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Autore: Florence    17/12/2010    20 recensioni
"Io, Carlisle Cullen, non avevo mai capito cosa significasse davvero cogliere un frutto proibito. Non fino a quando l'avevo incontrata di nuovo, dieci anni dopo e la dolcezza di quella mela mi aveva rapito. Quello che mi accadrà, sarà solo colpa mia, colpa dell'uomo che è sopravvissuto dentro al vampiro e di lei che, inaspettatamente, ha scaldato il mio cuore spezzato. Edward... perdonami..." E se a Volterra i Volturi si fossero comportati diversamente? Cosa è accaduto in dieci anni a Isabella Swan? E quale ruolo ha Carlisle in tutto questo? (What if... che prende l'avvio dalla fine di "New Moon" di S. Meyer)
Genere: Malinconico, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Alice Cullen, Carlisle Cullen, Edward Cullen, Isabella Swan
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Rieccomi qua a pubblicare la storia vera.
Torna Edward, come annunciato a giugno (no comment please) e torna così bello incazzato che mi pareva giusto dedicare un capitolo solo a lui.
Prossimamente gli aggiornamenti!
Buona lettura!


PROIBITO




122 - Rabbia - Edward

 

 

***

Edward

***

 

Tutti, prima o poi, commettono degli errori.

Il mio imperdonabile errore risaliva a dieci anni prima, quando avevo lasciato che Aro separasse Bella da me, senza battere ciglio, certo che fosse ‘per il suo bene’. Dieci anni di caos nella mia testa, senza riuscire a mettere a fuoco cosa stessi diventando, vivendo –se così si può dire- alla stregua di un relitto di legno abbandonato ai flutti dell’oceano.

Avevo perso di vista le mie priorità, i valori in cui ero stato cresciuto in entrambe le mie vite, avevo lasciato che altri pensassero al posto mio, che decidessero per me quale fosse il modo migliore di scomparire.

Avevo avuto Alice e non mi ero mai accorto di quello che realmente provavo per lei finché non era arrivata la fine della nostra relazione, così come, prima di lei, non avevo capito quanto fosse sciocco lasciare andare via Bella, finché non l’avevo persa.

 

Dieci anni senza obiettivi, senza stimoli, senza aria.

Avevo vagato come inebetito sulla faccia della terra: ‘bevi questo sangue’, mi diceva Aro e io obbedivo; ‘fa l’amore con me’, chiedeva il potere di Chelsea attraverso le labbra sensuali di Alice e io lo facevo.

 

Avevo scoperto di avere un’anima solo quando ormai era chiaro che l’avessi persa, prostituendomi alla volontà del destino, reagendo quando ormai era troppo tardi.

O forse non avevo mai reagito e continuavo ad essere succube degli ingranaggi di un enorme e misterioso orologio che ticchettava la mia eternità.

 

Tutti quelli che sbagliano, prima o poi ammettono i propri errori e tentano a qualunque costo di porvi rimedio. Tutti, prima o poi, ragionano. Tutti, almeno giunti alla fine dell’esistenza, dimostrano di valere qualcosa.

 

Io no.

 

Avevo venduto la mia anima per un’informazione, mi ero scottato e l’avevo perduta per sempre, comportandomi da quel che ero: un infame egoista, pronto solo a inseguire la propria coda di decadenza e orrore. Un uomo indegno di avere l’anima.

La cosa peggiore, a posteriori, era l’aver compreso quanto io fossi incoerente e falso, perfino nei miei stessi confronti. Ero capace di convincermi di un’idea, di rimuginarci fino a farmi scoppiare la testa e trarre nuova forza dalla mia stessa convinzione autoindotta e poi, in un batter di ciglia, lasciarmi andare agli istinti peggiori della mia natura di uomo e rinnegare ogni cosa, arrivando a sostenere l’esatto contrario di quello che mi aveva scaldato l’anima per qualche tempo.

L’anima… quello che mi aveva scaldato l’anima…!?

No: erano solo illusioni! Illusioni miste alla frenesia del momento, illusioni che illuminavano in maniera diversa fatti del mio passato, erano solo necessità momentanee di credere che le cose non stessero così. Era solo il desiderio spasmodico di aver fiducia che le cose si sarebbero sistemate e che tutto prima della fine sarebbe tornato a posto, che i ruoli si sarebbero ripristinati, che aveva avuto senso credere in qualcosa e convincersi che quella fede, quel pensiero costante e rassicurante, prendesse il nome di ‘anima’.

Gli altri, forse, potevano averla davvero.

Io no.

Se mai l’avevo avuta, l’avevo persa, inorridita dal peggio che ribolliva dentro di me.

Era… era deludente rendermi conto di quanto facessi schifo e fossi pronto a lasciarmi trasportare dalle onde dell’ira, dimenticando l’esistenza di ogni approdo e convincendomi che l’unico elemento nel quale meritavo di galleggiare era quella melma scura di veleno e rancore.

Ero un perdente. Un misero, patetico, incazzatissimo perdente e, forte di questa consapevolezza, avevo ceduto all’evidenza dei fatti e accettato di essere un misero, patetico perdente fino in fondo, sfogando la mia incazzatissima ira a scapito della salute e del futuro degli altri.

 

Avevo abbandonato i miei compagni nel mezzo della battaglia: fino ad un istante prima li guidavo, forte di un perfetto equilibrio creatosi tra noi, nel quale io prevedevo con attenzione le mosse dei nemici, leggendole nei libri aperti della loro mente e loro, coloro che mi vedevano come una guida, si battevano e le schivavano, andando avanti e ancora avanti, verso la salvezza.

Li avevo abbandonati a causa di un pensiero che non avrei dovuto captare, una parola di troppo, una verità che scuoteva e sradicava ogni effimero barlume della mia coscienza.

 

Quando Jane, vedendo scagliarsi contro di lei una vampira cristallizzata tra l’infanzia e l’adolescenza, dagli occhi purpurei nonostante l’odore di sangue, nata da poco e letalmente pericolosa, aveva pensato al dolore della madre della bambina, strappata al suo nido e aveva associato a quell’immagine quella di Bella che sfiorava la sua pancia e mormorava: ‘il mio bambino’ io…

 

-Edward! Che ti prende?-

-Attento!-

-Sta giù!-

Lame e stridio di denti, un fendente accanto a me, immobile nel mezzo del cerchio dei miei amici, pietrificato dall’immagine evocata dai pensieri di Jane. Immobile, come quel pensiero che non accennava a dileguarsi dalla mia mente.

-Stupido! Giù!-, ero stato scaraventato a terra da Marcus, mentre Jane colpiva con la sua magia nera un nemico che stava per attaccarmi.

Nel pantano di fango e sangue, gli occhi di Marcus erano puntati su di me: -Che ti prende? Edward?-, e dopo anche lei, la causa della mia improvvisa catalessi, pronta a guidare gli altri verso un luogo più riparato, al posto mio, mi aveva squarciato con il suo sguardo indagatore, mentre gli altri ancora lottavano per salvarsi, per salvare me.

 

-Felix, attento!-

-Cazzo… Mi hanno preso. Cretino di un Cullen, hai visto un fantasma, forse?-

 

Un fantasma… come avevo pensato io vedendo Alice, qualche ora prima. Il fantasma di un incubo che prendeva forma e mutava in un mostro reale, che mi arpionava al collo e stringeva, levandomi il respiro.

Cosa stava pensando Jane? Cosa, cosa???

L’avevo afferrata per la maglia e tirata in basso, nel fango accanto a me, lottando con lei e immobilizzandola a terra, schiacciata sotto al mio peso.

-Cosa significa?-, avevo ringhiato al suo orecchio, percependo l’orrore che stavo instillando nella sua coscienza.

-Cullen, lasciala!-, qualcuno che mi aveva strattonato, aiutando Jane a sollevarsi.

Per qualche istante il mondo aveva ruotato solo attorno a noi due: volevo sapere assolutamente cosa significasse quel pensiero che aveva lasciato trapelare, volevo che rispondesse, che mi dicesse che era stato solo un fortuito caso creato dalle sinapsi immobili del suo cervello.

-Che vuoi da me?-, aveva sibilato, acquattandosi in posizione di difesa, mentre un ringhio sottile accompagnava il suo respiro e la battaglia infuriava su di noi.

-Hai pensato a Bella Swan. Hai pensato al bambino di Bella Swan! Che cosa cazzo significa?-, mi ero scagliato di nuovo contro di lei, animato da un’ira figlia dello strisciante dubbio che mi aveva instillato nelle vene, come veleno mortale, anche per uno come me.

L’avevo vista sgranare gli occhi, mentre mani amiche, che avrei tradito di lì a poco, mi trattenevano ancora e allora -solo allora-, guardando il volto insanguinato del suo Felix che si era parato davanti a me per proteggerla, tutto l’odio che poteva contenere quella piccola strega si era riversato su di me, trucidandomi, parola dopo parola.

-Guarda, Cullen: guarda cosa hai fatto!-, aveva tuonato, indicandomi il vampiro suo amato, sfregiato da una freccia volante che io non avevo visto, né fermato, -Hai letto la mia mente e ti sei fatto distrarre da una cazzata come quella? Bene, allora io annienterò quel minimo di dignità che ti resta, perché ormai è chiaro che tu non riesci ad imparare dai tuoi errori, sei egoista, cinico e… e ti meriti di sapere tutta la verità e di farti del male da solo!-

Con la coda dell’occhio, avevo visto Marcus scattare verso di lei, come avevo fatto io poc’anzi e sibilare al suo orecchio minaccioso, tenendole il visto stretto in una mano, di stare zitta, di non dire una parola in più.

Jane era rimasta in silenzio, ma, sorridendo verso di me con una perfidia che ancora non le avevo mai vista dipinta in viso, aveva aperto la sua mente, mostrandomi tutto.

 

Bella era a Volterra.

Bella era con Esme, chiuse nella cella che Alice aveva preparato per nostra madre.

Bella stava male, era confusa.

Bella era incinta.

 

E dopo le immagini, la sua lunga arringa mentale contro di me:

“Sai, Cullen… circolano tante orribili storie sulle sorti delle umane che portano in grembo figli di vampiro… storie in cui la madre, prima o poi, inizia a soffrire, via via che il feto cresce, via via che le succhia tutta la vita e le spezza le ossa con la sua forza.

Dicono che nessuna di loro sia mai sopravvissuta. Credi che la ragazza che ho visto nel bosco fosse realmente figlia della vampira bionda? Orfana: non poteva che essere orfana e aver ucciso la madre, venendo al mondo, eccezione terribile.. I mezzi vampiri sono pochi, perché quelli della nostra specie, nonostante tutto, hanno un minimo di giudizio… evidentemente Carlisle Cullen è stato sopravvalutato da tutti voi, visto che non si è preoccupato delle conseguenze, quando ha messa incinta la tua Bella…”

Sebbene pietrificato dalle sue mute parole, ero riuscito a percepire che Marcus avrebbe voluto fermarla, ma, nonostante le stesse tappando la bocca, non avrebbe potuto in alcun modo interrompere il flusso dei suoi pensieri e, nella concitazione del momento, anche lui mi aveva servito sul piatto d’argento la conferma a quanto aveva detto la piccola vipera, lasciando aperta la sua mente e mostrandomi ancora la mia Bella.

 

Bella era fuggita con Esme.

Bella aveva vomitato, era stata male.

Bella era nel bosco, sotto la neve, in mezzo ad una guerra sanguinaria tra vampiri.

Bella era incinta.

 

Ma soprattutto, Carlisle Cullen, colui che l’aveva rovinata, era a Volterra, nella mani di Aro, a un passo da me…

 

-Maledetto!-, la voce mi era uscita senza neanche che me ne rendessi conto, tonante come l’esplosione di un razzo nel mezzo al petto.

-Edward, calmati!-, altre mani mi avevano trattenuto, ringhi vicini e lontani, il clangore delle armi intorno a me e poi qualcosa sotto ai miei denti, lo scricchiolio della pelle di pietra dei vampiri, un urlo conosciuto, il sapore del sangue sulla mia lingua.

-Edward! Basta!-, un pugno nello stomaco, un braccio ritorto, mentre altre urla belluine erano sempre più vicine, le spade fischiavano a poca distanza da noi e io, io… stavo uccidendo con le mie mani i miei stessi fratelli. Nemico tra gli amici, distruttore in mezzo a chi si fidava di me.

-Fermalo, Jane!-, un ordine, un istante di silenzio e d’attesa, come se il tempo si fosse fermato, per darmi modo di capire che stavo per soffrire.

 

Era durato poco, giusto il tempo di immobilizzarmi e trascinarmi lontano, assieme a loro che battevano la ritirata, abbandonando il prezioso bottino di armi, difendendosi come potevano, mentre io, tenuto sotto controllo dal potere della ragazza di veleno, speravo di non tornare più a galla.

 

Quello che mi aveva atteso, quando avevo ripreso coscienza, erano otto occhi neri e quattro volti profondamente delusi di me.

Era Marcus che sanguinava poco sopra la spalla: era sua la pelle scalfita, suo il sangue di cui mi ero macchiato.

 

Chi non apprende dai propri errori, chi non è capace di farsi un esame di coscienza e capire dove ha sbagliato, chi non soffre a sufficienza sulla sua pelle per il male che si è procurato, quello, di solito, viene riportato sulla retta via da coloro che gli sono vicini: gli mostrano gli errori, gli spiegano le conseguenze, gli indicano una scappatoia per recuperare l’onore e sanare le piaghe vergate sulla coscienza.

 

Ma io non ero più sensibile alle parole degli amici. Non avevo più una coscienza: se anche ne avessi avuta una, l’avevo appena rinnegata. Inutile, sciocco fardello che mi avrebbe diviso dalla soddisfazione di una vendetta completa.

Non mi importava più di non deludere chi mi voleva bene, perché io non sarei più stato in grado di volere bene a nessuno, mai più avrei desiderato qualcosa, mai più avrei sperato, pregato, sognato, assaporato l’attimo eterno che prelude alla scoperta di qualcosa di meraviglioso.

Io non volevo più scoprire niente.

Non avevo più bisogno di niente se stavo perdendo lei, l’ultimo faro nella notte, l’ultimo approdo nel mio lungo viaggio. L’ultimo ricordo veramente dolce e bello, scevro dall’acredine della realtà.

Il mio ultimo sogno.

Non poteva svanire… Non doveva svanire!

E se lei era destinata a pagare sulla sua carne e con la sua vita le colpe di chi l’aveva ingannata e illusa, non avrei avuto più alcun desiderio, alcun sogno, niente per cui andare avanti. Non potevo perdere anche l’idea di lei, la fantasia di immaginare cosa stesse facendo, a miglia e miglia lontana da me, la curiosità di vederla mutata, cresciuta e realizzata.

Nonostante tutto, Bella stava morendo, illudendosi di essere felice. Ogni fantasia, ogni speranza, ogni progetto sarebbe stato cancellato dalla sua morte.

 

Potevo morire anch’io, no?

 

E allora, perché non farlo vendicando chi l’aveva uccisa?

 

-Lasciatemi-, la mia voce aveva risuonato roca e cupa e a nulla erano valsi gli sguardi attoniti dei miei compagni e i ringhi sommessi di Felix e Demetri, che mi tenevano ancora sotto controllo.

Mi ero rivolto direttamente a Marcus, perché non volevo più sapere niente da Jane: -E’ vero?-, gli avevo domandato, -E’ vero che Bella aspetta un figlio e che questo… mostro la ucciderà?-, attesi una risposta che non giunse.

La mente del vecchio Marcus era tornata protetta dalla muraglia che aveva indossato per anni con me e con Aro.

-E’ vero, Marcus che si tratta del figlio di Carlisle?-, avevo tuonato, urlando a pochi centimetri dalla sua faccia, lasciando che soccombesse al mio sguardo di fiele.

 

Attento a quello che dici, vecchio, perché se confermi quello che ha detto Jane, se dopo essermi privato dell’illusione di avere un’anima mi troverò spogliato anche della speranza di saperla felice e al sicuro fino alla vecchiaia, allora io troverò quel bastardo e non vorrà dire nulla se l’ho amato come un padre, se è stato un esempio per me, se mi ha voluto bene e mi ha insegnato a vivere in questo corpo infame.

 

-E’ vero che Carlisle è qua a Volterra, questa notte?-

 

Se è vero, vecchio Marcus, questa sera io ucciderò Carlisle Cullen con le mie mani.

Se è vero gli strapperò il cuore immobile, caverò gli occhi che hanno osato guardare Bella e taglierò quelle mani immonde che l’hanno toccata, lo priverò dell’anima e dell’orgoglio, rinnegherò il suo sangue e avrò la mia vendetta.

 

-E’ vero?-, avevo urlato ancora, sputando goccioline di veleno sul viso del Volturo, che ancora mi guardava e taceva.

 

Marcus aveva deglutito e chiuso gli occhi per un istante.

-E’ vero-, aveva ammesso, ma quello che aveva iniziato a dire dopo io non avevo neanche voluto sentirlo, perché ero già scappato da loro, abbandonandoli al loro destino per compiere il mio.

 

Se è vero, ucciderò mio padre e dopo mi toglierò la vita.

 

Avevo corso attraverso la battaglia, infischiandomene di combattere, di uccidere, di aiutare, di proteggere e di dare speranza, avevo schivato i colpi e saettato come una freccia in mezzo ai cadaveri, sopra i vivi che si barcamenavano per restare tali, inspirando a pieni polmoni l’odore acre e dolce al tempo stesso del sangue, eccitandomi e fomentando la mia sete, giunta quasi al limite della sopportazione.

Avrei ucciso non uno, ma dieci, cento umani in quel momento: misere anime cui avrei donato il silenzio eterno, impedendo loro di vivere ancora per marciare verso l’infelicità.

Avrei bevuto non uno, ma cento litri di sangue caldo e corroborante, l’avrei rubato a chi combatteva a fianco a me.

L’avevo rubato ad un vampiro neonato, inesperto e saporito, che non si era neanche accorto di essere giunto alla fine dell’illusione di immortalità: quel disgraziato aveva incontrato me al capolinea della sua esistenza, pronto ad uccidere chiunque si fosse trovato lungo la via che mi avrebbe portato alla vendetta. Non c’era un motivo reale per cui l’avevo ucciso, forse l’avevo fatto per ingordigia oppure per liberarlo di un’infinita esistenza infame.

O forse l’avevo fatto perché quel vampiro difendeva un nostro simile, lo guardava con occhi preoccupati, si curava di lui proprio come se quello fosse stato il suo creatore. Anch’io, come lui, avevo a lungo pensato che avrei potuto venerare il mio creatore per tutta la mia vita immortale e l’avrei amato per sempre: poi ero stato tradito. Non potevo permettere che altri provassero sulla loro pelle quanto bruciasse il tradimento di una persona che si crede di amare, per questo l’avevo ucciso! Per impedirgli di soffrire quando suo padre l’avrebbe tradito, pugnalandolo alle spalle, rubandogli l’amore e distruggendo tutti i suoi sogni.

Poi avevo ucciso il vecchio, lasciando lì il suo sangue traditore.

 

Soltanto dopo essermene andato, mi ero reso conto di averli uccisi senza neanche chiedermi se fossero Romeni o Volturi. In fondo non me ne importava.

 

A me bastava solo sapere che lei avrebbe vissuto una vita lunga e felice… tutto il resto non aveva più alcun senso.

 

Avevo corso ancora, alla ricerca di una meta, senza ancora sapere cosa fare, dove andare, come cercare di impedire l’inevitabile.

Avevo corso per trovarla e guardare i suoi occhi una volta ancora, sentirmi dire dalle sua labbra che non era colpevole, che non aveva venduto la sua dignità ad un mostro, che non sapeva quello verso cui inesorabilmente andava.

Se Bella era destinata a morire, se nulla avrebbe più potuto aiutarla, se neanche il mio morso l’avrebbe infine trasformata e resa eterna, allora neanche lui avrebbe meritato di restare in vita.

Correvo e colpivo, sapendo che l’unica luce in fondo al tunnel sarebbe stata quella della sua candela prossima a spegnersi.

Ecco perché Alice non riusciva più a vedere Bella: perché Bella non avrebbe avuto un futuro… e Carlisle… sì… lui sarebbe stato ucciso in quella battaglia: era chiaro il motivo per il quale gli eventi non mutavano nelle visioni di mia sorella, perché ero io che li avrei condotti passo passo verso la loro realizzazione, perché, nel profondo del mio cuore, non avevo mai accantonato la rabbia per il tradimento, il dolore per la delusione e la strisciante convinzione che gliel’avrei fatta pagare.

 

La chiave di tutto, quindi, ero io: avrei vendicato Bella e si sarebbe avverata la visione di Alice su Carlisle; avevo abbandonato i miei compagni, lasciando Felix in balia della morte; avrei deluso mia madre, che avrebbe fatto qualunque cosa per proteggere gli altri suoi figli, anche mettendosi contro Rosalie e non avrei lottato contro Jasper, perché, in fondo, non mi importava niente di lui, di noi, di tutti.

Mi importava solo di poter rivedere almeno una volta il dolce sorriso di Bella Swan, sognare una volta ancora di poterla amare liberamente e per sempre.

 

Preso dai miei tumultuosi eppur dolci pensieri, non mi ero reso conto di essere capitato in una zona non battuta del bosco, ancora lontana dal frastuono della battaglia, lontano dalla città, eppure limitrofa ad un’ampia area abitata.

Lo schiocco secco di un ramo spezzato dal passo di qualcuno che incedeva velocemente verso di me, richiamò la mia attenzione, portandomi a distaccarmi dall’universo rosso e nero di vendetta e rimpianti che mi aveva attratto e continuava ad alimentarmi di odio e disgusto, come una placenta che fornisca sangue avvelenato all’embrione di un potenziale patricida.

Mi acquattai nell’ombra, rimanendo immobile come una statua, sperando che l’ottenebrante odore del sangue che macchiava la mia pelle e la mia coscienza perduta non fosse di richiamo per chi mi stava alle calcagna: presto, due vampiri estremamente diversi in corporatura e andamento sfrecciarono vicino a me. Il più grosso, un vampiro vestito di nero, portava tra le braccia un corpo immobile e smembrato, all’apparenza senza più spirito vitale; davanti a lui, una donna minuta e veloce sfilò mormorando in una disperata litania le sue colpe, senza mostrarmi il suo viso.

Bambino mio, perdonami per quel che ti ho fatto. Piccolo mio, torna da me!

 

Il loro passaggio fu improvviso e rapidamente svanì anche il loro odore, lasciandomi addosso una strana sensazione di dejà-vu. Il loro odore… familiare, eppure sconosciuto…

 

Mi sforzai di non lasciarmi distrarre da quello strano groviglio che mi aveva preso allo stomaco, quella sensazione a metà tra il pentimento e il rancore.

Ancora una madre, ancora un figlio perduto.

Mi domandai se fossero Romeni o Volturi e, ancora una volta, non mi importò di conoscere la risposta: il mio scopo era andare avanti, capire dove mi trovassi e da dove provenissero quei tre.

Qualcosa mi attraeva, nella direzione dalla quale essi erano spuntati, qualcosa che ancora non aveva preso forma nella mia mente e che solleticava quel poco di coscienza rimasta sepolta tra le pieghe dell’ira. Come se la mia natura di cacciatore avesse già scorto quello che la mia intelligenza da umano non aveva ancora colto.

 

Proseguii più cauto di poco prima nella notte rischiarata dalla luce della luna filtrata dalle nubi gonfie di neve e mi soffermai a pensare che quella stessa neve, quella stessa luna incombevano anche su coloro che erano stati i miei cari e dai quali mi ero ormai, volente o nolente, allontanato: dopo che avessi punito chi si era macchiato del peccato non avrei più osato avvicinarmi ai superstiti, non avrei mai potuto tornare indietro.

Sarei rimasto solo, emarginato. Svuotato.

Non ha senso stare da soli e lo sai bene Edward… Ricordi il periodo che avevi abbandonato Carlilse ed Esme? Cos’eri? Cosa pensavi di poter essere, eh, Edward? Nemmeno gli assassini più turpi desiderano vivere da soli, nemmeno i peggiori peccatori.

 

Vuoi davvero fare terra bruciata accanto a te e rinunciare ad avere il perdono e la vicinanza di qualcuno che possa essere lo scopo delle tue giornate?

 

Qualcosa vacillò sotto la coriacea scorza di odio che avevo tessuto attorno a me mischiando il veleno dei miei sentimenti alle scaglie di dolore che ormai erano l’unico residuo tangibile del mio cuore.

Tra poco sarai solo, Edward.

 

Solo.

 

 

Quanto ci sarebbe voluto prima che Bella morisse? Quanto avrebbe comunque potuto sopravvivere in una guerra tra vampiri? Quando avrei guardato oltre gli occhi di Carlisle e avrei spento la sua mente per sempre, pugnalando il suo cuore traditore di padre e amico, quando avrei chiuso per sempre i suoi occhi e cancellato il volto della mia Bella dalla sua memoria?

 

Mi tornò in mente una foto, scattata tanti anni prima proprio da Bella, un pomeriggio in cui eravamo ancora tutti felici: lei con me, Carlisle con mia madre, Alice con il suo Jasper. Mi apparvero, nitidi alla memoria, i volti radiosi di ciascuno dei miei familiari e le particolari e inconfondibili caratteristiche dei loro sorrisi.

Spensierato, quello di Emmett.

Superbo, quello di Rose.

Combattuto, quello dipinto sulle labbra tirate di Jasper.

Felice, quello di mia madre Esme.

Scintillante, quello di Alice.

Orgoglioso, il mio, sebbene teso, per la lontananza fisica di qualche metro dalla mia ragazza.

Rassicurante, quello senza tempo di Carlisle.

 

Rassicurante.

 

Mi fermai ansimante con la schiena schiacciata contro la corteccia umida di un albero spoglio, di nuovo risucchiato dal crogiuolo di sentimenti discordanti che si animavano in me.

 

Rassicurante.

 

Non era la prima volta che ripensavo a quella foto che avevo a lungo conservato assieme alle poche cose care rimaste della mia vecchia vita in famiglia, mi aveva aiutato in momenti bui, lì a Volterra e prima a Buenos Aires, quando mi ero esiliato da tutti, ma avevo lasciato il mio cuore nella piccola cittadina piovosa e uggiosa di Forks.

Mi ero fatto aiutare dai ricordi delle battute di Emm e dallo charme perfetto di Rosalie, avevo più volte desiderato di rivedere l’espressione felice sul viso di mamma, immaginando che fosse accanto a me, a irradiare sul buio della mia esistenza la sua luce fulgida.

Ma più di tutti, mi ero lasciato rassicurare da lui e dal ricordo della sua integrità e forza.

Lui, la colonna della nostra casa, lui, il mio primo amico e il mio confidente, lui, che mi aveva amato come un vero padre.

 

Lui, che stavo andando ad ammazzare.

 

-Cosa sto facendo?-, un rantolo impercettibile persino alle mie orecchie, sfuggito alla mia gola arsa dalla sete e dalla voglia di urlare all’infinito la mia disperazione.

 

Cosa sto facendo…

 

Sbattei più volte le palpebre e mi spostai avanzando piano fino ad un piccolo spiazzo tra gli alberi, lasciando che la neve fredda cadesse sul mio viso rivolto al cielo.

 

E allora mi ricordai delle volte che avevo atteso Bella sotto la sua casa, col naso all’insù, aspettando che spegnesse la luce e si addormentasse, perché io potessi osservarla di nascosto.

Mi tornarono in mente gli attimi in cui, guardando verso il sole, avevo atteso il suo verdetto sulla sua sorpresa di vedermi scintillare, immobile nella radura del bosco dove l’avevo portata, quando aveva scoperto la mia vera natura.

E infine il cielo stellato cui avevo chiesto un segno, quando, ballando con lei, avevo capito che non avrei mai potuto privarla della vita per farla per sempre mia e le avevo strappato una promessa.

 

Adesso c’era solo un cielo di latte cagliato e inutili fiocchi di neve a guardarmi dall’alto.

Le mie speranze erano tutte estinte e non avrei trovato mai più il conforto di qualcuno che mi osservasse da lassù.

 

Solo. Per l’eternità, solo.

 

Stavo immobile, scosso dai brividi che si erano impossessati di me, in balia della mia infinita ira, disperato per una decisione troppo difficile da prendere.

 

Avrei davvero trovato il coraggio di vendicare Bella?

E se lei fosse stata felice, invece, se le cose non fossero state come mi ostinavo a pensare, se lei avesse davvero amato Carlisle?

Avrei potuto strapparle il cuore, uccidendolo e dopo lasciarla in balia della sua sorte, in attesa di un morte violenta e tragica?

E il figlio? Quel figlio inutile e colpevole già da prima di vedere la luce, quel figlio odiato… avrei ucciso anche lui, dopo, per l’assassinio di cui si era macchiato inconsapevolmente?

 

Lasciai che il mio corpo inerme scivolasse a terra e affondai le mani tra i capelli fradici e sporchi, mentre un’idea balzana si impossessava della mia mente perversa: e se Bella fosse stata trasformata prima che la sua fine fosse decretata? Forse la… la cosa… sarebbe morta e lei… sarebbe rimasta per sempre in vita, libera di amare chi volesse… in fondo era quello che desiderava, no? Era stata lei a chiedermi di mettere fine alla sua vita da umana, tanti anni prima. In fondo lei voleva davvero essere una vampira, come me! Ero stato io a convincerla che avrebbe perso il fiore della sua vita, che si sarebbe privata delle gioie della maternità e…

 

Bella non voleva un figlio.

Carlisle ne aveva accolti cinque, accanto a sé.

 

Era stato lui a volere quell’abominio, non Bella!

 

Lui ad aver reso tutti noi degli assassini per natura… come sarebbe stato il figlio di Bella.

 

-Bastardo egoista!-, mi alzai ruggendo dal mio buco nel fango e ripresi a muovermi nel bosco, senza una meta, ma con un piano in testa: l’avrei trovato e costretto a mordere Bella, per porre fine al pericolo incombente sulla sua salute e permetterle di essere finalmente ciò che aveva sempre desiderato.

 

Era la cosa giusta! La cosa migliore per lei, per la sua vita, per il suo futuro…

 

Avrebbe potuto vivere con me, passare giorni e notti insonni a crogiolarci nel nostro amore, correre insieme col vento tra i capelli, cacciando in libertà, godendo delle stesse cose e…

 

Era davvero la cosa giusta per lei?

 

Bella… Bella avrebbe voluto stare con me, insieme, scoprendo la nuova natura e quel corpo perfetto e scattante che avrebbe avuto… vero? Lei avrebbe accettato di rinunciare al sonno, alle lacrime, ad invecchiare… certo… era quello il suo desiderio, in fondo, no?

 

O era quello che volevo io…?

A volte, quando l’aiuto degli amici non è sufficiente a rimettere un infido peccatore sulla retta via, quando neanche a sbattere contro i propri errori uno si rende conto della loro solennità, quelle volte, invocato o meno, è il destino che ci mette la mano per cercare di far rinsavire colui che ha perso totalmente il contatto con la realtà e pensa solo a incorrere in nuovi, mastodontici errori per coprire quelli più piccoli.

 

È un po’ come coprire un tatuaggio con uno più grande, e poi con uno più grande ancora, finché tutta la pelle diviene nera e della sua originale autenticità, della possibilità di impallidire per la paura o arrossire per la vergogna non resta assolutamente niente.

 

Ma il destino, a volte beffardo, a volte cinico e infido, a volte pervaso da una saggezza ancestrale, che va oltre il singolo e abbraccia il tutto armonizzandolo con lo scorrere del tempo, purtroppo non è di parte, non fa il tifo per nessuno, non ascolta le preghiere di chi è colto dal panico.

Il destino agisce e basta e, alle volte, si meraviglia lui stesso di quel che riesce a combinare…

 

Davanti a me, coperta da un filare di alti cipressi scuri, si confondeva nella tormenta di neve l’imponente villa di Aro dei Volturi.

Apparentemente simile ad un antico cascinale, nei secoli rimaneggiato fino ad assumere le fattezze di una classica villa medicea rinascimentale, armonizzata nel territorio toscano al punto di apparire ‘normale’, la villa di Aro era collegata a Volterra da una fitta rete di cunicoli sotterranei, dei quali solo pochi conoscevano l’esistenza. Io, che potevo leggere nella mente di chiunque, lì a Volterra, li avevo scoperti per caso, una volta che Sulpicia aveva tentato una fuga amorosa con uno dei suoi innumerevoli servi-amanti.

Non sapevo dove sbucassero i passaggi segreti, ma certamente li avrei trovati e mi avrebbero portato dritto da Aro: se Bella era a Volterra, niente di più scontato che fosse insieme a lui, altro pretendente nella gara di polli che le razzolavano attorno. Tra tutti, forse, io ero il più ottuso e lunatico: dopo averla lasciata andare via, dieci anni prima, perché le risparmiassero la vita e non la trasformassero, adesso la cercavo per portare a termine quella missione e farla mia per sempre.

 

Patetico.

Cinico.

Egoista.

 

Forse semplicemente ancora irrimediabilmente innamorato, Edward?

 

Sentii le mie labbra tendersi in un sorriso, alla constatazione della reale causa della mia impulsività e di quel turbine di sentimenti contrastanti e irruenti che mi stravolgevano umore e intelletto. Era così: ero innamorato pazzo, folle dalla voglia di rivederla, adesso che la sapevo così vicina. Lei non… Bella non era mai più stata così vicina a me, da quando l’avevo allontanata, affidandola a mio padre. Era qui, con me, ma non reale: era fatta della materia dei miei sogni, offuscati nel tempo dalle vicissitudini e maledizioni che ci avevano inflitto, Ma… era solo un sogno: l’ultimo vero sogno che ancora custodissi nei cassetti del mio cuore.

E quindi, era così importante prevedere e disegnare i piani della mia vendetta? Era davvero così importante avere una vendetta, adesso che potevo almeno rivederla e toccarla e inspirare il suo profumo a lungo agognato?

Il vento aveva iniziato a soffiare forte e gli alberi, come in posa per una fotografia di gruppo, chinavano le loro chiome dalla mia parte, mentre i fiocchi di neve si schiacciavano sul mio viso, portando con sé gli odori della campagna lontana. Potevo sentire quello che mi avrebbe atteso, come un leone che fiuti le tracce nella savana, mentre la confusione che mi stava aggrovigliando i pensieri veniva quasi spazzata via, dimenticata alle mie spalle. Avrei deciso al momento opportuno cosa fare e come comportarmi: l’importante era trovare Bella e metterla al riparo almeno dalla battaglia.

Tutto il resto sarebbe venuto dopo.

 

Se il destino lo avesse permesso…

 

Qualcosa, in lontananza, si mosse lentamente, sbucando di soppiatto tra le siepi che delimitavano uno dei vialetti di accesso alla villa. Ci ero passato davanti, poco prima e avrei potuto giurare che non ci fosse nessuno.

Eppure, sull’orlo del vialetto, stava una donna, di spalle: i suoi capelli scuri e scarmigliati venivano strapazzati dal vento, mentre si teneva stretta le braccia attorno alla vita, coprendosi con il maglione che indossava.

Era una macchia rossa nella notte grigia e bianca, come il petalo di una rosa caduto per la tempesta, come una goccia di sangue su una foto in bianco e nero.

Capii che avevo trovato quello che cercavo quando si voltò verso di me e, senza vedermi, rabbrividì, tirò su col naso e prese a camminare con passo incerto nella mia direzione.

Capii che era Bella senza che la riconoscessi davvero, per tanti piccoli particolari che mi avevano accompagnato nella lunga notte della mia vita a Volterra.

Il passo incerto, lo sguardo che guizzava da una parte all’altra, senza trovare riposo, il modo con cui si passava le mani sul viso, per liberarlo dai capelli bagnati, il battito ovattato del suo cuore.

Fui assalito da un capogiro oppure, come diceva Aro schernendo i suoi condannati, dalla mano umana che tornava ad accarezzare la vita un attimo prima che finisse, e mi parve che la neve, il vento, la battaglia, Volterra, tutto attorno a me stesse svanendo, per lasciare spazio a quell’istante bramato da anni e sognato nel profondo del mio cuore da sempre.

 

Bella. La mia Bella.

 

Avrei dovuto andarle incontro, vincere la forza del vento e inspirare il suo profumo, stringerla in un abbraccio infinito, farle capire che ero io, che ero lì, che non avrebbe più dovuto avere paura di nulla, invece riuscivo solo a rimanere immobile, nascosto nell’ombra, guardandola avvicinarsi inconsapevolmente a me.

 

Lei si voltò, controllò che nessuno la stesse seguendo, tornò a guardare avanti a sé e accelerò il passo.

-Maledizione…-, la udii imprecare piano, la voce rotta dalla paura, dalla rabbia, dal dolore, -Cos’ho fatto… Cos’ho fatto!-, inciampò in un avvallamento del terreno, si aggrappò alla siepe vicina a sé, inspirò profondamente e riprese a camminare svelta, tenendo una mano avanti per sicurezza e l’altra lievemente posata sul ventre.

 

Stai male, mia Bella? Provi dolore?

 

-Dove siete…?-, sussurrò addolorata, -Dove siete tutti?-, urlò un istante dopo, carica di rabbia e, dopo aver portato le mani alla testa, le lasciò di scatto ricadere lungo il corpo, tornando a guardarsi intorno.

Sembrava spaesata e infreddolita, sconvolta dagli avvenimenti che stavano vorticando attorno a lei, o forse solo dalla sua condizione fisica. Di nuovo il vento virò e portò alle mie narici il profumo indimenticabile e inconfondibile del suo sangue.

Come ero stato attratto in maniera bestiale dalla sua carne morbida la prima volta che l’avevo incontrata sui banchi di scuola, così la gola prese ad ardere ferocemente. Mi schiacciai contro il tronco di una grossa quercia battuta dal vento, trattenendo il respiro, affondando le unghie nel legno, attendendo che quella micidiale arsura cessasse. Mi sforzai di ricordare i momenti dolcissimi passati con Bella, quando eravamo entrambi due ragazzi e solo allora constatai quanto gli ultimi dieci anni avessero gravato su di me più di tutti i precedenti, vissuti nel corpo ingrato in cui ero stato costretto. Ero profondamente cambiato, scioccato dalle privazioni e dai miei errori, ma non ero certo di poter dire di essere maturato, grazie ad essi. Ero stato un giovane impulsivo e sanguigno e, in fondo, non ero cambiato. Avevo conquistato la fiducia di tanti valorosi vampiri, ma ero sempre Edward il diciassettenne lunatico e iper reattivo. Ogni volta che credevo di aver fatto un passo avanti verso la maturità, cedendo alla ragione e alla voce del cuore, piuttosto che ai miei istinti, succedeva qualcosa che non riuscivo a controllare, che mi faceva nuovamente precipitare nella sensazione di eterna lotta contro tutto e nell’inadeguatezza in cui ero cristallizzato, come un qualunque adolescente.

Aprii gli occhi che avevo serrato e, cautamente, mi decisi a respirare di nuovo l’odore di cui stava saturandosi la mia piccola bolla d’aria; Bella era ancora vicina a me, ignara del pericolo che stava correndo a causa della mia sete irrefrenabile. Mi resi conto che si era fermata e mi voltai a guardarla, restando nascosto nell’ombra, complici le nuvole, che avevano oscurato la luna: stava immobile con la testa bassa e, alla poca luminescenza della notte,  sul suo viso brillavano grosse lacrime di dolore.

Era sempre la mia Bella, eppure era così cambiata… I lineamenti si erano fatti adulti e, nonostante si fosse ammorbidita, il suo viso appariva più spigoloso di quando aveva solo diciotto anni. Il suo petto si alzava e si abbassava ad ogni singhiozzo silenzioso e i capelli erano più corti di come li ricordassi. Stava mordendosi il labbro inferiore, proprio come faceva allora, sforzandosi di trovare la forza di avanzare nella notte. Era sola, indifesa, in pericolo di vita.

 

Non potevo lasciarla così…

 

Cautamente uscii dal mio nascondiglio, facendo violenza su me stesso per non cedere all’obnubilante profumo della sua pelle e del suo sangue e avanzai verso di lei; dovetti percorrere una decina di passi, prima che si accorgesse che qualcosa stava muovendosi nel bosco vicino a lei e tendesse muscoli e orecchie per prepararsi a spiacevoli incontri. Indietreggiò fino a scontrarsi con la siepe di alloro e la vidi iniziare a tremare, allora deglutì, passò ancora una mano sul viso a cancellare le lacrime versate e pigolò: -Carl…?-

 

Una fitta di dolore stracciò la forza di cui mi ero vestito prima di mostrami a lei e mettere da parte, almeno per un po’, la furia iraconda che mi aveva trascinato fino al confine del bosco: nonostante tutto, Bella chiamava Carlisle.

Nonostante tutto, quello che fino ad allora avevo solo immaginato, visto nelle visioni di Alice e sentito dire, era vero e bruciava come sale sulle ferite… Dio, quanto era atroce sapere che la mia Bella era stata irretita e tradita proprio da quel padre che l’aveva accolta nella sua casa come una nuova figlia!

 

Mi fermai di colpo, indeciso se affrontare l’incontro con lei oppure scappare come un codardo, come avevo sempre fatto in vita mia.

 

-Carl…? Sei tu…?-, sussurrò ancora, strappando senza rendersene conto alcune foglie, strette nelle sue mani contratte. Non potevo andare via e lasciarla lì… non potevo, anche se era così difficile…

 

Avanzai ancora e finalmente lei mi vide: nel buio della notte non mi riconobbe finché non fui sufficientemente vicino e la chiamai.

-Bella-

 

Il suono del suo nome, pronunciato dalla mia voce, mi apparve così estraneo, dimenticato nel corso del tempo e cancellato dalla rassegnazione. Mi fermai a pochi passi da lei e la osservai sgranare gli occhi, portare una mano alla bocca e trattenere il respiro, fissandomi sconvolta.

 

-Bella… sono Edward…-, le parlai, mantenendo la voce bassa e calma, per non spaventarla ancora di più, ma lei face un passo indietro, come se volesse nascondersi dentro la siepe… come se cambiasse qualcosa…

 

Coprii la distanza rimanente e mi fermai a guardarla: tenevo le mani sollevate in segno di resa per mostrarle che non avevo intenzioni di farle del male e vidi che non mi stava guardando in viso. Era come pietrificata. I miei occhi scesero sulla mano destra, dalla quale cadevano alcune piccole gocce di sangue.

Strinsi le mascelle per non cedere ai miei impulsi e ripetei mentalmente come quel liquido scarlatto a lungo agognato avrebbe potuto rappresentare solo la mia fine.

-Bella…-, sussurrai ancora, ormai succube della sua figura tanto desiderata negli anni. Si era fatta ancora più bella, morbida e formosa, arricchita dalla saggezza del tempo che a lei era sicuramente riuscito ad insegnare qualcosa. Non si muoveva, ma il suo cuore crepitava, tanto batteva rapido.

Lentamente, senza gesti avventati, allungai una mano verso il suo viso finché non sfiorai con la mia mano il suo mento liscio e caldo; le feci alzare lo sguardo verso di me e rimasi incollato ai suoi occhi per un istante infinito.

 

I suoi occhi…

 

In un baleno rividi tutti i momenti vissuti insieme, fuggiti dai cassetti della mia mente come fantasmi dispettosi; rividi i suoi occhi innocenti e speranzosi, gli occhi angosciati che mi avevano catturato a Volterra, gli occhi colmi di una tristezza infinita, quando l’avevo abbandonata.

 

-Edward…-, mormorò incredula.

 

Un istante dopo roteò quegli occhi all’indietro e svenne tra le mie braccia.

 


***

 ... to be continued...

 

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Disclaimer: i personaggi e gli argomenti trattati appartengono totalmente a S. Meyer. La storia è di mia fantasia e non intende paragonarsi a quella concepita e pubblicata da S. Meyer.

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Twilight, New Moon, Bella Swan, i Cullen, i Volturi, Stefan e Vlad, il Clan di Denali, il Wolf Pack dei Quileute sono copyright di Stephenie Meyer© Tutti i diritti riservati.

La storia narrata di 'Proibito', le circostanze e quanto non appartiene a Stephenie Meyer è di invenzione dell'autrice della storia che è consapevole e concorde a che la fanfic venga pubblicata su questo sito. Prima di scaricare i files che la compongono, ricordate che non è consentito né il loro uso pubblico, né pubblicarli altrove, né la modifica integrale o di parti di essi, specialmente senza permesso! Ogni violazione sarà segnalata al sito che ospita il plagio e verrà fatta rimuovere.
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Dedico questo capitolo ad una mia meravigliosa lettrice che oggi compie gli anni.
Oggi che Firenze e la Toscana sono ricoperte di neve, proprio come l'avevamo lasciate a... giugno, con l'ultimo aggiornamento di Proibito!
Un bacio grande a 'lei sa chi' e un mega grazie a tutte voi.



   
 
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