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Autore: AintAfraidToDie    02/01/2011    6 recensioni
Quale sarà la prova della mia esistenza, se essa scompare con il vento?
Spiegamelo, Daisuke.
Per favore.
[DaixKyo]
Questa storia partecipa all'iniziativa "4 storie... (e un arbitro) - Originali" del gruppo facebook "il Giardino di Efp".
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Die, Kyo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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feast of five senses
Premessa:

"Kyo" è lo pseudonimo del cantante Tooru Niimura. Quindi Tooru e Kyo sono la stessa persona, solo che nella mia testa sono come due entità o personalità ben distinte che albergano in lui. In questa storia "Kyo" (l'adulto) ha preso il sopravvento su "Tooru"(l'adolescente).






“Feast of five Senses.”




<< What will be the proof of my existence, if it disappears with the wind? >>


Te lo chiesi in una fredda notte di Novembre; notte fonda, se non ricordo male - non che io abbia mai avuto una così grande memoria, in effetti: tendevo a dimenticare pure il mio vero nome, talvolta. In fondo Tooru era un nome alquanto stupido, non credi? Mi sono sempre chiesto cosa i miei genitori avessero pensato, affibbiandomelo felici. Un “chissà se gli piacerà” o magari pure “se gli fa schifo se lo tiene comunque”. Ah, Dio. Sento un grande peso scomparso, da quando Tooru non esiste più - può sembrare molto strano, lo so. Quando ero piccolo, mio padre tutti i dannatissimi giorni mi chiedeva com'era andata a scuola, ed io gli rispondevo “normale”. Normale, sì - è quel che ti risponderei anche adesso, se tu mi chiedessi come mi sento.
In realtà non so a quel che realmente mi riferissi, quando scandivo lentamente tali parole, senza guardarlo neppure - so solo che non avevo voglia di parlare, non avevo voglia di raccontargli la mia giornata; non avevo voglia di niente. Quale attuamento migliore, se non rimuovere tutto?
A quel punto, non avrei veramente avuto nulla da dire. Vuoto.
La mia vita era normale. Quel che facevo era normale. Proprio normale come può esserlo un gatto che si lascia pian piano sbranare da un topo, sì. Per te è normale, no? Normale. Io ero normale - eppure odiavo esserlo.

Ed è stata forse tutta questa ostentata normalità, a rendermi così privo di sentimenti?
Rispondimi, tu che ti vanti di sapermi leggere dentro: cos'è che mi rende speciale ai tuoi occhi, Daisuke? Sono un essere prettamente normale - mi cibo di normalità a piccoli morsi e poi mi ci cucio un vestito. Era normale svegliarsi la mattina, mentre mia madre stirava abiti di grosso costo che nemmeno mi ero e sarei mai messo - mio padre intanto guardava stupide ed insulse moto alla televisione, intente nel duellare per un podio di tre posti. Odiavo tutto questo. Lo odiavo da fare schifo.

In realtà odiavo anche tante altre cose. Odiavo il riflesso del mio specchio quando mi sorrideva di rimando - un sorriso di per certo falso, perché io un poco mi conoscevo. Non ho mai avuto voglia di sorridere, però... a volte bisogna saper recitare, nella vita. Questo lo sai anche tu, no? Non sei così immune alla tua esistenza, mi pare. Forse per certi versi ci assomigliamo, io e te. Magari è proprio per tale motivo che tu riesci ad amarmi: alla fine molto probabilmente io sono solo la tua rappresentazione interiore, sicuramente più estremizzata. Ti piace osservare il mio declino pensando al tuo, ti piace vedere fino a che punto riesco a spingermi. Qualche volta riesco ad odiare pure te, Daisuke - come odiavo mia madre, quella madre che prendeva il ferro da stiro e lo spalmava su una t-shirt, perché fingeva di capirmi; come odiavo l'uomo che si autodefiniva mio padre, che nemmeno faceva finta di capirmi.

Capii parzialmente di avere qualche problema - di non essere poi così normale come tutti volevano farmi credere - solo quando arrivai a sentirmi male, un fottuto male fisico. Adoravo starmene ore ed ore intere dentro la doccia, privo di pensieri concreti ed isolato dal resto del mondo: qui ustionavo il mio corpo per mezzo di acqua bollente, cercando di pulirlo da uno sporco che forma concreta non ce l'aveva. Anche quella volta - come altre mille volte avevo fatto; più specificamente trecentosessantacinque per dieci: proprio come avevo fatto altre tremilaseicentocinquanta volte, sì - mi spogliai di tutti i miei abiti e mi infilai dentro al bagno, senza neanche guardarmi allo specchio; forse solo una timorosa occhiata di sfuggita. In realtà riuscivo a spenderci pomeriggi interi, davanti a quello schifoso oggetto; non potevo farne a meno, come una ragazzina malata e scontenta del proprio corpo. Magari quel che io chiedevo al mio riflesso poteva considerarsi una richiesta d'aiuto, un urlo silenzioso: “chi sei tu e cosa vuoi da me?”.

Una sera sognai, sognai veramente: c'ero io, c'era un bisturi ed ero nudo. Tagliavo e ancora tagliavo, senza nemmeno pensarci, senza riflettere sulle conseguenze. Tagliavo anche il naso, le guance, il cazzo. Poi mi guardavo allo specchio - ossi che spuntavano da buchi di carne, viso deturpato e tutto, proprio tutto colorato di rosso - e non mi riconoscevo lo stesso. Quando mi svegliai, ebbi veramente una fottuta paura.

Ci pensai in quell'attimo - quando l'acqua calda cominciò a non esistere più e le mie gambe sparirono; pensai a quel sogno, ed al suo significato. Avrei voluto uccidermi, avrei voluto linciarmi? Ero affetto da qualche strana malattia mentale, ero forse io un non normale? E tutto fu all'improvviso veramente tranquillo, come se mi fosse stata somministrata qualche droga: l'acqua che scorreva, il sapone nei miei capelli che aumentava di volume, lo scroscio del getto e poi... il nulla.

Sapete cosa vuol dire, sentirsi morire? Io l'ho provato - il buio ti devasta ed in un attimo inizi a sentirti infinitamente piccolo, quasi impotente.
Quando la testa comincia a girare la tua forza inevitabilmente se ne va - e puoi anche essere o ritenerti l'uomo più forte del mondo, ma la tua testa gira e giri pure tu. Cosa puoi fare, insulso umano, arrivato a quel punto? Cascare, solo questo. Caschi inesorabilmente per terra, ti abbandoni al pavimento quasi freddo - sarà questa l'unica cosa che riuscirai a portare a termine, l'ultimo atto di una vita patetica. Ti porterai dietro almeno gran parte di tutti i fottuti recipienti di sapone che tua madre teneva nel box doccia, mentre ti accascerai disteso sul piastrellamento, senza nemmeno accorgertene. Continuerai inevitabilmente ad udire, forse pure ad avvertire; ma il resto? Nada o nulla, nothing! E te lo chiederai, cazzo se te lo chiederai: a cosa ti è servita la scuola, quelle tre o più lingue imparate a forza di studio e pomeriggi passati sui libri, se poi arrivi a morire quindicenne dentro ad un fottuto bagno? Magari non avrai risposta e ti dovrai ritenere fortunato; magari invece una vocina avrà il coraggio di parlarti ancora, un'ultima volta in più: a niente, ti dirà con tono freddo. Quindici anni buttati nel cesso, ecco. Pardon!, o meglio dire nel bagno?

Tutto ciò potrebbe forse essere l'abbandono del tuo corpo che se lo lega al dito - se sopravviverai te lo rinfaccerà per sempre, quanto gli hai fatto del male. Perché è questo quel che ho imparato dalla vita, in fondo: quando commetti uno sbaglio nessuno perdona e nessuno dimentica mai del tutto. Nemmeno te stesso.

M'addormentai in quello schifoso scompartimento doccia, credo - so per certo che in qualche modo persi i sensi, scollegai completamente il cervello. Adesso mi duole pure ammetterlo, soffocando il mio orgoglio grazie ad odiose congetture: non pensai nemmeno per un attimo all'ipotesi di mettermi ad urlare - sto morendo, sto morendo dentro al cesso! - e non aprii bocca, se non per mugolare qualche frase sconnessa. Quando tutta la mia vista se ne andò, quando le piccole lucciole nere che mi davano noia divennero una farfalla intera ed adios, mondo!, capii di aver raggiunto il culmine. L'ultima immagine che la mia testa recepì prima di spegnersi fu quella del registratore di calore dell'acqua. Abbastanza deprimente, no?

“Muoio.” mi dissi. Poi più nulla.

Quando mi svegliai - dopo un'ora, due ore, mezz'ora forse? - la piastrella fredda del muro cui avevo appoggiato la testa ed il suo contrasto con l'acqua bollente mi stordirono non poco: cazzo!, fu il primo ed ultimo pensiero che si affacciò nel lasso di pochi secondi nella mia mente. Sono sempre stato fin troppo volgare, lo so. Ma che potevo farci? Forse imprecare e sparare bestemmie erano il mio unico sfogo, a quel tempo; ancora non avevo imparato a coesistere con me stesso e con il grande casino che mi portavo dentro, riuscivo a malapena a sopportarmi: come soffocare la malignità incombente che uccideva pian piano il mio spirito?

Ma, mentre l'acqua in quel momento più fredda mi continuava a bagnare e mi apprestavo ad uscire dalla doccia, me lo dissi internamente: chissene fotte.
“È normale.”, scandii ad alta voce, coprendomi con un asciugamano e sentendomi barcollare appena.
Riuscivo a crederci veramente. Cristo, ci credevo.

Quindi quella sera te lo chiesi, malgrado nemmeno riuscissi a capire il perché: le parole uscirono dalla bocca fluide e viscerali, senza filo logico o riflessione. Lo domandai con fare ingenuo, magari senza neanche guardarti in faccia, mentre il mio pensiero ritornava di slancio al mio passato ed a tutto ciò che mi aveva oppresso. Tu mi guardasti di striscio, sorridendo appena.
<< Stasera non tira vento, Kyo. >> mi dicesti, accarezzandomi di scatto una guancia e facendomi tirare un fioco sospiro di sollievo; perché cazzo sì, era vero.



[ Love is what everyone suppose to want. ]



Tutto ciò è fin troppo normale.






The end





Note:

Le due frasi in inglese fanno parte del testo di "Vinushka" dei Dir en grey.

Saranno due anni che non scrivo e non pubblico, anche se lo scheletro della storia è molto vecchio. Spero comunque che questa sequela di riflessioni esistenziali vi possa essere piaciuta. Ciao,




AintAfraidToDie
  
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