» Breve riassunto sullo scorso capitolo
Irma,
Marta, Adrianne e Juliet hanno trascorso il Lunedì sera a
festeggiare per i buoni voti del compito su Shakespeare del Venerdì.
Si sono addormentate tardi, e si sono svegliate troppo presto, a caso
dell’errore di Marta nell’impostare
la sveglia. Compare, nel capitolo, per la prima volta la figura più
delineata di Bob, il fidanzato di Marta e una breve descrizione del
loro rapporto amoroso simbiotico.
Fino
al Giovedì il Nevada è ricoperto da nubi che promettono
pioggia e un’aria che si raffredda. Maxwell, nel frattempo, ha
deciso di continuare a non parlare a Ronald e preferisce trascorrere
la sua settimana con Katerina che definisce come un’“amica”
ma è evidente che voglia intrattenere un flirt con lei.
Katerina parla molto, e questo urta parecchio Maxwell, che nel
frattempo si accorge del cattivo umore di Ronald.
Ronald,
dal canto suo, si sente frustrato perché non sa la causa del
comportamento di Maxwell. (In questo capitolo che segue vedremo come
la sua reazione si modificherà da tristezza a qualcos’altro).
Dialoga con le amiche di sempre, le cugine Claire e Christine, che
vorrebbero far del male a chiunque abbia ridotto in quello stato
Ronald.
Chiunque,
a scuola, si accorge dello stato di Ronald e della lontananza da
Maxwell.
Il
Giovedì le famiglie si svegliano, senza alcuna sorpresa, con
una pioggia fitta. Juliet, già di cattivo umore a causa di un
incubo – un flash di occhi marroni che la tormenta da qualche
giorno – si copre di abiti e si sente il mondo contro.
Capitolo
4° – “Un paio di bottiglie di rum”
Word
Count: 2’706 parole.
Per
gli abitanti di Las Vegas quei tre giorni di pioggia continua e fitta
furono un vero grattacapo, una tragedia. I ragazzi erano depressi,
per lo più si trascinavano da un lato all’altro della
città, con espressioni mogie e lanciando occhiatacce così
spesso ai vetri delle finestre che presto si sarebbero consumati. I
bambini avevano un umore ancor peggiore, era tassativamente proibito
loro di metter piede fuori casa, ma almeno non avevano un carico di
compiti disumano, come invece succedeva agli studenti della Middle
School in su, con la catasta di lavoro che aumentava salendo di grado
in grado. Quelli dell’High School avrebbero potuto anche
incontrarsi con i loro coetanei, c’erano i temerari che
indossavano gli impermeabile, uscivano insieme per una bibita in
compagnia, i più usavano il telefono stravaccandosi sui comodi
letti, sfibrati dall’inizio dell’autunno. Presto, però,
si sarebbero rinvigoriti e il corso naturale della vita della città
sarebbe ripreso. Il parco giochi, nel frattempo, era sempre inondato
di pozzanghere, nemmeno le coppiette potevano più
rifugiarvisi; questo per Marta fu anche peggio di tutto il resto. Era
lì che aveva parlato per la prima volta con Bob. Le loro ore
le trascorrevano in gran parte su una delle panchine consumate, con i
bordi di pietra smussati, e un centinaio di scritte quasi illeggibili
– ma indelebili, ormai. Il rapporto che condividevano era tra i
più particolari che il gruppetto d’amiche avesse mai
visto: per entrambi era il primo, proprio per questo era sconvolgente
quanto fosse stato semplice sin da principio, come i loro corpi
avessero reagito in modo simile a quell’attrazione, il sistema
straordinario d’intendersi con gli sguardi. Si trattava di
appena cinque mesi, Irma e Juliet erano certe che non fosse una
semplice storiella d’adolescenti. Non l’avrebbero mai
confessato a Marta, piena di idee sul futuro e Bob, instupidita
com’era. Ma stavano a guardare, mentre macinavano giorni.
Furono
costrette a subire settantadue ore di lagna, inframezzate da
sbaciucchiamenti di fronte ai loro occhi disgustati. Il tutto
s’interruppe di botto la Domenica mattina: spuntò un
incerto Sole tra la cortina di nuvole e il cielo, per quanto ben
lontano dall’azzurro mite estivo, si acquietò, liberando
giovani, anziani, bambini, piccioncini e alleviando la fatica delle
massaie. Juliet si dedicò ad aiutare al “Capulet”,
e per lo più a non far nulla se non rimuginare su quel
fastidioso sogno che la tormentava dal Mercoledì notte e che
non voleva sentir ragioni, sembrava proprio rifiutarsi di sparire,
quasi per ripicca a un torto che doveva aver fatto al mondo del suo
subconscio.
«
Che mal di testa ». Sbuffò la sera, a telefono con
Adrianne.
«
Io invece mi sento riposata. Questo è il silenzio assente di
lamenti di Marta… ».
«
Vero ». Ridacchiò Juliet. « È stato proprio
un bene che quei temporali abbiano smesso di tormentarci ».
«
Per quanto mi riguarda, m’infastidiva di più la nostra
cara, cara amica ».
C’era
qualcun altro che per una volta soltanto aveva modificato le
abitudini del Sabato. Ronald Radke con la solita disperazione nello
sguardo aveva infilato una giacca e si era lasciato guidare dal ben
noto percorso verso il Cimitero, incosciente della propria stessa
presenza, infastidito da qualsiasi rumore non fosse il ticchettio più
leggero del diluvio, ormai agli sgoccioli, o il frusciare delle
foglie degli alberi, mosse dal vento impetuoso.
A
qualche metro dalla casa di Maxwell trovò l’amico
avvinghiato a Katerina, come aveva immaginato che sarebbe successo;
avevano impiegato anche più dei suoi calcoli. Non osò
interromperlo per salutarlo, non desiderando infastidirlo e
soprattutto per non essere lui a troncare quella taciturna pausa di
rancore, a cui non aveva dato inizio.
Quindi
passò oltre i due abbracciati, che non diedero segno d’essersi
accorti della sua presenza minimamente, avvicinandosi, metro dopo
metro, ai giardini del parco. Le lapidi immobili, le sculture
eleganti, la pioggia che vi batteva contro, i capelli fradici che gli
ostacolavano – solo un poco – la vista. Rivolse i palmi
delle mani verso l’alto, a coppa; si riempirono in due minuti
d’acqua, abbastanza da poter dissetare. Le gambe cedettero a
metà strada tra la tomba di Sarah Notch e quella di sua madre,
come d’abitudine. La fanghiglia di terreno si impastò
con il tessuto dei pantaloni…
In
svariate situazioni lui stesso aveva ipotizzato che abbandonarsi a
quella sofferenza, arginata in un angolo oscuro dell’anima al
di fuori del Cimitero, fosse un buon modo di divertirsi. Non che
fosse esattamente piacevole, ma doveva trovarlo appropriato ai propri
desideri per lasciarsi prendere da quella routine e non permettere a
nessuno di invadere quei momenti così intimi –
indicatori di un probabile disturbo ben più radicato di due
semplici shock. Con sé non aveva nessuna bottiglia d’alcol,
deciso a concedersi quel piacere in un secondo momento. Il sole era
quasi tramontato, lui era ebbro di un paio di spinelli, solo in un
luogo che non gli incuteva timore da troppi anni perché il
terrore lo sconvolgesse proprio allora.
La
ragione delle bugie a Maxwell era sempre parte del suo bisogno di
privacy spasmodico: non avrebbe compreso, d’altronde. Conosceva
due versioni del racconto, come ce n’erano tutti i giorni sui
quotidiani; una vittima di una carneficina, complice in un certo qual
modo, era suo amico, e qui si fermava la sua coscienza. Non andava
oltre, non avendo affrontato mai situazioni simili. Indi per cui era
meglio che non cercasse di renderlo parte di qualcosa di complesso
per la sua mente; quel pensiero, nei momenti di infida lucidità,
gli appariva del tutto crudele e insensato: condivideva ben di più
di tale misera, si trattava di sassolini nelle scarpe –
fastidio perfino da nascondere. Ma sbagliava. Sicuramente, si diceva,
anche Max aveva i suoi sporchi segreti.
Dopo
un paio di preghiere e di resoconti, volenteroso di ritornare alla
confusione mentale, dispose dei fiori nei due vasi, togliendo quelli
vecchi e gettandoli nel cestino non lontano. Un’ultima occhiata
d’affetto alle pietre, il ricordo del volto di Sarah e della
lettera da parte della madre, per poi incamminarsi verso il pub di
suo cugino John, che non gli negava mai una bella bevuta in sua
compagnia.
Il
locale si trovava, a differenza del nucleo di edifici della città
vera e propria, a pochi metri dalle strutture degli alberghi dei
casinò, dei teatri, e del Multisala della Las Vegas d’azzardo.
Era un buco di venti metri quadrati, odoroso di detersivo per i
pavimenti, vomito e sigari. Nell’angolo più lontano un
tavolo da biliardo a cui c’erano sempre i tre uomini di mezza
età che si intrattenevano, “stanchi di trovarsi di
fronte i volti delle loro mogli”. Nei paraggi un’accozzaglia
di dubbi individui ghignanti, i più anziani avventori assieme
ai meno raccomandabili, impegnati con sporche partite di poker, le
quali raramente non si concludevano con una rissa sul retro. Al
bancone c’erano così spesso delle persone che avevano
perso tutto – o quasi – alle slot machine che Ronald
aveva fatto il callo alle espressioni disperate. Come avrebbero
spiegato la perdita di denaro improvvisa? Cosa avrebbero raccontato
alla propria moglie, amante, fidanzata o figli che fossero? Era
sempre il simile bofonchiare, il mandare giù uno dei più
economici tra i liquori e pagare i costi bassi con cui John
permetteva a tutti di saldare i conti.
C’era
un solo lampadario nella stanza, qualche mosca vi volava attorno, e
un numero spropositato di moscerini erano intrappolati, stecchiti,
dietro il vetro, scottati dalla lampadina dalla luce calda. Un paio
di faretti al muro illuminavano le mensole degli alcolici e le rare
zone buie. Il “Night Lite” aveva ben poco da essere
oscuro, minuscolo com’era. A stento era rimasto, nella
costruzione, lo spazio per il bagno che uomini e donne condividevano:
un paio di gabinetti da muro e due riparati dalle porte di legno. Un
lavandino e uno specchio rotto in alcuni punti.
Aveva
tutti i presupposti, quindi, per essere sudicio. E invece era lindo,
il cavillo che l’aveva salvato dalla chiusura certa. Non era
visibile – neanche con una lente d’ingrandimento –
neanche il minimo granello di polvere.
Ronald
prese posto su uno sgabello, poggiando un piede sul parquet e l’altro
sulla gamba del sedile. « C’è tempo per un cugino
scansafatiche? ». Quasi urlò senza sapere bene dove
rivolgere la propria voce, sospettandosi che John fosse nella
toilette a pulire qualche impronta di scarpa.
«
Arrivo subito, Ron ». Strepitò lui in risposta, prima di
comparire come l’altro aveva immaginato dietro la porta del
W.C. Era un po’ scombussolato, i capelli spettinati e il volto
tirato, come sempre quando l’orario di chiusura delle quattro e
mezzo si avvicinava. « Come va? ». Si scambiarono un
saluto pugno-contro-pugno. John si avvicinò alla radio che
possedeva, e da quella si diffuse una tenue musica lenta,
perfettamente appropriata all’atmosfera deprimente.
«
Fantastico, fantastico. Tu? ».
«
Papà ed io siamo un po’ in crisi – sussurrò
– sai com’è, non va proprio bene il “Night
Lite”. Il “Capulet” in città… una
tragedia, è sempre pieno ».
«
L’ho notato ». Borbottò, lugubre, mentre cercava
di associare un volto alla sua compagna di corsi, nonché prole
dei proprietari, Juliet. Ma proprio non immaginava chi potesse
essere.
«
Il trentun ottobre e il tredici novembre offrono la torta gratis.
Compleanno della figlia e della sua migliore amica ».
«
Non si può far niente? »
«
A parte sperare di riuscire a rimodernare l’ambiente, di
attirare clienti e decidersi a renderlo un posto di classe? ».
«
Viva le missioni impossibili ». Scherzò Ronald,
provocando un paio di risatine al cugino.
«
Allora, cosa ti porto? …Offre la casa perché fai
sorridere il proprietario ».
«
Se vuoi risollevare la sorte della casa, ti converrebbe farmi pagare
ogni tanto, a cominciare da stasera ».
«
Non esiste, fai parte della mia famiglia ».
«
Invece sarà come dico io, John ». Fu talmente solenne
che l’altro non osò obbiettare, portandogli, tanto per
cominciare, un paio di bicchieri di whisky.
Dall’ingresso
secondario, in quell’istante, comparse una testa
inconfondibilmente femminile, che con una voce bassa ma sicura ordinò
due bottiglie di limoncello.
«
Hai gli anni per bere? ». Le chiese, adombrato, John. «
Altrimenti- ».
«
Senti, » sbottò, infastidita, e il volume aumentò
decisamente troppo, infuocando le guance. « quello lì –
e indicò Ronald – non ce l’ha. Io starò
zitta e tu farai altrettanto. D’accordo? In questo modo andremo
d’accordo, te lo assicuro, e ti farò visita spesso.
Quanto ti devo? ».
Il
titolare le sorrise, affabile, e afferrò la banconota da venti
dollari della ragazza. « Con piacere ».
Ronald
non dubitò neanche un istante della sua identità:
Chelsea Clark, considerata la più bella ragazza della scuola
che ogni anno, puntualmente, sbatteva in modo civettuolo le sue
lunghe ciglia al suo indirizzo.
Infilò
i due fiaschi in una borsa di denim scuro capiente, fuggendo
all’esterno. Sembrava non aver avuto tempo per degnare della
sua attenzione Ronald, lo fece sorridere non poco quel comportamento,
immaginando che fosse in incognito lì e che se qualcun altro
l’avesse vista avrebbe per lo meno rischiato qualche minaccia e
annesse un paio di denunce.
«
Un po’ matta la tipa, eh? ».
«
Frequenta la mia scuola ». Quell’affermazione, secondo
Ron, avrebbe dovuto spiegare ogni atteggiamento fuori dal normale.
Scrollò le spalle e ritornò ad impicciarsi dei suoi
affari.
Chelsea,
all’aria aperta, prese una grossa boccata d’ossigeno. Non
gliene andava bene una quel Sabato. Prima aveva intravisto Deborah
agghindata a spia segreta, con occhiali da sole enormi e un foulard
avvolto intorno alla testa, sistemata davanti al supermercato dove
avrebbe dovuto acquistare i suoi liquori preferiti. Non avrebbe mai
permesso alla pettegola di scoprire i suoi passatempi nel week-end.
In fretta aveva dovuto trovare un altro luogo dove non avrebbero
fatto storie alla richiesta illecita di una sedicenne: c’era
soltanto il “Night Lite”.
Come
se non bastasse, piazzato lì Ronald Radke. Aveva finto di non
riconoscerlo all’inizio, ma quando il barista l’aveva
attaccata si era vista costretta a proteggersi con le poche armi
rimastele: il ragazzo.
Già
di per sé incontrarlo la innervosiva, immaginarsi in una
situazione talmente delicata.
Evitò
di ripensarci ancora una volta, con il volto stampato in testa (così
meno freddo del normale) di Ronnie, dirigendosi verso casa, dove
avrebbe trovato sua sorella minore Mary, e avrebbero brindato al
disastro di quegli anni che presto sarebbe stato cancellato.
La
particolarità di Chelsea Clark si trovava non tanto nella sua
famiglia, una delle più economicamente agiate della città,
quanto nella differenza che la distingueva da qualsiasi altra ragazza
della sua scuola. Il mostrare una parte di sé che, nel suo
animo, non riscontrava nessuna similitudine. E cioè a tutti
gli studenti dell’High School di Las Vegas pareva semplicemente
una bellissima cheerleader che aveva la fortuna di poter comprare
ottimi voti, mentre invece Chelsea studiava e s’impegnava a
scuola per meritare dei risultati che le avrebbero aperto, assieme a
qualche raccomandazione indispensabile, le porte delle migliori
Università del paese dove avrebbe studiato per diventare ciò
che sin da tenera età voleva essere: una psicologa.
Dall’anno
precedente aveva cominciato a sfogliare volumi riguardanti la
materia, appassionandosi più di quanto già non fosse –
con sua somma meraviglia, dato che credeva che non sarebbe mai
accaduto, ossessionata com’era – ed aumentando la sua
cultura in proposito notevolmente. Sua sorella Mary, che adorava
definire “un piccolo genio”, si trovava soltanto al
decimo grado e già avrebbe potuto affrontare un test
d’ammissione per Medicina senza commettere troppi errori. Non
si trattava di un’enorme capacità deduttiva né di
una logica fuori dal comune, quanto di una memoria formidabile, in
grado di citare dopo soltanto una lettura – e anche affrettata
– interi paragrafi di libri.
La
collezione delle Clark era invidiabile, ordinata per argomento,
autore e data di pubblicazione; avevano riempito ben tre librerie, ed
erano in procinto di inserirne un’altra nella loro camera che
condividevano. Senza contare che potevano consultare quella
gigantesca dei due coniugi Clark, una più che esperta
cardiochirurga e un neurologo che godeva d’ottima fama.
Facevano parte di una famiglia affettuosa, attenta al Sociale, si
dedicavano al volontariato, alle associazioni benefiche; la Domenica,
quand’erano bambine, c’era sempre un pic-nic nel parco, a
Las Vegas o lontano da lì. Non c’era ricorrenza o
anniversario in cui i due non trovassero del tempo per stare insieme,
il loro matrimonio era a dir poco perfetto. La loro prole ancor di
più.
D’altronde
nemmeno Mary o Chelsea comprendevano quale fosse il motivo di tale
infelicità e insoddisfazione; possedevano quello che ogni
adolescente vorrebbe: ricchezza, genitori fantastici e di cui essere
orgogliosi, un futuro brillante. Eppure, al Sabato sera si fuggiva
ubriacandosi, una malinconia doppiamente cupa, trattenuta durante il
resto dei giorni della settimana. Il signore e la signora Clark
permettevano alle due di darsi alla pazza gioia come meglio
credevano, escludendo l’invito di più di un paio di
amiche, l’uso di droghe o alcol, e qualsiasi attività
che avrebbe potuto richiamare l’attenzione della polizia.
Prendevano i loro borsoni e guidavano fino alla casa sul mare, non
troppo lontana, dove sarebbero rimasti fino alla Domenica sera. Le
due, trucco squagliato, guance rigate da lacrime, mal di testa da
svenire, avrebbero aperto gli occhi con una luce accecante,
preparandosi a ripartire con lo scorrere lento della loro esistenza.
Il
week-end era un rifugio sicuro in cui manifestare le proprie paure ed
insicurezze; nascondersi dalle amicizie impietose ed i nemici in gran
numero.
«
Ho visto Ronald Radke ». Commentò con una smorfia,
mentre Mary apriva la borsa e controllava il suo contenuto. « è
stato terribile ».
«
Immagino ». Rispose semplicemente per non darle agio di
lamentarsi del ragazzo che lei adorava definire “l’energumeno”.
Tale doveva essere per attirare l’attenzione di un gran numero
di ragazze. Mary si era rifiutata categoricamente di anche solo
guardarlo in faccia da quando frequentava l’istituto della
sorella; viveva già abbastanza difficoltà senza contare
l’odio che senz’ombra di dubbi avrebbe scaturito in lei
tale essere deficiente. “con l’accezione di “deficere”:
mancare di”. « Cosa facciamo? ».
«
Deborah era davanti il supermercato vestita a mo’ di spia ed io
sono dovuta andare da “Night Lite” ».
«
DA “NIGHT LITE”?! ».
«
… ed ecco che compare la mia dannazione! Credo proprio che mi
abbia riconosciuta ».
«
Da “Night Lite”? ».
«
Cosa vuoi, Mary? ».
«
Era proprio necessario andare da “Night Lite”? Non mi
piace. Non dovevi andarci ».
«
Sì che dovevo, invece – si riscosse; era lei la
maggiore, non Mary – e continueremo a fornirci lì di
alcolici ».
L’altra,
apparentemente frustrata, scrollò le spalle e guardò
altrove: « Fa’ come ti pare, ti ho avvisata ».
»
Risposte ai commenti
AnzuRevenge:
In realtà mi dispiacerebbe più perdere commenti; sono
sempre qualcosa di meraviglioso, molto più delle storie tra i
“preferite”, tra le “ricordate” e le
“seguite”. Però non posso obbligarti a commentare,
ovviamente, e se non te la senti non fa nulla. Mi fido di te e anche
se non fosse così, leggi comunque qualsiasi storia sugli ETF,
quindi comunque penso che leggeresti la mia, anche se non ti
piacesse. Dunque, grazie di aver commentato fin ora e grazie se
continuerai a leggere. Grazie di cuore.
Hysteria_Autumn:
Grazie, sei gentilissima, e con questi commenti aumentate la mia
autostima, diventerò un pallone gonfiato. E va be’
XD I collegamenti dovrebbero essere più avanti. Credo. Sempre
che la storia non cambi trama nel corso della stesura. Spero che
questo capitolo ti sia piaciuto.
Grazie
a tutti.