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Autore: Beliar    11/12/2010    1 recensioni
Juliet e Adrianne, allieve dell'undicesimo livello. Frequentano l'Istituto di Las Vegas, odiano Chelsea, la cheerleader più spietata dell'Universo. Juliet non sopporta la combriccola di "quel Radke", persone molto egocentriche che si credono bellissime e le migliori in tutto.
I problemi inizieranno quando Juliet e Adrianne dimenticheranno la lezione più importante: non tutte le persone sono buone.
Autrice: Beesp
Genere: Drammatico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Max Green , Nuovo personaggio, Ronnie Radke
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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» Breve riassunto sullo scorso capitolo

Irma, Marta, Adrianne e Juliet hanno trascorso il Lunedì sera a festeggiare per i buoni voti del compito su Shakespeare del Venerdì. Si sono addormentate tardi, e si sono svegliate troppo presto, a caso dell’errore di Marta nell’impostare la sveglia. Compare, nel capitolo, per la prima volta la figura più delineata di Bob, il fidanzato di Marta e una breve descrizione del loro rapporto amoroso simbiotico.
Fino al Giovedì il Nevada è ricoperto da nubi che promettono pioggia e un’aria che si raffredda. Maxwell, nel frattempo, ha deciso di continuare a non parlare a Ronald e preferisce trascorrere la sua settimana con Katerina che definisce come un’“amica” ma è evidente che voglia intrattenere un flirt con lei. Katerina parla molto, e questo urta parecchio Maxwell, che nel frattempo si accorge del cattivo umore di Ronald.
Ronald, dal canto suo, si sente frustrato perché non sa la causa del comportamento di Maxwell. (In questo capitolo che segue vedremo come la sua reazione si modificherà da tristezza a qualcos’altro). Dialoga con le amiche di sempre, le cugine Claire e Christine, che vorrebbero far del male a chiunque abbia ridotto in quello stato Ronald.
Chiunque, a scuola, si accorge dello stato di Ronald e della lontananza da Maxwell.
Il Giovedì le famiglie si svegliano, senza alcuna sorpresa, con una pioggia fitta. Juliet, già di cattivo umore a causa di un incubo – un flash di occhi marroni che la tormenta da qualche giorno – si copre di abiti e si sente il mondo contro.








Capitolo 4° – “Un paio di bottiglie di rum”
Word Count: 2706 parole.


Per gli abitanti di Las Vegas quei tre giorni di pioggia continua e fitta furono un vero grattacapo, una tragedia. I ragazzi erano depressi, per lo più si trascinavano da un lato all’altro della città, con espressioni mogie e lanciando occhiatacce così spesso ai vetri delle finestre che presto si sarebbero consumati. I bambini avevano un umore ancor peggiore, era tassativamente proibito loro di metter piede fuori casa, ma almeno non avevano un carico di compiti disumano, come invece succedeva agli studenti della Middle School in su, con la catasta di lavoro che aumentava salendo di grado in grado. Quelli dell’High School avrebbero potuto anche incontrarsi con i loro coetanei, c’erano i temerari che indossavano gli impermeabile, uscivano insieme per una bibita in compagnia, i più usavano il telefono stravaccandosi sui comodi letti, sfibrati dall’inizio dell’autunno. Presto, però, si sarebbero rinvigoriti e il corso naturale della vita della città sarebbe ripreso. Il parco giochi, nel frattempo, era sempre inondato di pozzanghere, nemmeno le coppiette potevano più rifugiarvisi; questo per Marta fu anche peggio di tutto il resto. Era lì che aveva parlato per la prima volta con Bob. Le loro ore le trascorrevano in gran parte su una delle panchine consumate, con i bordi di pietra smussati, e un centinaio di scritte quasi illeggibili – ma indelebili, ormai. Il rapporto che condividevano era tra i più particolari che il gruppetto d’amiche avesse mai visto: per entrambi era il primo, proprio per questo era sconvolgente quanto fosse stato semplice sin da principio, come i loro corpi avessero reagito in modo simile a quell’attrazione, il sistema straordinario d’intendersi con gli sguardi. Si trattava di appena cinque mesi, Irma e Juliet erano certe che non fosse una semplice storiella d’adolescenti. Non l’avrebbero mai confessato a Marta, piena di idee sul futuro e Bob, instupidita com’era. Ma stavano a guardare, mentre macinavano giorni.
Furono costrette a subire settantadue ore di lagna, inframezzate da sbaciucchiamenti di fronte ai loro occhi disgustati. Il tutto s’interruppe di botto la Domenica mattina: spuntò un incerto Sole tra la cortina di nuvole e il cielo, per quanto ben lontano dall’azzurro mite estivo, si acquietò, liberando giovani, anziani, bambini, piccioncini e alleviando la fatica delle massaie. Juliet si dedicò ad aiutare al “Capulet”, e per lo più a non far nulla se non rimuginare su quel fastidioso sogno che la tormentava dal Mercoledì notte e che non voleva sentir ragioni, sembrava proprio rifiutarsi di sparire, quasi per ripicca a un torto che doveva aver fatto al mondo del suo subconscio.
« Che mal di testa ». Sbuffò la sera, a telefono con Adrianne.
« Io invece mi sento riposata. Questo è il silenzio assente di lamenti di Marta… ».
« Vero ». Ridacchiò Juliet. « È stato proprio un bene che quei temporali abbiano smesso di tormentarci ».
« Per quanto mi riguarda, m’infastidiva di più la nostra cara, cara amica ».

C’era qualcun altro che per una volta soltanto aveva modificato le abitudini del Sabato. Ronald Radke con la solita disperazione nello sguardo aveva infilato una giacca e si era lasciato guidare dal ben noto percorso verso il Cimitero, incosciente della propria stessa presenza, infastidito da qualsiasi rumore non fosse il ticchettio più leggero del diluvio, ormai agli sgoccioli, o il frusciare delle foglie degli alberi, mosse dal vento impetuoso.
A qualche metro dalla casa di Maxwell trovò l’amico avvinghiato a Katerina, come aveva immaginato che sarebbe successo; avevano impiegato anche più dei suoi calcoli. Non osò interromperlo per salutarlo, non desiderando infastidirlo e soprattutto per non essere lui a troncare quella taciturna pausa di rancore, a cui non aveva dato inizio.
Quindi passò oltre i due abbracciati, che non diedero segno d’essersi accorti della sua presenza minimamente, avvicinandosi, metro dopo metro, ai giardini del parco. Le lapidi immobili, le sculture eleganti, la pioggia che vi batteva contro, i capelli fradici che gli ostacolavano – solo un poco – la vista. Rivolse i palmi delle mani verso l’alto, a coppa; si riempirono in due minuti d’acqua, abbastanza da poter dissetare. Le gambe cedettero a metà strada tra la tomba di Sarah Notch e quella di sua madre, come d’abitudine. La fanghiglia di terreno si impastò con il tessuto dei pantaloni…
In svariate situazioni lui stesso aveva ipotizzato che abbandonarsi a quella sofferenza, arginata in un angolo oscuro dell’anima al di fuori del Cimitero, fosse un buon modo di divertirsi. Non che fosse esattamente piacevole, ma doveva trovarlo appropriato ai propri desideri per lasciarsi prendere da quella routine e non permettere a nessuno di invadere quei momenti così intimi – indicatori di un probabile disturbo ben più radicato di due semplici shock. Con sé non aveva nessuna bottiglia d’alcol, deciso a concedersi quel piacere in un secondo momento. Il sole era quasi tramontato, lui era ebbro di un paio di spinelli, solo in un luogo che non gli incuteva timore da troppi anni perché il terrore lo sconvolgesse proprio allora.
La ragione delle bugie a Maxwell era sempre parte del suo bisogno di privacy spasmodico: non avrebbe compreso, d’altronde. Conosceva due versioni del racconto, come ce n’erano tutti i giorni sui quotidiani; una vittima di una carneficina, complice in un certo qual modo, era suo amico, e qui si fermava la sua coscienza. Non andava oltre, non avendo affrontato mai situazioni simili. Indi per cui era meglio che non cercasse di renderlo parte di qualcosa di complesso per la sua mente; quel pensiero, nei momenti di infida lucidità, gli appariva del tutto crudele e insensato: condivideva ben di più di tale misera, si trattava di sassolini nelle scarpe – fastidio perfino da nascondere. Ma sbagliava. Sicuramente, si diceva, anche Max aveva i suoi sporchi segreti.
Dopo un paio di preghiere e di resoconti, volenteroso di ritornare alla confusione mentale, dispose dei fiori nei due vasi, togliendo quelli vecchi e gettandoli nel cestino non lontano. Un’ultima occhiata d’affetto alle pietre, il ricordo del volto di Sarah e della lettera da parte della madre, per poi incamminarsi verso il pub di suo cugino John, che non gli negava mai una bella bevuta in sua compagnia.
Il locale si trovava, a differenza del nucleo di edifici della città vera e propria, a pochi metri dalle strutture degli alberghi dei casinò, dei teatri, e del Multisala della Las Vegas d’azzardo. Era un buco di venti metri quadrati, odoroso di detersivo per i pavimenti, vomito e sigari. Nell’angolo più lontano un tavolo da biliardo a cui c’erano sempre i tre uomini di mezza età che si intrattenevano, “stanchi di trovarsi di fronte i volti delle loro mogli”. Nei paraggi un’accozzaglia di dubbi individui ghignanti, i più anziani avventori assieme ai meno raccomandabili, impegnati con sporche partite di poker, le quali raramente non si concludevano con una rissa sul retro. Al bancone c’erano così spesso delle persone che avevano perso tutto – o quasi – alle slot machine che Ronald aveva fatto il callo alle espressioni disperate. Come avrebbero spiegato la perdita di denaro improvvisa? Cosa avrebbero raccontato alla propria moglie, amante, fidanzata o figli che fossero? Era sempre il simile bofonchiare, il mandare giù uno dei più economici tra i liquori e pagare i costi bassi con cui John permetteva a tutti di saldare i conti.
C’era un solo lampadario nella stanza, qualche mosca vi volava attorno, e un numero spropositato di moscerini erano intrappolati, stecchiti, dietro il vetro, scottati dalla lampadina dalla luce calda. Un paio di faretti al muro illuminavano le mensole degli alcolici e le rare zone buie. Il “Night Lite” aveva ben poco da essere oscuro, minuscolo com’era. A stento era rimasto, nella costruzione, lo spazio per il bagno che uomini e donne condividevano: un paio di gabinetti da muro e due riparati dalle porte di legno. Un lavandino e uno specchio rotto in alcuni punti.
Aveva tutti i presupposti, quindi, per essere sudicio. E invece era lindo, il cavillo che l’aveva salvato dalla chiusura certa. Non era visibile – neanche con una lente d’ingrandimento – neanche il minimo granello di polvere.
Ronald prese posto su uno sgabello, poggiando un piede sul parquet e l’altro sulla gamba del sedile. « C’è tempo per un cugino scansafatiche? ». Quasi urlò senza sapere bene dove rivolgere la propria voce, sospettandosi che John fosse nella toilette a pulire qualche impronta di scarpa.
« Arrivo subito, Ron ». Strepitò lui in risposta, prima di comparire come l’altro aveva immaginato dietro la porta del W.C. Era un po’ scombussolato, i capelli spettinati e il volto tirato, come sempre quando l’orario di chiusura delle quattro e mezzo si avvicinava. « Come va? ». Si scambiarono un saluto pugno-contro-pugno. John si avvicinò alla radio che possedeva, e da quella si diffuse una tenue musica lenta, perfettamente appropriata all’atmosfera deprimente.
« Fantastico, fantastico. Tu? ».
« Papà ed io siamo un po’ in crisi – sussurrò – sai com’è, non va proprio bene il “Night Lite”. Il “Capulet” in città… una tragedia, è sempre pieno ».
« L’ho notato ». Borbottò, lugubre, mentre cercava di associare un volto alla sua compagna di corsi, nonché prole dei proprietari, Juliet. Ma proprio non immaginava chi potesse essere.
« Il trentun ottobre e il tredici novembre offrono la torta gratis. Compleanno della figlia e della sua migliore amica ».
« Non si può far niente? »
« A parte sperare di riuscire a rimodernare l’ambiente, di attirare clienti e decidersi a renderlo un posto di classe? ».
« Viva le missioni impossibili ». Scherzò Ronald, provocando un paio di risatine al cugino.
« Allora, cosa ti porto? …Offre la casa perché fai sorridere il proprietario ».
« Se vuoi risollevare la sorte della casa, ti converrebbe farmi pagare ogni tanto, a cominciare da stasera ».
« Non esiste, fai parte della mia famiglia ».
« Invece sarà come dico io, John ». Fu talmente solenne che l’altro non osò obbiettare, portandogli, tanto per cominciare, un paio di bicchieri di whisky.
Dall’ingresso secondario, in quell’istante, comparse una testa inconfondibilmente femminile, che con una voce bassa ma sicura ordinò due bottiglie di limoncello.
« Hai gli anni per bere? ». Le chiese, adombrato, John. « Altrimenti- ».
« Senti, » sbottò, infastidita, e il volume aumentò decisamente troppo, infuocando le guance. « quello lì – e indicò Ronald – non ce l’ha. Io starò zitta e tu farai altrettanto. D’accordo? In questo modo andremo d’accordo, te lo assicuro, e ti farò visita spesso. Quanto ti devo? ».
Il titolare le sorrise, affabile, e afferrò la banconota da venti dollari della ragazza. « Con piacere ».
Ronald non dubitò neanche un istante della sua identità: Chelsea Clark, considerata la più bella ragazza della scuola che ogni anno, puntualmente, sbatteva in modo civettuolo le sue lunghe ciglia al suo indirizzo.
Infilò i due fiaschi in una borsa di denim scuro capiente, fuggendo all’esterno. Sembrava non aver avuto tempo per degnare della sua attenzione Ronald, lo fece sorridere non poco quel comportamento, immaginando che fosse in incognito lì e che se qualcun altro l’avesse vista avrebbe per lo meno rischiato qualche minaccia e annesse un paio di denunce.
« Un po’ matta la tipa, eh? ».
« Frequenta la mia scuola ». Quell’affermazione, secondo Ron, avrebbe dovuto spiegare ogni atteggiamento fuori dal normale. Scrollò le spalle e ritornò ad impicciarsi dei suoi affari.

Chelsea, all’aria aperta, prese una grossa boccata d’ossigeno. Non gliene andava bene una quel Sabato. Prima aveva intravisto Deborah agghindata a spia segreta, con occhiali da sole enormi e un foulard avvolto intorno alla testa, sistemata davanti al supermercato dove avrebbe dovuto acquistare i suoi liquori preferiti. Non avrebbe mai permesso alla pettegola di scoprire i suoi passatempi nel week-end. In fretta aveva dovuto trovare un altro luogo dove non avrebbero fatto storie alla richiesta illecita di una sedicenne: c’era soltanto il “Night Lite”.
Come se non bastasse, piazzato lì Ronald Radke. Aveva finto di non riconoscerlo all’inizio, ma quando il barista l’aveva attaccata si era vista costretta a proteggersi con le poche armi rimastele: il ragazzo.
Già di per sé incontrarlo la innervosiva, immaginarsi in una situazione talmente delicata.
Evitò di ripensarci ancora una volta, con il volto stampato in testa (così meno freddo del normale) di Ronnie, dirigendosi verso casa, dove avrebbe trovato sua sorella minore Mary, e avrebbero brindato al disastro di quegli anni che presto sarebbe stato cancellato.

La particolarità di Chelsea Clark si trovava non tanto nella sua famiglia, una delle più economicamente agiate della città, quanto nella differenza che la distingueva da qualsiasi altra ragazza della sua scuola. Il mostrare una parte di sé che, nel suo animo, non riscontrava nessuna similitudine. E cioè a tutti gli studenti dell’High School di Las Vegas pareva semplicemente una bellissima cheerleader che aveva la fortuna di poter comprare ottimi voti, mentre invece Chelsea studiava e s’impegnava a scuola per meritare dei risultati che le avrebbero aperto, assieme a qualche raccomandazione indispensabile, le porte delle migliori Università del paese dove avrebbe studiato per diventare ciò che sin da tenera età voleva essere: una psicologa.
Dall’anno precedente aveva cominciato a sfogliare volumi riguardanti la materia, appassionandosi più di quanto già non fosse – con sua somma meraviglia, dato che credeva che non sarebbe mai accaduto, ossessionata com’era – ed aumentando la sua cultura in proposito notevolmente. Sua sorella Mary, che adorava definire “un piccolo genio”, si trovava soltanto al decimo grado e già avrebbe potuto affrontare un test d’ammissione per Medicina senza commettere troppi errori. Non si trattava di un’enorme capacità deduttiva né di una logica fuori dal comune, quanto di una memoria formidabile, in grado di citare dopo soltanto una lettura – e anche affrettata – interi paragrafi di libri.
La collezione delle Clark era invidiabile, ordinata per argomento, autore e data di pubblicazione; avevano riempito ben tre librerie, ed erano in procinto di inserirne un’altra nella loro camera che condividevano. Senza contare che potevano consultare quella gigantesca dei due coniugi Clark, una più che esperta cardiochirurga e un neurologo che godeva d’ottima fama. Facevano parte di una famiglia affettuosa, attenta al Sociale, si dedicavano al volontariato, alle associazioni benefiche; la Domenica, quand’erano bambine, c’era sempre un pic-nic nel parco, a Las Vegas o lontano da lì. Non c’era ricorrenza o anniversario in cui i due non trovassero del tempo per stare insieme, il loro matrimonio era a dir poco perfetto. La loro prole ancor di più.
D’altronde nemmeno Mary o Chelsea comprendevano quale fosse il motivo di tale infelicità e insoddisfazione; possedevano quello che ogni adolescente vorrebbe: ricchezza, genitori fantastici e di cui essere orgogliosi, un futuro brillante. Eppure, al Sabato sera si fuggiva ubriacandosi, una malinconia doppiamente cupa, trattenuta durante il resto dei giorni della settimana. Il signore e la signora Clark permettevano alle due di darsi alla pazza gioia come meglio credevano, escludendo l’invito di più di un paio di amiche, l’uso di droghe o alcol, e qualsiasi attività che avrebbe potuto richiamare l’attenzione della polizia. Prendevano i loro borsoni e guidavano fino alla casa sul mare, non troppo lontana, dove sarebbero rimasti fino alla Domenica sera. Le due, trucco squagliato, guance rigate da lacrime, mal di testa da svenire, avrebbero aperto gli occhi con una luce accecante, preparandosi a ripartire con lo scorrere lento della loro esistenza.
Il week-end era un rifugio sicuro in cui manifestare le proprie paure ed insicurezze; nascondersi dalle amicizie impietose ed i nemici in gran numero.
« Ho visto Ronald Radke ». Commentò con una smorfia, mentre Mary apriva la borsa e controllava il suo contenuto. « è stato terribile ».
« Immagino ». Rispose semplicemente per non darle agio di lamentarsi del ragazzo che lei adorava definire “l’energumeno”. Tale doveva essere per attirare l’attenzione di un gran numero di ragazze. Mary si era rifiutata categoricamente di anche solo guardarlo in faccia da quando frequentava l’istituto della sorella; viveva già abbastanza difficoltà senza contare l’odio che senz’ombra di dubbi avrebbe scaturito in lei tale essere deficiente. “con l’accezione di “deficere”: mancare di”. « Cosa facciamo? ».
« Deborah era davanti il supermercato vestita a mo’ di spia ed io sono dovuta andare da “Night Lite” ».
« DA “NIGHT LITE”?! ».
« … ed ecco che compare la mia dannazione! Credo proprio che mi abbia riconosciuta ».
« Da “Night Lite”? ».
« Cosa vuoi, Mary? ».
« Era proprio necessario andare da “Night Lite”? Non mi piace. Non dovevi andarci ».
« Sì che dovevo, invece – si riscosse; era lei la maggiore, non Mary – e continueremo a fornirci lì di alcolici ».
L’altra, apparentemente frustrata, scrollò le spalle e guardò altrove: « Fa’ come ti pare, ti ho avvisata ».














» Risposte ai commenti

AnzuRevenge: In realtà mi dispiacerebbe più perdere commenti; sono sempre qualcosa di meraviglioso, molto più delle storie tra i “preferite”, tra le “ricordate” e le “seguite”. Però non posso obbligarti a commentare, ovviamente, e se non te la senti non fa nulla. Mi fido di te e anche se non fosse così, leggi comunque qualsiasi storia sugli ETF, quindi comunque penso che leggeresti la mia, anche se non ti piacesse. Dunque, grazie di aver commentato fin ora e grazie se continuerai a leggere. Grazie di cuore.
Hysteria_Autumn: Grazie, sei gentilissima, e con questi commenti aumentate la mia autostima, diventerò un pallone gonfiato. E va be XD I collegamenti dovrebbero essere più avanti. Credo. Sempre che la storia non cambi trama nel corso della stesura. Spero che questo capitolo ti sia piaciuto.
Grazie a tutti.

  
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