Storie originali > Generale
Segui la storia  |       
Autore: beechmarten    12/12/2010    0 recensioni
Puoi dire di non amarmi.
Puoi mostrarmi ciò che non sarò mai.
Puoi uccidermi una prima, una seconda, e se vuoi,
una terza volta.
Puoi trattarmi come se non importassi.
Puoi buttarmi a terra, o solo guardarmi cadere.
Puoi mentirmi, nasconderti e scomparire.
Puoi fare una di queste cose, oppure farle tutte.
Puoi farmi ciò che vuoi.
Puoi ferirmi come vuoi.
Ma tu rimarresti comunque la cosa più bella che sia mai
stata nella mia vita.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Incubo

 
 
 

Non aveva la minima idea di cosa stesse succedendo, un secondo prima si trovava sul suo letto, ed un secondo dopo a bordo di una macchina, ma il dubbio non la sfiorò minimamente, e poi, anche se avesse capito subito che quello che stava vivendo si fosse trattato di un sogno, o meglio dire di un incubo, come poteva non temere lo stesso?
Una cosa però la sapeva: 1 marzo 2007, il suo compleanno, una data che, purtroppo, non sarebbe mai più riuscita a dimenticare…
Troppe volte aveva visto quella scena, da ogni possibile e plausibile angolazione, impersonificando tutti i possibili personaggi presenti quel giorno, ma l’incubo non era mai uguale, ogni volta si presentava sotto una disparata forma. Ma quella notte era diverso, quella volta era lei persona a guidare la macchina, era lei quella che poteva controllare la situazione, e impedire che la sua più grande paura si avverasse un’altra volta, forse c’era una possibilità di salvezza. Ma ancora non lo sapeva.
La strada era ghiacciata, l’asfalto instabile, sapeva che doveva fermarsi, ma non lo fece. Ogni suo pensiero era controllato, ogni suo gesto comandato, e lei non poté fare niente. Alla radio, risuonavano le note di un pianoforte.  Non sapeva se era per quella canzone così triste, o per il paesaggio che la circondava, ma in qualche modo non riuscì a non essere impaurita.
Nel raggio di chilometri e chilometri non c’era la presenza di nemmeno una persona. Era sola.
Lentamente, il paesaggio di città iniziò lasciarselo alle spalle; il cielo sopra la macchina si faceva via via più scuro e vuoto, senza sole né nuvole. Tutto troppo surreale per essere vero.
Improvvisamente prese una curva strettissima, ad alta velocità per di più, sfiorando i novanta chilometri orari, ma era come se la marcia si fosse ingranata da sola, ed in un secondo, ciò che tanto temeva sarebbe successo, avvenne: dal nulla sbucò una via secondaria, una via che Sara intravide a malapena, nascosta al suo sguardo dietro un fitto bosco di alberi altissimi, che sembrava potessero raggiungere il cielo e squarciarlo. Lui apparve da quella via. Presto la macchina lo avrebbe raggiunto, ma non si mosse. Sorrideva come se si fosse rassegnato a ciò che doveva succedere. I suoi occhi infransero il vetro della macchina, fino a raggiungere Sara. Non poteva lasciarlo morire, non di nuovo, ma non ebbe il tempo di fare nulla, né di frenare, né di deviare in qualche modo il veicolo. Una forza estranea a lei, le impose di premere il piede sull’acceleratore. Pur di fermarsi, iniziò ad urlare e a dimenarsi, si scuoteva dentro la morsa stritolante della cintura di sicurezza, che ad ogni movimento si faceva più ferrea. Davanti alla consapevolezza che proprio lei sarebbe stata la causa delle sue sofferenze, non le restò che piangere.
Come sempre, si svegliò all’improvviso nel cuore della notte, senza accorgersi di stare urlando e piangendo.
Tre respiri profondi, ma il tremore non scomparve. Prese con la mano che ancora vibrava il cellulare. Il display, premuto un tasto qualsiasi, s’illuminò, investendo quel lato della camera di una poco rassicurante luce bluastra che la colpì in pieno viso.
Sara lo guardò per un secondo interminabile. 2 marzo 2009, 0:01…

Era un normalissimo giorno di marzo, un lunedì, per essere precisi, il giorno peggiore della settimana. C’è bisogno che spieghi il perché? Dopo un weekend passato in baldoria, la domenica sera in discoteca a festeggiare il tuo compleanno, e svegliarsi il mattino dopo, alle sei e mezza, rendendosi conto di aver attraversato una sbronza inaspettata, non è proprio uno spasso. Metteteci poi vostra madre, che con quella vocina stridula vi minaccia di tirarvi un secchio d’acqua in testa, se non vi alzate all’istante, e la verifica d’inglese alla quarta ora. Il risultato è solo una lunga e tanto disperata depressione.
Era l’ultima ora della mattinata scolastica, la più noiosa e barbosa materia che potessero introdurre ad un liceo scientifico, geografia. Sara frequentava il quinto anno del Fulcieri Paulucci Calboli di Forlì. Forlì... città sconosciuta e priva di attrattiva, situata in una remota regione d’Italia, meglio nota come Emilia-Romagna. Sara odiava stare là, non perché odiasse la città in sé, odiava il fatto di sentirsi barricata là, a volte veniva perfino investita da sensi di claustrofobia; là si sentiva soffocare, quella piccola città la faceva sentire come un uccello in gabbia, ansioso di volare via. Ma ancora qualche mese e avrebbe potuto andarsene, sarebbe andata all’università di Roma e avrebbe trovato un piccolo appartamento dove abitare, lì avrebbe cominciato una nuova vita, lontana dalla sua città natale, lontana dalla famiglia, dagli amici, e dal suo passato. Doveva reggere ancora un pò, e, passato l’esame di maturità, sarebbe rimasta in pace per altri tre mesi, passati al mare o in montagna; ma per il momento doveva solo pensare a resistere, senza impazzire e dare di matto...
L’ora la aveva passata in bilico tra sogno a realtà: con un occhio teneva la concentrazione sull’interrogazione del compagno, con l’altro viaggiava mentalmente verso chissà quale paese o era, il più alla larga possibile da quel purgatorio. Quello era il suo segreto, essere con la mente assente, e con gli occhi presente. Ogni tanto per esempio, per dare segni di vita e attenzione, annuiva e sorrideva come un’ebete, la tattica funzionava, perciò poco importava che i professori la potessero ritenere un’ebete.
L’interrogazione era stata a dir poco pietosa, persino lei sarebbe riuscita a fare un lavoro migliore.
Come dolci e beati campanellini di un paradiso non troppo remoto, il suono della campanella invase ogni fibra del suo corpo. Libera. Libera di uscire dalla classe e tornare alle sue flebili, sublimi e finte realtà. Radunò astucci, libri e quaderni, e senza farci troppo caso, li buttò alla con non curanza dentro la borsa. Afferrò il cappotto posto sullo schienale della sedia, lo indossò rapidamente, e dopo aver salutato le amiche, scappò via dall’aula.
Prima di uscire dalla scuola, dovette però recarsi alla biblioteca scolastica. Lei adorava leggere, quando la sua vita iniziava a fare schifo, leggeva quelle dei libri, usciva dal mondo, dimenticava tutto e tutti, per concedersi pienamente ai protagonisti dei suoi libri. Si divertiva spesso ad immaginare come sarebbe potuta essere la sua vita con un “felici e contenti”, ma naturalmente sapeva che non avrebbe mai vissuto per sempre felice e contenta; in primis non si può vivere per sempre, ed in secondo luogo, non credeva sarebbe mai potuta essere veramente felice. Certo, a volte riusciva a sfiorare vari e piccoli sprazzi di gioia momentanea, ma mai da poter dire e urlare a pieni polmoni: “Io sono felice!”. Ma Sara non era triste, per niente, era solo una ragazza realista che affrontava la vita con la giusta faccia ed il giusto carattere. Non si illudeva mai con speranze esagerate, non si faceva illusioni, e non credeva nei sogni Non credeva nella vita. La fronteggiava in modo pragmatico, solo in questo modo sarebbe riuscita a non rimanere mai delusa durante il suo percorso.
Così, mentre il resto della classe, scendeva la scala principale con la grazia di cento ippopotami, tutti impazienti di tornare a casa, lei percorse il corridoio fino in fondo. Raggiunta l’ultima porta, bussò educatamente, in attesa che la bibliotecaria le concedesse il permesso di entrare. Al contrario, non ricevette alcuna risposta, ma entrò lo stesso. Una volta entrata socchiuse la porta alle spalle.
— C’e nessuno? — domandò sperando che potessero risponderle. — Devo restituire un libro — Ma non successe niente, perciò si arrese, fece ricadere a peso morto le braccia lungo i fianchi, con ancora il libro in mano, ma prima che potesse uscire dalla sala, fu fermata da una familiare voce femminile.
— Sara?
La ragazza si voltò di scatto, e con sua sorpresa vide davanti a sé la professoressa di lettere. — Prof? Salve…
— Sara, come mai sei ancora a scuola?- Domandò con un tono scherzoso, mentre sulle sue labbra color bordeaux si formava un leggero sorriso.
— Dovevo riportare un libro, ma visto che non c’è nessuno… —  concluse lei, leggermente imbarazzata.
La donna abbassò lo sguardo lievemente divertita, tirò un sospiro e proseguì. — Sai, ti vedo spesso venire in biblioteca. Ti deve piacere molto leggere —  esclamò ridendo.
Sara rispose con un semplice e timido sorriso.
La professoressa, con lo sguardo abbassato notò che la ragzza teneva sotto braggio un grosso libro rilegato in rosso, sul suo viso contratto apparve un nota interrogativa.
La giovane alzò il libro rosso, sollevò la copertina, e con fare sfuggente ne sfogliò alcune pagine, poi lo portò al petto con la copertina rivolta verso la professoressa. —  “Romeo e Giulietta”… — rispose in automatico, senza che ci fosse bisogno che la donna le chiedesse qualcosa.
Quest’ultima sgranò leggermente gli occhi, sorpresa del tipo di lettura dell’alunna. — Uau… — esclamò sorridendo. —  Non pensavo fossi così romantica…
—  In fatti non lo sono, — si affrettò a giustificarsi Sara. — è che tra tutte le storie d’amore che conosco, questa mi sembra la più realistica…
L’insegnante attese che lei esprimesse meglio il concetto.
— Insomma, alla fine sia Romeo che Giulietta muoiono, è un esempio di come non sempre ci possa essere un lieto fine; è un finale piuttosto realistico e vero. A nessuno, nella vita vera, può capitare di vivere per sempre felice e contento… — recitò come un pessimo cantautore per bambini. — O almeno io la penso così…— concluse in fine un po’ intimidita.
L’insegnante scosse la testa assai divertita. — Sai, in fondo hai ragione… — e sospirò malinconica.
Sara portò le mani ai capelli neri e se li tirò all’indietro, un gesto che faceva con una media di venti volte al giorno; con aria pensierosa si accinse ad uscire dalla porta e dopo essersi congedata con la professoressa fece per varcare la soglia, ma questa la fermò.
— No, aspetta! Se vuoi posso darlo io il libro alla bibliotecaria.
— Grazie… — rispose la ragazza riconoscente.
Finalmente uscì dalla scuola, sentendo una brezza di piacere accarezzarle il viso più i metri la dividevano dall’edificio in decadenza.
 
— Sono a casa… — entrata nell’appartamento si chiuse il portone alle spalle, ripose le chiavi nel cassetto accanto.
Sara viveva in un palazzo in periferia, lontano dal caos cittadino e dalla frenesia giornaliera. Viveva in un quartiere che tendeva, orgogliosamente, a ritenere tranquillo e silenzioso. L’appartamento si trovava al quinto piano, per raggiungerlo, invece che l’ascensore, utilizzava le scale; dato che di sport non ne faceva neanche uno, quello era l’unico modo per non afflosciarsi.
A casa sua regnava uno stile moderno e contemporaneo, frutto dell’estro artistico di sua madre, era lei il sovrano indiscusso in quella casa, ogni cosa che diceva doveva essere fatta e nessuno doveva obiettare.
Il portone dava sul soggiorno, le cui pareti erano state dipinte di un giallo chiarissimo, tenue, paco. Metà del salotto era occupato dal divano rosso, nell’altra metà si trovava un tavolo, che mai veniva usato per la sola paura di graffiarlo, anch’esso rosso.
Sara si avviò alla cucina in cerca dei suoi genitori, era quello il cuore della casa, dove la gente andava e veniva. Appena entrati si poteva subito odorare il profumo del cibo, che di giorno in giorno cambiava.
— Mamma? — La cucina era vuota, solo in un secondo momento si accorse che sui fornelli stava bollendo della pasta. Ci si avvicinò e dopo aver spento i fornelli, notò che, attaccato alla pentola, c’era un bigliettino rosa; lei lo staccò e siccome la scrittura era minuscola, a fatica lo lesse. Questo diceva: “Sara, spegni il fuoco e scola la pasta, il sugo lo trovi nel frigorifero. Ci vediamo stasera. Mamma”.
Come d’altronde ogni giorno, finì per restare da sola. Prese da un cassetto lo scolapasta bianco che usava sempre sua madre, e con qualche sforzo riuscì a scolare la pasta. Messa nel piatto, già posizionato sul tavolo centrale della cucina, aspettò un paio di minuti prima di ricoprirla di sugo al pomodoro, e poi presi forchetta e bicchiere, cominciò a mangiare.
Capitava spesso che dovesse rimanere sola dopo scuola, ma questo non la disturbava più di tanto. I suoi, per motivi di lavoro, non tornavano quasi mai a casa per pranzo, e Sara ci si era abituata ormai, per lei starsene in solitudine era diventato quasi un piacere, più che un obbligo. Quando stava da sola, non aveva bisogno di recitare la parte della ragazza senza problemi, non doveva sforzarsi in modo disumano di ridere come una cretina. Da sola, poteva fare le facce che voleva, pensare senza che qualcuno le dovesse chiedere a cosa stesse pensando, si comportava normalmente.
Un difetto però c’era: quando non c’era nessuno con lei, era costretta anche a pensare a cose che avrebbe preferito non rivangare, come i frequentissimi incubi notturni, le sue paure, i suoi problemi, il suo futuro, e standosene da sola nessuno poteva impedirle di pensare.
Allora, accese la televisione, ma per sua sfortuna, quella era l’ora dei telegiornali, e di sicuro quelli non la aiutavano a distrarsi. Fece un po’ di zapping frenetico, ed il meglio che riuscì a trovare furono le ormai millenarie puntate di Beautiful; personalmente, odiava a morte quel telefilm, ma concentrarsi sui finti problemi altrui la obbligava a non concentrarsi sui suoi.
Finito di pranzare, si diede da fare a lavare i piatti, solo che avendo la testa da tutt’altra parte, non poté fare a meno di rompere un piatto, ma tanto i suoi non se ne sarebbero nemmeno accorti. Poi passò ai compiti, ai noiosi, barbosi e pesanti compiti, che finì stranamente prima del previsto, allora tanto valeva portarsi avanti e mettersi in pari nelle materie di studio, quali storia e geografia; era da un paio di settimane che non apriva praticamente libro, ed il recupero per questo le impiego tutto il pomeriggio, tanto che, arrivata alla sera, il cervello le smise di funzionare. Con la testa che le faceva un male cane, ed una stanchezza infinita, finì per andarsene a letto alle nove e mezza, come d’altronde la maggior parte dei giorni da quando era iniziato l’anno scolastico.
Il sonno non tardò a venire, benché Sara fosse preoccupata di dover affrontare un altro incubo di quel genere. Ma l’idea che il giorno dopo la sua monotona giornata tipo sarebbe per l’ennesima volta ricominciata daccapo, come tutti i giorni passati e in avvenire, la fece talmente tanto deprimere che il sonno venne spontaneamente.
La mattina, al suono della sveglia, fu lieta di constatare che l’incubo per tutta la durata della notte non si era minimamente fatto sentire, quella volta non aveva fatto nessun sogno, il che era ancor meglio, di solito quando non sognava era perché aveva dormito serenamente. Infatti alazatasi e guardatasi allo specchio notò con piacere di non aver alcuna borsa sotto gli occhi, che solitamente erano di un viola talmente pesto da dover sommergersi di fondotinta per nasconderle; persino i capelli erano messi meglio delle altre volte, quella mattina non erano né crespi né spettinati, ricadevano lisci e morbidi lungo la schiena e le spalle, la frangia era ordinata, a parte qualche ciocca nera più lunga, che un po’ sparse, le incorniciavano la faccia. I capelli neri, con dei riflessi più chiari, vicino ad un caldo marrone, all’attaccatura, erano in forte contrasto con la pelle, che pur essendo leggermente ambrata, risultava sempre pallida.
Si stiracchiò un pò, ed il suo allungarsi sollevò leggermente la canotta, lasciando intravedere la v0glia di pesca sul suo ventre.
Tutto sommato Sara era una bella ragazza, era magra e abbastanza alta; ma ciò che gli altri vedevano, in qualche modo lei non riusciva a vederlo. Merito della modestia forse, o dell’infima autostima magari. Niente di tutto ciò, era solo perché i suoi occhi erano diversi da quelli degli altri. I suoi faticavano a soffermarsi sulla superficie, lei era abituata a scavare a fondo, perché aveva imparato che le cose non sono mai come ci aspettiamo, anche quando ciò che vediamo ci sembra pura evidenza.
Si vestì, si lavò e fece colazione con il solito caffè espresso, era pronta ad affrontare un altro giorno si scuola, consolata del fatto che prima o poi quel supplizio sarebbe finito.

   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: beechmarten