto necessario a non addormentarmi. Guardavo
alternativamente le due vittime affrante e mio marito, lo sguardo vitreo e
spento.
- Basta così -
Sobbalzai, spalancando di colpo gli occhi ormai quasi
completamente chiusi. Fissai Gianni, le mani fra i capelli, che sorrideva in
modo preoccupante. Gli lanciai un’occhiata ammonitrice, del tutto
ignorata.
- Così non andiamo avanti, ragazzi – disse, serio e
sarcastico al tempo stesso.
Sperai inutilmente che si fermasse, ma lui continuò,
pronto a prendere in mano la situazione.
- E’ inutile piangervi addosso ve lo assicuro
– sentenziò, mentre io lo imploravo con gli occhi di fermarsi.
Osservai le reazioni di Vincenzo e Giorgia come al
rallentatore: sembrarono stupirsi e poi incuriosirsi, pronti ad ascoltare cosa
avesse da dire per potergli quindi saltare al collo. Cercavano solo il pretesto
per sfogare la rabbia repressa e io lo sapevo, ma quell’idiota di Gianni
ne era al corrente?
- Sapete cos’è che invece dovreste fare?
Dovreste… -
Mi sfuggì un gemito, suono
indefinito che ebbe il potere di attirare la sua attenzione. Mi fissò, capendo
miracolosamente dalla mia espressione il pericolo a cui si stava avvicinando.
Tentennando continuò:
- Dovreste… ascoltare una storia – disse alla
fine, il fiato mozzo.
Le sopracciglia di tutti, comprese le mie, schizzarono
verso l’alto. Sconsolata, chiusi gli occhi. E ora?
Li riaprii piano ed un poco alla volta,
pronta a vedere la figura di Gianni che rapida, scompariva dietro
l’angolo. Invece era ancora lì, seduto sul divano, lo sguardo stranamente
calmo e deciso.
- Pronti? – chiese, il sorriso nella voce.
Strinsi gli occhi, chiedendogli in silenzio una
spiegazione. Vidi la sua mano accennare un piccolo gesto di rassicurazione, del
tipo “ So quel che faccio, tranquilla”… eppure proprio non
riuscivo a rilassarmi.
Rigida, tentai di trovare una posizione più comoda,
imitando i nostri due ospiti già pronti ad ascoltare. Sorpresi da quella rapida
inversione di marcia, non avevano contestato la decisione di Gianni.
Incontrai i suoi occhi divertiti e sorrisi, sentendomi
come una bambina. Voleva raccontare una storia?
Ben venga, l’avremmo ascoltato.
- E’ la storia di Muschio quella che voglio
raccontarvi – iniziò, ottenendo subito il silenzio più assoluto.
Merito forse dell’ora assurda, o della stanchezza
collettiva, sembrava quasi che non respirassimo neanche.
- E’ una storia vecchia, risalente alla mia
infanzia. Potevo avere… sette, otto anni al massimo. Non riguarda me,
però. Io sono stato solo uno spettatore -
Afferrai il cuscino alla mia sinistra, stringendolo al
petto. Inventava o era serio? Non riuscivo a capirlo.
- Iniziò tutto grazie a mia madre: ogni pomeriggio, mentre
in televisione davano i suoi programmi preferiti, lei sorridendo mi cacciava
dalla stanza. “ Vai a giocare, Gianni” .
Così diceva, lasciandomi via libera. Dopo i primi giorni però, non sapevo più
cosa fare e iniziai a sedermi sul balconcino esterno. Eravamo appena al primo
piano, all’altezza quindi di chi passava per la strada, così guardavo
tutti, curioso di ogni cosa -
Sentivo ormai lo sguardo appannato, ma non era per il
sonno: era un effetto della voce di Gianni. Calda, avvolgente… sembrava
ipnotizzare. Quasi volesse trasportarci nel racconto.
- Era una strada piccola, stretta, di quelle vecchio
modello, diciamo così. Larga appena qualche metro, non lasciava passare nemmeno
le macchine più piccole. C’era però un passeggiare continuo, sempre
diverso. Anche in tutta quella diversità tuttavia, riuscii a trovare dei
movimenti fissi. Una routine nascosta, visibile solo all’occhio di un
attento osservatore. La vecchia signora che tornava con la nipotina, il lattaio
che si fermava a leggere i giornali in vetrina, il fruttivendolo che dava da
mangiare al cucciolo di gatto. Dopo i primi giorni conoscevo di vista tutti
quelli che abitavano o lavoravano nella nostra stradina. Dopo poco più di una
settimana ne conoscevo anche tutte le abitudini. Una volta preso coraggio poi,
cominciai anche a salutarli, lasciando che il mio sorriso facesse il resto. In
meno di un mese infatti, chiunque passasse affianco al
mio balconcino, si fermava per scambiare due chiacchiere -
Sorrideva Gianni, lo sguardo perso. E, come sotto
incantesino, non potevamo fare a meno di sorridere anche noi. Si era fermato
per riprendere fiato, incitato subito a continuare da attenti ascoltatori.
- Fra tutti però, una persona in particolare era entrata
nelle mie grazie. Un ragazzo veramente, ventenne forse. Alto, con un enorme
casco di capelli biondi e due piccoli occhi azzurri. Passava ogni giorno per la
stradina, mi salutava con la mano e si sedeva al bar proprio dall’altro
lato della strada. Esattamente di fronte al mio balconcino. Un minuscolo bar,
con soli due tavoli all’esterno. E lui prendeva posto sempre allo stesso
tavolo: si sedeva, apriva lo zaino nero e ne estraeva i libri. Passava le ore a
leggere. Prima con i libri di scuola, poi con il libro della settimana. Un
caffè ed un cornetto. Era il mio preferito. Lui era Muschio -
Gianni represse uno sbadiglio, nascondendo dietro la mano
quello che ero certa fosse un sorriso divertito.
- Non sapevo in realtà quale fosse il nome, non me lo
aveva mai detto. Era silenzioso, il ragazzo. Dalla prima all’ultima volta
in cui lo vidi, non aveva mai detto una parola. Non una sola. Per questo lo
soprannominai Muschio. Somigliava proprio al muschio, nella mia mente di
bambino. I suoi passi lenti ed ovattati, i suoi gesti pacati, le sue labbra
serrate… mi ricordavano quei cuscinetti verdi che avevo visto nel
giardino della nonna: cuscinetti che attutivano ogni rumore, proprio come
faceva lui. Muschio. E devo dire che piaceva proprio a tutti, il giovane. Alle
ragazze in particolar modo. C’era sempre la fila per lui. Loro, le ochette urlanti, non lo chiamavano Muschio: ascoltandone
i discorsi le sentivo definirlo come il “bello e dannato”. A quel
tempo continuavo a non capirne il motivo, eppure era semplice: il fatto che
stesse sempre per conto suo, che non aprisse mai bocca, se a me appariva strano
ed insensato, ai loro occhi era qualcosa di assolutamente irresistibile.
Assurdo, vero? -
Non so se si aspettasse davvero una risposta. Ad ogni modo
non la ottenne e sorridente, continuò:
- Per i primi due mesi rimase tutto uguale, nessun
cambiamento, nessuna novità. Fu con la prima ventata di novembre che arrivò.
Lei, la nipote del fruttivendolo. Cinzia, come appresi pochi giorni dopo il suo
arrivo. Una ragazza simpaticissima, sempre allegra. Un sorriso perpetuo sulle
labbra mai ferme. Proprio non riusciva a stare zitta. Ispirava fiducia a naso e
divenne immediatamente la beniamina di tutti. Ogni pomeriggio, dopo aver
aiutato lo zio con il negozio, se ne andava a passeggio. Passava affianco a me
e mi salutava, sempre con una parolina dolce. Ne
rimasi incantato. Al punto da farle dividere il primo posto con il silenzioso
Muschio. Un’altra cosa che avevo notato e non riuscivo a spiegarmi era lo
sguardo sfuggente che si lanciavano i due ogni pomeriggio. Uno sguardo, piccolo
quasi invisibile. Eppure c’era -
Si fermò di nuovo, soltanto per assicurarsi che lo
ascoltassimo ancora. Era così e ne andò fiero.
- Nonostante Cinzia fosse così estroversa e spontanea, ci
mise una buona settimana per trovare il coraggio necessario a sedersi al tavolo
con Muschio. Prese posto con naturalezza, un enorme
sorriso in volto. Lo salutò, presentandosi con scioltezza e stringendogli la
mano. Sembrò non far nemmeno caso al fatto che lui non si fosse a sua volta
presentato. Cinzia, innocente ed affascinante, con i corti capelli rossi,
lucenti come non mai… fissò gli occhioni verdi in quelli di lui e
cominciò a parlare. Non riuscivo a sentire ogni parola, ma quasi tutte sì. Era
come un fiume in piena, continuo, inarrestabile. Parlava. Di tutto e di niente,
semplicemente parlava. Riempiva il silenzio che Muschio formava. Il silenzio
che faceva parte di Muschio.
Dopo la prima volta divenne un’abitudine: ogni
pomeriggio, dalle sei alle otto, Cinzia si sedeva con lui. E parlava, come
sempre. Gli raccontava tutto: quello che era successo la mattina, quello che
pensava, quello che avrebbe fatto la sera. Gli confidava ogni cosa, tutti i
sentimenti, le emozioni, tutto quello che le passava per la testa. Una cosa
però non gliela diceva e io me ne accorgevo –
Sorrise ancora, sprofondando con soddisfazione nel divano,
un luccichio sospetto negli occhi.
- Perché io dalla mia postazione lo vedevo, quel rossore
che le invadeva le gote. Un rosso acceso, quasi quanto quello dei capelli
lisci. Un rosso che sorgeva solo con Muschio. E per quello che potevo capire a
quel tempo, sapevo che c’era un motivo se Cinzia sopportava il silenzio
del ragazzo. Non era, come dicevano le altre ragazze, una relazione platonica
fra svitati. Non era vero che Cinzia si fermava a chiacchierare con lui perché
era come andare da uno strizzacervelli. E non era vero che lui
l’ascoltasse solo per educazione. No, erano tutte insinuazioni nate in
seno all’invidia… La verità era che Cinzia provava qualcosa per
quel ragazzo: un qualcosa che andava oltre la semplice simpatia, anche oltre
l’affetto -
- E Muschio? – chiese, sottovoce,
Giorgia.
Ci voltammo tutti verso di lei,
incontrandone lo sguardo confuso e sollevato. In imbarazzo continuò:
- Scusate, non so come mi è uscito – sussurrò,
soffocata dal disagio.
Gianni sorrise, gratificato da quella domanda involontaria
come da una premiazione inattesa. Attese qualche secondo, lasciandoci cuocere a
fuoco lento, prima di riprendere il racconto:
- Muschio… Non lo avevo mai visto così felice. Fin
dal primo momento in cui Cinzia aveva preso posto accanto a lui, Muschio
sembrava aver cambiato completamente faccia. Un sorriso, anche se appena
accennato, era sempre presente. Gli occhi, luminosi come non lo erano mai
stati, sembravano riflettere una felicità che gli nasceva direttamente nel
cuore. Ma era il viso in generale, ogni tratto, ad essere più rilassato. Come
se Cinzia fosse una cura ricostituente. Da pallido com’era, iniziò pian
piano a riprendere colore. E poi, sembrava vivere per le parole della ragazza.
Lo vedevo ogni giorno, aspettarla con ansia, consumato dall’attesa.
Quando la vedeva arrivare si alzava, scostandole la sedia per farla sedere.
Quindi l’ascoltava. Solo quello. Stava lì, a fissarla, a studiare i
movimenti delle sue labbra. Come se vivesse per quelle parole. Sorrideva,
annuiva, negava. Niente di più. Sembrava essere perfetto per loro. Sembrava che
tutto il loro benessere dipendesse da quelle poche ore che passavano
assieme… Poi, come tutto era cominciato, finì -
Questa volta, quando si fermò,
Gianni non sorrideva.
Noi trattenevamo il fiato, senza nemmeno rendercene conto.
Non potevo fare a meno di pensare che lo avesse fatto apposta, a fermarsi a
quel punto del racconto. Non c’erano altre spiegazioni plausibili. Solo
era sadico, e tanto. Si divertiva a vederci patire.
Fu Vincenzo a decidersi a parlare, finalmente, rompendo il
silenzio troppo pesante.
- Perché? – chiese, semplicemente.
La sua espressione, come il tono, erano neutri. Lo capimmo
tutti però che era davvero interessato alla storia. Lo capì anche Gianni che,
appagato, si decise a continuare.
- Devo ammettere che la colpa probabilmente fu mia. Dovete
essere indulgenti, mi raccomando, pensate che non avevo nemmeno dieci
anni… semplicemente mi scappò… Parlando con Cinzia, una volta, il
discorso improvvisamente si spostò su Muschio. Mi chiese come mai lo chiamassi
a quel modo e glielo spiegai. Le descrissi i cuscinetti verdi che tanto gli
assomigliavano e lei rise. Allora, ridendo, mi domandò se sapessi il suo vero
nome. Io risposi di no, che glielo avevo chiesto ma lui non mi aveva risposto.
Cinzia smise di sorridere, di colpo seria. Meravigliata mi chiedeva perché non
me la fossi presa con il ragazzo: era stato scortese, mi diceva, tormentandosi
le mani. Io la fermai, negando tutto con vivacità. No, le dicevo. No, si
sbagliava. Non era mai stato maleducato, mi salutava sempre. E per il nome, bè pazienza. Era pur sempre muto il ragazzo, non potevo
pretendere certo la luna -
Trasalii, in contemporanea con gli altri. Un mormorio
sorpreso si sollevò, una sola parola che aleggiava irremovibile
nell’aria: muto?
- Cinzia rimase sconvolta esattamente come voi. Mi fissò, lo sguardo vitreo, le labbra dischiuse. Scuoteva la
testa, cercando di negare quella che era una verità per lei improponibile. Non
era stupida la ragazza, eppure non lo aveva mai creduto possibile. Continuava a
pensare, o meglio a sperare con tutta se stessa, che quella di Muschio fosse
una brutta forma di timidezza. Con il tempo credeva sarebbe passata…
Cercò più volte di dire qualcosa, senza riuscirci. Solo al quinto tentativo la
sentii domandarmi, la voce tremante, perché dicevo una cosa del genere. Io mi
strinsi nelle spalle, spiegandole che quando gli avevo chiesto il suo nome, lui
mi aveva sorriso, poi si era indicato la gola e aveva fatto segno di non poter
parlare. Avevo sgranato gli occhi, chiedendogli se gli faceva male la gola, ma
lui negò, allargando le braccia. E capii: non poteva parlare, mai -
Giorgia si copriva la bocca con entrambe le mani e io mi
mordevo il labbro inferiore, solo Vincenzo riusciva a nascondere ancora quello
che la storia, ero sicura, stava facendo provare a tutti.
- Quella sera Cinzia non andò a sedersi con Muschio. Non
ne capii il motivo allora, non potevo capire. Cinzia stava cercando di
assimilare l’informazione che le avevo dato, cercava, anche lei, di
capire. Come fosse possibile che per tre settimane avesse parlato con un
sordomuto senza rendersene conto. Come fosse possibile che non avesse compreso
il motivo per cui lui le fissava sempre e solo le labbra. Come fosse possibile
che non dicesse mai una parola. Come fosse possibile e basta. Muschio quella
sera la aspettò fino alle dieci, per poi andarsene a testa bassa, colpito nel
più profondo. Il giorno dopo invece Cinzia andò da lui, lo sguardo che lanciava
saette… non si sedette, non sorrise. Lo aggredì. Coprendolo di improperi,
offesa dal suo comportamento. Perché? Perché si era comportato in quel modo?
Come aveva potuto? Muschio ascoltava, come al solito, un’espressione di
sofferenza sul volto. Cercava di fermarla, di avvicinarla, ma lei non gli
permetteva niente, nessun movimento. Così com’era arrivata, se ne andò. Lasciandolo
lì, fuori il bar, ancora in piedi. La testa bassa, gli occhi spenti. Quando se
ne andò, non so nemmeno quanto tempo dopo, fu la prima e unica volta in cui non
mi salutò -
Il silenzio che regnava sovrano venne spodestato senza
problemi.
Da che faticavamo anche solo a respirare, dopo quelle
ultime parole a stento ci trattenevamo dall’urlare.
- Cosa? Ma è pazza! – esclamò, fuori di sé,
Vincenzo.
Giorgia, sgranò gli occhi, fissandolo incredula.
- Ma che dici? – gli chiese, guardandolo minacciosa,
improvvisamente combattiva.
- Dico che è completamente suonata, questa Cinzia! –
proruppe lui, ripresosi di colpo – Non solo scema al punto da non
rendersi conto che il ragazzo è sordomuto, ma poi, dico io… come poteva
pretendere che glielo dicesse se, sottolineo di nuovo la cosa, è muto?! –
Giorgia respirava velocemente, pronta a ribattere e
cantargliene quattro.
- Punto primo: poteva dirglielo. Non solo poteva anzi,
doveva! Come ha fatto con il bambino e che diavolo! Che ci voleva? -
- E come poteva se lei non stava un
secondo zitta? – la interruppe, Vincenzo,
protendendosi verso Giorgia.
- Lei non stava zitta perché lui non si degnava di
parlare! – esclamò lei, contrita.
- Ma lui era muto! – replicò Vincenzo sdegnato.
Dopo averli ascoltati per un po’, lo sguardo mi
cadde casualmente sull’orologio a muro. Sobbalzai vedendo le cifre
ricordarmi che ormai alla sveglia mancavano meno di due ore. Allarmata lanciai
un’occhiata a Gianni che, annuendo, li interruppe con diplomazia:
- Volete sapere come va a finire la storia o no? –
chiese, retorico.
I due si zittirono all’istante, tornando ai loro
posti originari, gli occhi ancora in fiamme.
- Continua – mormorarono,
scuri in volto.
- Posso anche smetterla e cacciarvi di casa, eh? A voi la
scelta – scherzò lui, allargando le braccia.
Ricevette in risposta soltanto occhiate di fuoco.
Sorridendo perciò, l’espressione di un bambino che ha in mente una
marachella, continuò da dove si era interrotto:
- Passarono nove giorni. Nove giorni in cui Muschio non si
presentò più al bar. Cinzia c’era sempre: passeggiava, salutandomi senza
il solito sorriso. Un sorriso scomparso che sembrava non sarebbe più tornato.
Nove giorni in cui la stradina non sembrava più la stessa. Più buia, ecco
com’era. Coperta da un manto di tristezza, nascosta da una nebbia di
sofferenza… successe tutto il decimo giorno. Il pomeriggio del decimo
giorno, per la precisione. Pioveva, quasi il cielo avesse capito il dolore che
ci avvolgeva e avesse deciso di piangere con noi. Pioveva, tanto. Muschio
arrivò, a passo felpato come suo solito, il capo coperto dal cappuccio. Si
fermò sotto il mio balconcino, estraendo un album bianco dalla tasca interna
della giacca. Con un pennarello si affrettò a scriverci qualcosa e a
mostrarmelo: “Ciao” , aveva
scritto. Io sgranai gli occhi, sorridendogli e salutandolo a mia volta. Lui mi
sorrise appena, raggiungendo il bar in pochi passi. Si fermò sotto la piccola
tettoia, in piedi, a mala pena riparato dalla pioggia. Sapevo chi aspettava. La
aspettai con lui. Arrivò una ventina di minuti dopo, coperta da un enorme
ombrello rosso. Si fermò poco distante da me, lo sguardo fisso sul ragazzo.
Rimasero così, immobili, gli sguardi incatenati, per un tempo indefinito. Poi
lui le mostrò il foglio che aveva fatto vedere anche a me. Ciao. Lei non
reagì, ancora pietrificata. Muschio allora cambiò foglio scrivendo
qualcos’altro. Io lo lessi assieme a Cinzia. Scusa. A quella
parola Cinzia si irrigidì ancor di più, le nocche bianche tanto stringevano il
manico dell’ombrello. Muschio smise di sorridere, lo sguardo basso, e
scrisse qualcos’altro. La pioggia era diminuita un po’, lasciando
così che il silenzio cominciasse la sua lotta con il rumore dell’acqua
che cadeva attorno a noi. Lessi di nuovo il foglio, trattenendo il respiro. Perdonami,
ti prego. Anche questa volta Cinzia non reagì, o almeno non lo fece subito.
Muschio aveva già preso a scrivere su di un nuovo foglio quando lei lasciò
andare di colpo l’ombrello. Volò via,
l’ombrello, mentre lei volava verso il ragazzo. Lo raggiunse, prendendolo
di sorpresa. Muschio lasciò cadere l’album, guardandola con occhi di
nuovo vivi. Rimasero così, a pochi millimetri di distanza, le labbra che si
sfioravano, i respiri che si confondevano… i secondi sembravano diventare
eterni, solo per loro. La pioggia smise, pian piano e un pallido raggio di sole
bucò le nuvole. Fu quasi in contemporanea con l’apparire della luce che
si baciarono… Un bacio che era tutto -
Nessuno questa volta si sognò di aprire bocca.
Rimanemmo quieti, gli occhi socchiusi, quel bacio nella
mente. Pensavamo a loro: a Muschio e a Cinzia.
- Avete capito il senso della storia? – chiese
Gianni, riportandoci brutalmente alla realtà.
La domanda era rivolta agli ospiti, gli stessi che
negarono con il capo, gli occhi lucidi.
Gianni sospirò, scuotendo la testa.
- Muschio e Cinzia sono diversi – disse, con ovvietà
– Sono come il nord e il sud, il giorno e la notte. Uno chiuso e schivo,
l’altre spontanea ed estroversa. Lui cupo e mogio, lei solare e
vulcanica. Lei instancabile chiacchierona, lui sordomuto -
Ancora una volta, pendevamo dalle sue labbra. Lui alzò gli
occhi al cielo, stanco di non essere capito.
- Il vostro “ Non siamo fatti l’uno per
l’altra” sarebbe stato perfetto per loro, no? Loro per davvero non
avevano niente in comune, o sbaglio? Eppure… eppure ci sono riusciti, a
superare tutto, a pensare solo a loro stessi, a seguire una volta tanto quello
che diceva il cuore. Ci sono riusciti, a trovare un punto in comune, un
qualcosa che li unisse. Cosa? -
Vincenzo e Giorgia si guardarono, lasciando che Gianni
continuasse senza interromperlo.
- Un bacio, ragazzi. Un bacio – sospirò, - Da un
bacio può partire tutto. E’ un punto di inizio, un qualcosa a cui
appoggiarsi, un qualcosa che unisce. Una cosa che appartiene solo a due
persone. Per quante cose diverse si possano avere,
quel bacio aggiusta tutto. Anche se momentaneamente… un bacio è sempre un
bacio. Se due persone come loro, due così diversi, ce l’hanno
fatta… voi credete di essere da meno? -
Il silenzio si rimpossessò della stanza, avvolgendo tutti
come un morbido velo.
Per dieci minuti nessuno disse niente, gli sguardi bassi,
occhi che non si incontravano. Allo scoccare delle cinque si alzarono in
contemporanea, Vincenzo e Giorgia. Si alzarono, le
espressioni imbarazzate.
Spostando il peso da un piede all’altro ci
salutarono, scusandosi per il disturbo, cercando di accomiatarsi nel modo più
appropriato. Si incamminarono verso la porta, scusandosi ancora, e si chiusero
la porta alle spalle, ancora con una parola di scuse. Io cercai gli occhi di
Gianni, trovandoli stanchi e divertiti.
Si alzò anche lui, porgendomi una mano.
La afferrai di slancio, lasciando che mi tirasse in piedi.
Lo seguii in cucina, i pensieri che si rincorrevano senza riuscire a prendersi.
Mi prese per mano, scostando piano la tenda dalla finestra. Imitandolo mi
sporsi, guardando al di là del vetro, verso il basso, verso il parcheggio.
C’erano due persone, un uomo e una donna,
abbracciati contro una macchina. Si baciavano, incuranti del resto. Sembrava
non sentissero il freddo, né qualunque altra cosa. Come se esistessero solo
loro. E un bacio.
- La passione della disperazione? – mi chiese
Gianni, lasciando ricadere la tenda e restituendo loro un po’
d’intimità. A passi silenziosi si avviò verso la camera da letto, il
sorriso sulle labbra.
- Secondo me lo desideravano da quando hai cominciato a
parlare del bacio – dissi, ricordando le loro espressioni e gli sguardi
focosi ed elettrizzati che si erano lanciati i nostri ospiti notturni.
Gianni ridacchiò, sdraiandosi sul letto:
- Potevano dirlo – mormorò, - Gli avremmo offerto la
camera degli ospiti -
Gli sorrisi, inclinando la testa ed appoggiandomi allo
stipite.
- Muschio… - sussurrai – Esiste o lo hai
inventato? -
- Vuoi davvero saperlo? – ribattè
lui, invitandomi a raggiungerlo sul letto. Io tentennai, ripensando al
racconto, a quel ragazzo e al suo album, a Cinzia e alla sua parlantina.
Al loro bacio.
E poi guardai le labbra di Gianni, atteggiate in un timido
sorriso. Labbra che avevo sempre baciato, che conoscevo meglio di me stessa.
Labbra che in quel momento desideravo più di ogni altra cosa.
Scossi la testa, gettandomi fra le sue braccia ed
affondando il viso nell’incavo del suo collo. Respirai il suo profumo e
scossi la testa. No, non volevo davvero saperlo.
Non mi interessava.
Mi aveva appena raccontato la mia nuova favola preferita.
Quella di Muschio.
La storia di un bacio.
*
So che non è granché.
So che è banale, sciatta anche.... ma devo anche ammettere
che è la mia favola personale **
Fatemi sapere se ha lasciato qualcosa anche a voi ^^
Sara