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Autore: chiaki89    19/12/2010    5 recensioni
Sono passati sei anni dall’arrivo dei Volturi. Leah, unica donna fra i licantropi, è sempre più insofferente verso tutto ciò che la circonda, nonostante ci siano stati piccoli miglioramenti.
Ma l’arrivo di un vampiro mai visto nella zona sconvolgerà di nuovo tutto.
Chi è Jeremy? Perché è arrivato a Forks?
Queste domande diventano superflue quando Leah si ritrova costretta con l’inganno a sorvegliarlo quotidianamente.
Ed è l’inizio di una nuova storia, nella quale incontrerete ancora tutti i personaggi che avete amato, e anche qualcuno in più.
“Quando il vampiro platinato si voltò ebbi la soddisfazione di vederlo stupito per un secondo buono. Presi fiato per dare libero sfogo alla mia volgarità ma lui mi precedette con una risata decisamente maleducata.
“E così, quel cosino è un lupo? Avete anche donne-lupo? Ridicolo! Inaudito!” continuò a sghignazzare.
“Ehm, lei è l’unica…” rispose cautamente Jacob, guardandomi.

[…]
Raccolsi un grosso masso di granito e lo scagliai con precisione. Gli staccai di netto un braccio. Mi permisi di rivolgergli un sorriso compiaciuto, consapevole che stavo giocando col fuoco.”
Tratto dal cap.3
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Leah Clearweater, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Successivo alla saga
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Harvest Moon'
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FUNERALE

 

 

 

Mi svegliai nel mio letto, terribilmente indolenzita. Sentivo gli occhi doloranti e gonfi, e una morsa al petto che impiegai due minuti buoni per riuscire ad identificare.

I ricordi si riversarono tutti insieme nella mia mente assonnata, in una valanga travolgente. Non bianca, ma nera. Non una valanga che celava le cose, ma una che le portava in superficie con nitidezza dolorosa.

Alla realtà non si poteva sfuggire.

Mi avviai con passo pesante in cucina, senza avere davvero intenzione di mangiare. Sapevo solo che avevo bisogno di sentire qualcuno accanto a me, anche se non l’avrei mai detto ad alta voce.

Mi sedetti al tavolo davanti a Seth, che rimirava assorto il cibo nel suo piatto: un comportamento decisamente anomalo. La mamma si aggirava per la stanza, sistemando cose che non necessitavano di essere sistemate. Eravamo un piccolo nucleo di dolore che si univa per non collassare su se stesso.

“Oggi arrivano Sheila e Jonathan.”, disse mia madre. Annuii debolmente, immaginando lo strazio che aveva sicuramente provato nel comunicare ai genitori di Joshua la morte del figlio.

Strinsi forte la forchetta che non stavo utilizzando. Si piegò con un cigolio sordo.

Ma nessuno disse niente.

“Quando?”, sbottai.

“Domani.”, rispose la mamma. E tornò il silenzio.

Solo ieri mattina eravamo a colazione insieme, io stavo ancora fingendo di essere offesa con Joshua…

Sono una deficiente.

Se l’avessi saputo…sarebbe stato tutto diverso. Non mi sarei comportata da stupida orgogliosa, non avrei fatto l’acida solo per il gusto di dimostrare –mentendo palesemente- che i suoi tentativi di cambiarmi non stavano dando dei frutti.

Mi veniva da vomitare al pensiero di quanto ero stata stupida. Un disgusto per me stessa che non avevo mai provato prima d’ora. Quando era morto mio padre era stato diverso, sentivo di non avere rimpianti; solo un immenso dolore.

Ma per quanto riguardava Joshua…

Frenai il corso dei pensieri immediatamente, per impedire al ricordo di mio cugino di lacerare quel velo di razionalità che ancora riuscivo a mantenere.

Autoconservazione.

Ero straordinariamente abile a riguardo: anni di esperienza.

Mi alzai di botto, ignorando colpevolmente il sussulto di mia madre a quel mio gesto così improvviso.

Autoconservazione.

Tornai in camera, senza un motivo. Mi sentivo come sabbia erosa dal mare, da ondate di dolore che salivano sempre più alte, più invadenti. Una marea scura e soffocante.

Il mio pugno si abbatté sulla scrivania con una forza inaudita, spaccando il legno e facendo volare schegge in tutte le direzioni. Alcune si conficcarono nella mia pelle, ma non me ne curai.

Mi sedetti poi sul letto, mettendomi le mani nei capelli. Cercavo nella mia mente, con frenetica disperazione, il barlume della mia vecchia forza che mi avrebbe fatto rimanere in piedi, anche questa volta.

La mia acidità, la mia irritabilità, il mio essere “dura”.

Ma la realtà era che non avevo voglia di trovarlo. Una stanchezza più interiore che esteriore mi fiaccava, impedendomi di rintanarmi, come avevo sempre fatto, dietro la mia resistente corazza.

Ero stanca di essere qualcosa che non ero, o almeno non fino in fondo.

Joshua aveva ragione.

La Leah che aveva vissuto negli ultimi sette anni…semplicemente non era Leah.

Non ero io.

Era una maschera e un’armatura senza un’anima a sostenerle. Avevo nascosto il più a fondo possibile, dentro al mio cuore, tutto ciò che pensavo mi rendesse debole; avevo forgiato e manipolato come metallo tutto ciò che ritenevo mi rendesse forte ed invulnerabile nei confronti del mondo.

Stupida.

Avevo esagerato, ora lo sapevo. E lo dovevo solo a Joshua.

Mi morsi un labbro, fino a farlo sanguinare. Ma si rimarginò immediatamente.

Imprecai.

Non potevo neanche avere il beneficio del dolore fisico.

Lo scricchiolio della ghiaia schiacciata dalle ruote di una macchina mi distrasse. Il rombo del motore, dapprima fioco persino alle mie orecchie, crebbe sempre di più. Quando udii due portiere sbattere compresi che non potevo più temporeggiare.

Feci il percorso inverso e scesi giù per le scale, lentamente.

L’immagine che mi si presentò di fronte mi colpì con la forza di un maglio, più nitida di ogni fotografia.

Nell’ingresso c’erano i genitori di Joshua, devastati dal dolore.

Sheila stringeva forte mia madre, lacrime copiose cadevano dai suoi occhi scuri e scorrevano sul viso delicato. I lunghissimi capelli, che arrivavano fin quasi alla vita, erano opachi e annodati, come se li avesse torturati tutto il tempo.

Era l’ombra di se stessa.

Jonathan le stava accanto con lo sguardo fisso, senza vedere in realtà nulla. La mascella forte innaturalmente tesa, gli occhi rossi e i pugni stretti in una morsa dolorosa.

Mi fermai a metà della rampa, senza riuscire a smettere di guardarli. Loro erano la realtà che scavava un buco sempre più profondo nella mia mente, fino ad arrivare al luogo in cui mi tentavo di barricare, rifiutando ciò che era successo.

Ma non c’era via di scampo, non c’era nascondiglio.

Joshua era morto, e non sarebbe più tornato.

***

Il funerale si tenne direttamente nel tatilhtal, come chiamavamo noi Quileute il cimitero della riserva.

Il consiglio degli anziani aveva deciso di concedere un grande onore a Joshua: benché lui non fosse un Quileute a tutti gli effetti, avrebbe ricevuto la stessa sepoltura.

Un cugino, per me. Un fratello, per tutti.

Cercai di isolarmi da tutto quello che stava succedendo. Non volevo vedere Sheila e Jonathan che piangevano, aggrappati l’uno all’altra; non volevo sentire le nocche scricchiolanti dei miei amici, mentre serravano i pugni in modo convulso.

Non volevo avvicinarmi a mia madre, che stringeva forte il braccio di Seth come se fosse stato un bastone a cui sostenersi: i loro volti erano lucidi dalle lacrime.

Io non potevo far altro che rifugiarmi nella mia testa e trovare conforto da sola.

Non potevo dimostrare fino in fondo quello che stavo provando: l’avevo già fatto quel giorno, piangendo davanti a vampiri e licantropi, senza distinzione. Ora non potevo concedermi di mostrare dolore.

Come potevo farlo, se c’era chi soffriva più di me? I genitori di Joshua erano quelli che avevano subito il trauma più grande, il cordoglio di tutti andava indirizzato a loro.

Non a me, semplicemente la cugina del defunto, che non era stata neanche capace di essergli amica…una stupida che l’aveva spinto via quando in realtà voleva solo essere raggiunta dal suo buon cuore.

Basta.

Adesso basta.

Era inutile lagnarsi in quella maniera. Mi mossi a disagio, sentendomi troppo stretta in quel vestito nero che mi ero costretta ad indossare. Il tessuto aderente mi strofinava la pelle, la soffocava, dandomi una sensazione terribilmente spiacevole: terribilmente simile al dolore che stavo provando.

Un odore bruciante mi distrasse lievemente.

Voltai un poco lo sguardo alle mie spalle, scorgendo in lontananza i Cullen. Erano venuti anche loro, benché non ne comprendessi il motivo.

Rosalie era la più vicina. Si era mossa diversi passi avanti rispetto alla sua famiglia, senza curarsi del fatto che stava sconfinando.

Mi guardava negli occhi, immobile e perfetta nel suo abito da lutto. Non l’avrei ammesso neanche sotto tortura, ma ero felice che fosse lì.

Jeremy era a metà strada tra lei e gli altri vampiri: gli lanciai un’occhiata fuggevole. Non mi stava compatendo. Sembrava che nel suo sguardo ci fosse un dispiacere autentico, forse eco di morti che aveva già visto in passato.

Non me ne curai. Tuttavia feci un breve cenno nella loro direzione.

Jacob si avvicinò lentamente a me e mi mise una mano sulla spalla. La strinse leggermente, senza parlare. Poi mi guardò: le parole non avrebbero saputo rendere tutto ciò che quello sguardo mi stava dicendo. Concessi ai miei occhi di velarsi di tristezza, che stavo nascondendo da ore, ormai; alzai una mano e la appoggiai sulla sua, ancora posata sulla mia spalla.

Una stretta discreta, fraterna, che mi scaldò il cuore.

Ma la lasciai cadere rapidamente, senza fare però nulla quando lui continuò a tenere il suo palmo rovente lì dov’era.

“Grazie”, sussurrai pianissimo, in modo che solo lui potesse sentirmi.

Con grande buonsenso, cercò di mascherare la sua sorpresa: non era proprio il momento per le battute stupide.

Tornai a guardare la solenne cerimonia. Il vecchio Ateara aveva appena finito di parlare e la bara cominciava ad essere calata nella fossa profonda.

Il tonfo del legno che toccava il fondo riverberò dolorosamente nel mio cuore, che diede un battito più forte. Deglutii, chiudendo gli occhi, e fui attraversata da un breve tremito.

Lentamente, ogni persona si avvicinava alla fossa e lanciava una manciata di terra, accompagnata da parole sussurrate a mezza voce o da lacrime che gridavano un muto dolore.

Mi svincolai dalla stretta di Jacob e raccolsi un pugno di polvere brunastra.

Un passo davanti all’altro, Leah, ce la puoi fare.

Guardai, con sottile paura, il buco nero davanti ai miei piedi.

Simile alla voragine che ho dentro.

Aprii le dita: le avevo strette così forte che adesso, a rilassarle, facevano male. La terra cadde sul coperchio di legno chiaro, tamburellando come gocce di pioggia.

Addio, Joshua.

“Possa il tuo spirito vegliare sempre sulle persone che ti hanno amato”, declamò il vecchio Ateara.

È vero, non è un addio.

Tornai al mio posto, accanto alla mamma e a Seth, e mi estraniai di nuovo.

Mi riscossi solo quando udii i gemiti di Sheila e Jonathan farsi più alti, mentre la fossa veniva finalmente riempita. Ogni rumore si impennò, diventando più sottile e più vivido, penetrando nell’aria e riempiendo ogni spazio.

Potevo sentire il suono delle lacrime che scendevano sulle guance di mia madre.

E poi, il nulla.

***

Ci spostammo, sparsi come oggetti alla deriva, verso First Beach.

Un ultimo rito andava svolto, secondo le tradizioni Quileute. Ognuno di noi aveva portato qualcosa che ci ricordasse Joshua; io stringevo il piccolo lupo di legno che spesso ci contendevamo, durante la nostra infanzia. Un presagio del mio futuro.

Una canoa era arenata sulla spiaggia e, lentamente, tutti ci avvicinammo. Uno per uno, tutti i nostri ricordi di Joshua vennero adagiati sul fondo: una foto, un bigliettino, la sua felpa preferita…anche il lupo di legno.

Restammo fermi per un momento interminabile, poi il vecchio Ateara pronunciò le parole che chiudevano la cerimonia. E che erano impresse nella mia memoria, dal funerale di mio padre.

Papà…mi manchi.

“Che il mare, culla di vita, porti via tutto ciò che ancora ti lega a questa vita terrena. Possa il tuo spirito essere libero e ritornare parte del tutto.”.

E con una spinta delicata la canoa venne affidata alle acque. Silenziosi, la osservammo avvicinarsi a James Island, il luogo dove i nostri antenati erano sepolti da tempi immemorabili. Sfiorò lievemente la costa rocciosa, illuminata dal bagliore aranciato del sole morente, e poi filò rapida verso il largo.

Come se avesse ricevuto una benedizione.

In pochi minuti, della canoa non rimase che un puntolino scuro in lontananza, immerso nella luce violenta del tramonto; restammo immobili finché non sparì del tutto.

Guardai un attimo Seth, cercando di spiegargli con gli occhi che volevo tornare a casa da sola. Lui parve capire, perché annuì.

Misi un piede davanti all’altro, beandomi dell’automatismo della cosa: il non pensare mi dava sollievo. Ma dovevo sapere che il destino non amava concedermi dei momenti di tranquillità.

Fatti pochi passi incrociai un volto conosciuto: Andrew, il ragazzo che Joshua difendeva. Si stava torcendo le mani e mi guardava con sguardo dubbioso, facendo scattare gli occhi dalle proprie dita intrecciate al mio viso inespressivo.

Forzando me stessa, decisi di avvicinarmi.

“Le mie condoglianze”, sussurrò contrito. Lo osservai con aria di sufficienza: tutto qui quello che aveva da dire? Dal suo atteggiamento mi sembrava tutt’altro. Feci per andarmene.

“No!”, esclamò. Poi abbassò lo sguardo, mortificato. “Cioè, volevo dire, aspetta un attimo, per favore.”.

Lo guardai, incrociando le braccia, senza dissimulare la mia impazienza: quel ragazzo non aveva colpa, ma io ero una bomba in procinto di esplodere. Non riuscivo a comportarmi diversamente.

“Ecco, giusto ieri sono arrivate nuove prove che mi scagionano da tutte le accuse.”, disse titubante.

Sentii, inaspettatamente, il sollievo allargarsi nel mio petto. Joshua aveva ragione, non si era sbagliato riguardo a quel ragazzo. Aveva visto la verità, dove tutti erano ciechi.

“Sono felice per te, Andrew”, risposi, sforzandomi di essere vagamente gentile.

Il suo viso parve illuminarsi. “Devo tutto a Joshua. Forse anche questo.”. Compresi quello che stava dicendo: lo spirito di mio cugino forse era intervenuto, chissà. Tutto era possibile, nel mio mondo.

“Ma ho deciso che voglio fare di più. Joshua ha fatto tanto per me, e vorrei portare avanti una parte di lui, una parte dei suoi desideri.”. Sorrise con dolcezza, un po’ imbarazzato. “Voglio diventare un avvocato e fare per gli altri quello che Joshua ha fatto per me. Forse non varrà molto, ma  è il minimo che posso fare per ringraziarlo.”.

Tentai di ignorare il groppo che mi si era formato in gola.

Forse non tutti i sogni di Joshua sono perduti.

Gli posai una mano sulla spalla, lasciando che quello che stavo provando facesse capolino per qualche istante sul mio viso. Pochi istanti, ma sufficienti affinché lui capisse.

“Credimi, vale molto. Buona fortuna, Andrew.”. E me ne andai senza voltarmi più indietro. Il suo grazie raggiunse le mie orecchie quando ormai ero troppo lontana per l’udito umano.

Ero quasi arrivata ai margini della foresta quando un’altra voce mi raggiunse.

“Leah!”. Mi voltai per incrociare gli occhi dorati di Rosalie. Si avvicinò rapidamente, posando una mano gelida sul mio avambraccio in un gesto impacciato –impacciato? Rosalie?- e lieve. Il suo modo per confortarmi.

“Ciao, Rosalie.”, risposi senza scostarmi da quel contatto.

“Non azzardarti a sentirti in colpa. Hai capito, lupastra?”. Ma non c’era derisione nelle sue parole, solo una sincera preoccupazione ed una velata rabbia.

Scossi la testa. Come faceva, tutte le volte, a cogliere i miei timori più profondi? Era impossibile che si facesse aiutare dal leggipensieri, giusto?

“Ci proverò.”. Lei strinse più forte poco sopra al mio polso.

“Non essere stupida, Leah Clearwater. Sai benissimo che non potevi fare più di quello che hai fatto.”.

Grugnii in modo poco elegante e lei sbuffò. “Anzi, forse è meglio che sia andata a finire così.”, rifletté ad alta voce. Io spalancai gli occhi, improvvisamente furiosa. Come si permetteva di dire una cosa del genere? Amica o no…

“La pianti di reagire così, Leah? Ormai dovresti conoscermi…”, sussurrò un po’ piccata. “Ho un motivo per dirti una cosa del genere.”.

Incrociai le braccia, sfidandola con lo sguardo. “Davvero?”, sibilai.

“Riesci davvero ad immaginarti come sarebbe diventato tuo cugino, se Carlisle fosse riuscito a fare ciò che gli avevi chiesto?”, esclamò. “E come si sarebbe sentito Joshua, nel diventare un vampiro neonato assetato di sangue? Te lo sei domandato?”.

Certo che ci avevo pensato. Per non più di cinque secondi, comunque. Volevo solo che Joshua continuasse a vivere.

Anche una non-vita.

Tentai di immaginarmi Joshua come un vampiro.

Quanto avrebbe sofferto nello scoprirsi una macchina per uccidere con l’istinto per il sangue? Quanto sarebbe cambiato nel carattere? Sarebbe rimasto lo stesso Joshua?

“Non sarebbe rimasto lo stesso, Leah.”, disse Rosalie, intuendo i miei pensieri. “La trasformazione ci cambia: alcuni di più, altri di meno. Ma da quello che le tue parole mi hanno fatto capire, un carattere come quello di Joshua non sarebbe stato immune ai cambiamenti che avrebbe provocato la trasformazione. E tu lo sai.”. Strinsi i pugni, consapevole che quello che stava dicendo era la verità. Eppure non volevo accettarla. Io volevo che Joshua vivesse…

Egoista.

Ma lui ne sarebbe stato felice? Avrebbe accettato una vita del genere?

Probabilmente no.

Sospirai. “Avresti davvero voluto che anche lui facesse parte di questo incubo sovrannaturale, Leah?”. Rosalie diede l’ultima stoccata. Che andò puntualmente a segno.

Scossi nuovamente la testa. No.

Lei sorrise dolcemente, per una volta. “Io avrei preferito morire, piuttosto che diventare un vampiro immortale. Ma non ho avuto scelta. Forse, questa volta, il destino è stato più saggio di noi.”.

Si guardò rapidamente intorno, poi mi abbracciò per un istante brevissimo. Un abbraccio lieve e delicato, quasi impossibile da percepire: mi lasciò comunque scioccata.

“Vai a casa a riposarti, lupastra. Alla sorveglianza pensiamo noi.”, disse brusca, in un rapido ritorno alle sue vecchie maniere. Alzai un angolo della bocca, accennando un sorriso. Lei mi diede una pacca sulla spalla, molto leggera, spingendomi ad andare.

Avevo fatto pochi passi quando una mano si materializzò improvvisamente di fronte a me, bloccandomi senza toccarmi. Alzai gli occhi, incontrando quelli marroni di Jeremy.

Marroni? Ah, già. Le lenti a contatto.

“Mi dispiace.”, disse semplicemente. Cioè, mi aveva fermato solo per questo? Assottigliai lo sguardo, per fargli capire quanto poca fosse la mia pazienza, soprattutto in quel momento.

“Non sei debole, Leah. E non hai fatto le scelte sbagliate.”, aggiunse lui, con un sorriso mesto. Lo fissai un istante, completamente stupefatta.

Come l’aveva capito? Come aveva fatto a comprendere alcuni dei miei più profondi timori, proprio come aveva fatto Rosalie? Abilità vampiresca, probabilmente. Bah.

Agitai la mano, noncurante, e ricominciai a camminare, superandolo.

“A presto, Leah”.

Sbuffai. Certo, contaci.

E corsi verso casa.

***

Ogni giorno era uguale all’altro.

Sveglia, colazione, apatia, pranzo, apatia, cena e sonno.

Poi tutto si ripeteva.

Nessuno osava dirmi nulla. Jacob ogni tanto passava a vedermi, a volte da solo, altre volte con i fratelli del branco.

Ma ancora non era il momento di uscire dal mio letargo di dolore. Volevo solo concedermi un po’ di tempo, era così difficile da capire? Il tempo per leccarmi le ferite, il tempo per accettare che una persona che amavo molto non sarebbe più tornata; il tempo per abbracciare l’idea che ero cambiata, che ero diventata più simile alla Leah pre-Sam.

Ne ero contenta? Non lo sapevo, non lo capivo. Mi serviva solo del tempo.

Al quinto giorno dopo il funerale mi telefonò Rosalie. Per una volta mi ritrovai a detestare il patto di non invasione Cullen-Quileute: avrei preferito vederla, piuttosto che parlare attraverso quell’aggeggio che odiavo.

Non le spiegai tutto, ma lei parve capire. “Sentimi bene, lupastra. A volte ci sono domande che non devono per forza trovare una risposta. L’importante è andare avanti ed agire, non fossilizzarsi dentro il proprio cervello in attesa che le risposte ti cadano in testa come un meteorite! Davvero, Leah, se non la pianti di fare la reclusa ti verrò a prendere per i capelli, patto o no. Me ne frego.”.

Eccome se se ne fregava. Rosalie era davvero fatta così: non dubitai neppure per un istante delle sue minacce.

Però da qui a darle soddisfazione…

“Ci penserò, succhiasangue.”, risposi asciutta. Lei sibilò e mi parve di sentirla digrignare i denti. “Arrangiati, lupastra dei miei stivali!”, e mi sbatté il telefono in faccia.

Restai a guardare la cornetta, sorridendo in solitudine.

***

Cinque minuti dopo sfrecciavo nella foresta, diretta verso casa Cullen. Come sempre, correre mi rilassava. Il pensiero di Joshua era fisso nella mia mente, eppure, più che bloccarmi, stava diventando un talismano che mi aiutava ad andare avanti. Lui avrebbe voluto così. Inspirando a fondo l’odore della boscaglia mi accorsi di un altro odore; poche falcate dopo ne incontrai il proprietario, che sorrise allegramente nel vedermi arrivare.

“Bentornata, lupacchiotta. Ti stavo aspettando.”.

Puntai il naso per aria, in un gesto sprezzante, mentre Jeremy ridacchiava. Incrociai le braccia e lo osservai con blando interesse; feci un paio di respiri lenti, raccogliendo il coraggio e tentando di accantonare, per qualche secondo, il mio orgoglio. Lui mi guardava palesemente incuriosito.

“Grazie.”, gli sputai addosso, quasi fosse un insulto.

L’idiota dai capelli troppo biondi non si preoccupò di nascondere lo stupore: lo guardai male. Maledetto. Poi lui scoppiò a ridere. “Hai davvero un modo tutto tuo di ringraziare, lupacchiotta! Comunque, prego.”. Distolsi lo sguardo, nervosa. Mi scocciava il fatto di aver ringraziato un succhiasangue anche se, in fondo, glielo dovevo.

Lo sentii avvicinarsi e portai di scatto i miei occhi su di lui, minacciosa. L’imbecille non ne parve minimamente toccato, comunque. “Anche Rosalie ti sta aspettando.”, disse invece. Annuii e, senza dire altro, ricominciai a correre verso la casa delle sanguisughe. Lui mi seguiva senza sforzo, perciò accelerai. Lo sentii ridacchiare distintamente, mentre aumentava di risposta il ritmo della sua corsa.

“Comunque non dovevi ringraziarmi, davvero.”, riprese, incapace di stare zitto. Gli scoccai un’occhiataccia, ma evidentemente non se ne avvide.

“Insomma, ho una naturale propensione a soccorrere le fanciulle in difficoltà, era ovvio che…”. Una spallata, e l’imbecille volò dentro ad una pozza di melma. Ridacchiai compiaciuta e continuai la mia corsa senza preoccupazioni.

La sua voce mi raggiunse poco dopo. “Bentornata, Leah.”.

 

 

 

*Note dell’autrice*: rieccomi qua, con solo un giorno di ritardo sulla tabella di marcia!

Lo so, questo aggiornamento non è un gran che,  è giusto un capitolo di transizione: ci sono poche cose, ma tutte necessarie. Riguardo al rituale del funerale Quileute mi sono documentata: l’ho un po’ modificato rispetto ai riti originari, ma alla fine è molto simile. Spero davvero che vi sia piaciuto.

Il prossimo aggiornamento sarà, di nuovo, tra due settimane, augurandomi di fare in tempo. Colgo quindi l’occasione per farvi i più sinceri auguri di Buon Natale, che possa essere pieno di felicità e belle sorprese!

Ringrazio, come sempre, tutti coloro che aggiungono la storia alle preferite, alle seguite e alle storie da ricordare; mi date davvero un grande sostegno. E un enorme grazie anche a chi legge questa fanfiction in silenzio, spero sempre di regalarvi dieci minuti piacevoli e di relax.

Un ringraziamento speciale a chi recensisce: vi ho già risposto attraverso l’opzione “rispondi”, ma è bello poter rinnovare i ringraziamenti. Nell’ultimo capitolo sono arrivate nove recensioni! Nove! Non potete immaginare quanto mi avete resa contenta! E le recensioni totali sono più di 60!

Davvero, grazie.

 

   
 
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