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Autore: Ely79    02/01/2011    3 recensioni
Quante volte abbiamo sognato un lavoro diverso da quello che ci tiene occupati ogni giorno? Un lavoro che ci faccia sentire felici, gratificati, pieni di passione verso quel che facciamo? Ed ecco che ad Amelia, frustrata progettista, si palesa l'occasione di una vita. Ma cosa c'è dietro questa porta spalancata su una grande opportunità?
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tavola XXX - Fine lavori
«Chiodo, prendi Bertona! Ve-lo-ce» scandì Diciechili, appiccicato al citofono.
L’Archimaga decise fosse meglio glissare sul chi fosse “Bertona”.
Quando era scesa dalla corriera poco prima, nella piazzetta di San Francesco, non si era aspettata quel comitato d’accoglienza. Diecichili e Chiodo avevano abitudini notturne e trovare il primo ben sveglio alle nove del mattino era stata una sorpresa. Lo era diventata un po’ meno quando il ragazzo aveva ammesso di non aver chiuso occhio.
«É Capodanno!» era stata la sua giustificazione.
Già. Era il primo giorno dell’anno ed essere lì, in quel momento, le faceva scorgere un buon auspicio nella data.
Chiodo scese indossando un casco graffiato, occhialoni e sciarpa sopra quello che aveva l’aria di essere un pigiama. Li guidò ad una saracinesca rugginosa che prese a calci, finché non sentì uno schiocco all’interno. Sferragliando, l’avvolgibile cominciò a salire, spinta dai due. Dentro, una sagoma informe era nascosta da un lenzuolo tenuto con mollette e scotch da pacco.
«Ciccia, ecco Bertona» gongolò Diecichili.
Le speranze della donna scemarono all’istante.
«Ma… è… un’Apecar?»
Il ragazzo le mise una mano sulla bocca.
«Ssstt! Per Chiodo è come se fosse la sua donna! Parlane bene!» l’ammonì e, in effetti, l’altro stava amorevolmente ripulendo il ruotino anteriore con uno straccio. «L’abbiamo modificata, fila a centodue netti! È un po’ instabile in curva, ma bilancio io, tranquilla».
Amelia pregò stesse facendo lo sbruffone: era sempre meno convinta di giungere integra a destinazione.
Chiodo prese posto nell’abitacolo, schiacciandosi contro la portiera per far accomodare l’ospite. Il fracasso del motore era insopportabile tanto fuori quanto dentro.
«Capo, posso arrangiarmi?» cinguettò impaurito Vorticillo.
«Cosa?» chiese il pilota, pensando parlasse a lui.
«Niente» tagliò corto. «Okay, vienici dietro senza farti vedere» bisbigliò nella tasca.
Traballando in maniera preoccupante, il treruote si avviò lentamente al cancello. Vibrava al punto tale che i contorni delle cose apparivano sdoppiati.
Con la medesima, esasperante indolenza, attraversarono San Francesco. Amelia d’aver accettato. A piedi, a quell’ora, avrebbe dovuto scorgere i pilastri al limite della proprietà, invece della chiesetta.
Vorticillo, in forma di corvo, planava fra i tetti scuotendo sconsolato il becco.
«Chiodo, possiamo accelerare? Ho fretta» provò ad incitarlo.
Le rispose con un mugugno simile ad un “adesso”.
Superarono l’ultima cascina. In un altro momento, Amelia si sarebbe soffermata ad osservare i decori dei mattoni, le irregolarità della malta, i nidi abbandonati dalle rondini. Ora desiderava solo raggiungere la villa.
Chiodo si fermò, pigiando sul pedale a colpi ritmati, facendo salire di giri il motore. Pochi secondi dopo, Bertona filava spedita sull’asfalto. Dovevano aver raggiunto i cinquanta all’ora, ma chiusa nella cabina sussultante, Amelia era incapace di notarlo. Balzarono sulla sterrata, aumentando gli scossoni. Dietro, Diecichili ululava come un pazzo, spostando il peso da un lato all’altro nelle curve, quando sentiva una delle ruote posteriori sollevarsi troppo.
Il corvo li inseguiva gracchiando.
Fu forse per lo spavento o per la spasmodica attenzione a non farsi sfuggire la borsa fuori del finestrino, che i quattro pilasti apparvero all’improvviso, con il loro torreggiare malinconico.
I ragazzi ignoravano cosa passasse fra quei piloni, non avevano i poteri di Angheledrior o Jarvis. Doveva essere lei a sbloccare l’accesso, doveva impedirgli di sbatterci contro o sarebbe finita male.
«Fermati, Chiodo!» gridò, ma lui bofonchiò “velocità”.  
L’ingresso si avvicinava sempre più, salendo al cielo malaticcio insieme agli incitamenti forsennati di Dieci.

***

L’Archimaga provò un secondo tuffo al cuore. Era impreparata a quello spettacolo. Dopo aver superato incolume i pilastri, ciò che aveva davanti somigliava ad un rudere prossimo a franare su sé stesso, ben diverso dai suoi ricordi. Gli intonaci erano spenti, porzioni di muri e tetto erano squarciate. La torretta pendeva a sinistra. Perfino un gelso era stato spezzato.
Una figura stava avvinghiata al cancello.
«Ang!» esclamò, saltando giù prima che il mezzo si fermasse.
L’elfo spalancò il battente, prendendola fra le braccia.
«Ohilà, Angelo! Ti abbiamo portato un regalino» canticchiò Diecichili dal rollbar mentre l’amico baciava con foga la sua donna.
«Ang, ci guardano» bisbigliò imbarazzata Amelia, sentendo una mano stringerle il seno.
Lui rimase ad osservare quelle guance arrossate, segno dell’inguaribile timidezza che gli era mancata da impazzire.
«Scusa» sorrise, sollevandola per farle stringere le gambe intorno ai fianchi e riprendendo a baciarla.
«Gira, Chiodo. Abbiamo finito» rimbrottò Diecichili, battendo sul tettuccio.
Bertona disegnò un semicerchio sghembo ed imboccò a ritroso la via.
«Come t’è saltato in mente di farti accompagnare da quei matti?» le domandò, prendendole il viso tra le mani, a sincerarsi di non star sognando.
«L’hanno preteso in nome della vostra amicizia. Avevo altra scelta?» spiegò, intristendosi. «Perché non mi hai cercata, Ang? Credevo saresti venuto a prendermi, per riportarmi indietro…»
Sospirò, addolorato dalla domanda.
«Non ti ho abbandonata, Fragolina, credimi. Volevo venire da te, ma non ho potuto».
«Perché? Non…»
S’interruppe, seguendo l’elfo fino al gelso spezzato.
«Il giorno in cui ti ha allontanata, ho affrontato Jarvis. Gli ho detto che non aveva il diritto di farlo e che ti avrei seguita. Fossero andati in malora lui, giardino, cavalli e tutto il resto! Noi siamo legati, una cosa sola» ringhiò, poggiando la mano sulla corteccia. «Sono riuscito ad arrivare fin qui, prima che…»
Il palmo scivolò sul tronco scheggiato, insieme al suo singhiozzo affranto.
«Mi ha vincolato a questo tronco, Amelia. Sono un cane alla catena. Devo restare alla villa o morirò. È stato bravo, ha scelto bene l’ultimo incantesimo che è riuscito a fare. Giuro che avrei preferito lasciarci le penne per venirti a cercare, lo giuro! E ci ho anche provato, ma… ha maledetto i muri, per impedirmi di cercare la mia fine. Non potevo uscire. Allora non mi è rimasto che aggrapparmi alla speranza di rivederti. Sentivo il tuo bisogno di tornare» spiegò, poggiandole la mano sul Nibit. «E quando ieri sera ho sentito che ti avvicinavi, stavo impazzendo di gioia» aggiunse, gli occhi neri che brillavano.
La vibrazione che vi scorgeva era infinitamente più dolce di quella che Amelia aveva provato lungo il tragitto.
«Cos’è successo qui? Cade tutto a pezzi! E le barriere? Sono svanite!»
Si sentiva defraudata del suo operato: impegno e fatica cancellati con un colpo di spugna.
«Gli incantesimi sono caduti alla morte di Corrado» disse Ang, rabbuiandosi. «Scusami, avrei dirtelo in un altro modo».
Lei scosse il capo, stringendogli la mano rassicurante.
«Ho visto Luisa prima di Natale e mi raccontato tutto».
«Davvero? E come sta?» fece lui, sorpreso.
Amelia fece spallucce, seguendolo verso il desolante spettacolo offerto dal palazzo.
«Scorbutica come sempre. E mi odia».
«Allora sta bene» sorrise stringendola.
«So che Carew è stato designato erede dei Frasca».
Lo stalliere annuì, pensieroso.
«Il Duca aveva disposto i documenti per l’adozione insieme al testamento. Adesso è Jarvis Alden Frasca di Cortenova. Sbaglio, o suona malissimo?» sogghignò.
Tentò malamente di mascherare il sollievo che le dava la sua ironia. I sei mesi di vuoto stavano scomparendo in fretta.
«Perché Jarvis non ha ripristinato i sortilegi? È dovere del proprietario».
«Pare che il nostro nuovo padrone abbia qualche difficoltà gestionale» ed aveva un’espressione d’inequivocabile divertimento.
«Se ignora la sequenza, l’elenco è nel cabreo…» iniziò, subito interrotta.
«Fragolina, non riesce a farne nemmeno mezzo. Da quando è umano ha disimparato la magia. Ha fatto danni assurdi per mettere insieme banalissime stregonerie» e indicò una finestra sventrata fino al pavimento. «E quello per cercare di aprirla. Immagina il resto».
«Capo, abbiamo del lavoro! E tanto anche!» garrì Vorticillo, appollaiato sulla gronda della cucina.
Era incerta se esserne felice o meno.
Un movimento furtivo nell’andito catturò la sua attenzione.
«Isadora!»
La bambina le corse in contro, evanescente. Nonostante la gioia, non riusciva a riprendere l’opacità tipica di quando era felice. Doveva dipendere dall’assenza degli incantesimi, che amplificavano in qualche modo le sue capacità.
«Amelia!» pianse abbracciandola. «Tu… tu rimani! Rimani qui! Gli ghiaccio il naso a quel rospaccio se lo fa ancora! Non deve rapire la mia principessa-sorella!»
All’inizio tacque commossa, poi si unì alle sue lacrime. Paragonato al gelo della stagione, il freddo della piccina era un delicato tepore. La bambina le raccontò di quanti dispetti aveva fatto a Jarvis in quei mesi, per dargli la lezione che meritava: aveva nascosto gran parte degli oggetti del suo studio – eccetto i cavalli, perché con quelli voleva giocarci e non poteva perderli -, creava lastre di ghiaccio nei corridoi e nelle stanze quando lui passava, lo svegliava nel cuore nella notte tirandogli via le coperte. Aveva anche riempito di neve la sua stupidissima macchina, al punto che, all’ennesimo tentativo di avvio, il motore aveva mandato tante scintille e fumo, prima di tacere per sempre.
«Amelia, devi vedere una cosa» la richiamò Ang.
Raggiunsero lo studio che era stato di Corrado. Nell’aria aleggiava ancora l’odore del sigaro del mago, abbandonato ormai spento sul bordo di un posacenere. Sulla scrivania era stato posato un suo ritratto, risalente a qualche anno addietro. Doveva essere la foto di una premiazione, a giudicare dalla targa che stringeva nelle mani e dalla soddisfazione sul volto grinzoso.
L’elfo frugò nei cassetti della scrivania, facendo un baccano allarmante. Amelia si guardò attorno, aspettandosi di veder comparire l’erede.
«Jarvis è sordo. Non sente niente» la tranquillizzò Isadora facendo smorfie in un vetro.
«Ha ragione. È uno dei pochi vantaggi del nuovo Jarvis: la villa non gli parla più» concordò Ang.
Lo stalliere trovò quel cercava e lo porse alla donna. Era una busta col sigillo in ceralacca dei Frasca, ormai spezzato. Era il testamento di Corrado. L’Archimaga sfilò il documento, leggendone con attenzione il contenuto.
«Lo sospettavo» ammise strizzando l’occhio.

***

Buio. Caldo ed accogliente. Silenzioso. Un guscio impenetrabile dove sentirsi libero, potente, padrone. Dove privarsi di quel corpo impacciato e dotato di vita propria. Dove essere solo. Lontano dal mondo. Il buio delle notti eterne che lo inghiottiva fin dal principio dei tempi. Il buio dei cuori umani di cui si era nutrito per millenni.
Passi frettolosi sul parquet. Lo scorrere delle tende. Lo sbattere della finestra. Di nuovo quella sguattera. Avrebbe trovato il modo per…
«Non si respira qui dentro!» ansimò una voce che avrebbe dovuto essere altrove.
Balzò a sedere, lacerando il bozzolo delle coperte. La luce lo ferì agli occhi, cancellando la stanza, ed un refolo punteggiò la pelle di brividi. Nascose il viso dietro le mani, segnate dalle ustioni dei sigilli. Altre due, identiche, campeggiavano sul suo torace e sulla schiena, poco sotto la linea delle spalle.
Altri passi. Lei che si avvicinava. Intollerabile.
I piedi poggiarono sul pavimento, percependo un fastidioso strato di polvere e rimasugli di sporcizia. Mai fastidioso quanto la presenza dell’Archimaga nella sua dimora. Nella sua stanza!
«Che fa qui? Le avevo vietato…» ruggì alzandosi.
Amelia gli diede le spalle.
«Si copra, per l’amor del cielo! Un po’ di decenza, è un nobile!»
«Se ne vada!» urlò, incurante della propria nudità.
«No, milord» l’ammonì ironica e risoluta, agitando l’indice. «Una conversazione civile dovrebbe iniziare con un “Buon giorno. Prego, si accomodi” - cosa che farò anche se non l’ha detto – e proseguire con un “É andato bene il viaggio, stanotte?”, a cui risponderei con un educato “No, il riscaldamento sul treno era rotto, era pieno di ubriachi dai festeggiamenti, il pullman era in ritardo di mezz’ora per il ghiaccio e l’autista ancora addormentato, e sono stata costretta ad accettare un passaggio da Diecichili e Chiodo con un trabiccolo che minacciava di andare in pezzi da un momento all’altro, ma grazie per l’interessamento”» sparò tutto d’un fiato.
Prese una poltroncina, voltandola in maniera tale da poter evitare di guardare il nuovo, discinto Duca, e vi si lasciò cadere esausta.
«Mi perdoni, so che non le interessava, ma è stato un incubo. Anche se ne è valsa la pena» soggiunse.
Jarvis la fissava con tanto odio che pareva intenzionato a liquefarla con la sola forza del pensiero. Le aveva imposto di star lontana, ma quella donna aveva bisogno di un gesto chiarificatore, inequivocabile.
Le tende di arricciarono fino al soffitto, il lampadario si coprì di fiori ed i ciocchi nel caminetto scattarono sull’attenti prima d’emanare una buffa musichetta da carillon.
«Accidenti» mormorò Amelia impressionata, spiandolo da sopra la spalla. «Angheledrior aveva ragione: se la passa piuttosto male, se quell’incantesimo era per me. Perché… era per me, vero?»
«Ovviamente!» sibilò, franando sul letto con la testa fra le mani.
Come poteva lui, un marid, sovrano del mondo degli spiriti, al cui volere si erano piegati popoli e nazioni, essere stato ridotto ad un giullare? Ad una indegna caricatura che nemmeno riusciva a reggersi in piedi? Per non parlare del fastidioso prurito che lo perseguitava da tempo.
Sollevata dall’udirlo rintanarsi sotto le coperte, si girò, accostando la poltroncina al letto. Dal groviglio informe emergevano solo gli occhi e la fronte del nuovo Duca, velati da una ciocca piuttosto sporca. E nella stanza non erano l’unica cosa ad esserlo.
«Sa, speravo di trovarla intento a spiegare ad Isadora chi fossero Tazio Nuvolari o Enzo Ferrari. Lei che narrava le loro imprese, per farle capire come mai aveva chiamato così i suoi cavalli. Cavalli che, avviati al declino, ha bardato di tutto punto e mutato nei soprammobili che tiene nello studio».
Le sopracciglia scure s’inarcarono. Difficile dire se per rabbia o sorpresa.
«Chi le ha…» bofonchiò.
«Me l’ha raccontato Angheledrior. Modo originale per pensionarli» osservò.
La sua sincerità irritava l’interlocutore che taceva, preso da un groppo allo stomaco.
«Dicevo. Immaginavo una scena simile, anche se ritenevo più probabile trovarla a rotolarsi con Lojana, ma ho costatato che le mie capacità di veggente sono pessime» ammise, accennando una risatina.
Jarvis sentì qualcosa che gli si rimescolava dentro. Era diverso da ciò che provava quando Lojana lo stuzzicava, diverso dal fastidio causato dal ghiaccio che regolarmente Isadora creava al suo passaggio, dalla sensazione di repulsione al pianto di Romilda.
«Venga al dunque e se ne vada! Che vuole? Denaro? Cianfrusaglie ha che ha scordato? Se le riprenda e sparisca! Porti via anche lo stalliere se proprio ci tiene, si accomodi» soggiunse perfido allungando il collo sudicio oltre le lenzuola altrettanto sporche. «Mi liberi una volta per tutte dalle vostre inutili esistenze!»
Un violento manrovescio lo colpì in pieno volto, lasciandolo a bocca aperta. Era stata proprio la remissiva e gentile Archimaga a colpirlo? A giudicare da come agitava la mano, la risposta doveva essere affermativa.
«La madre superiora ci puniva così, quando sbagliavamo il Segno della Croce. Duretto, ma efficace. Quindi, signor Duca, se vuol continuare questa conversazione da persona civile, la smetta con questo atteggiamento o mi ripeterò. Sono stata chiara?» l’avvertì. «E si faccia la barba, per favore! Sembra un istrice!»
Fece segno di sì, sbattendo le palpebre per l’incredulità.
«Ha detto bene. Sono quei per riprendermi le mie cose. La mia famiglia, innanzitutto».
«Lei non ce l’ha» ribatté, inabissandosi all’istante per evitare un secondo schiaffo.
Il formicolio sulla guancia era insopportabile e un liquido trasparente gli annebbiava la vista.
«Parla della mia famiglia nativa, che ho perduto per sempre. Ma io parlo della mia nuova famiglia. Angheledrior, Isadora, la nonna, Francesca. Anche Orlando e Gromi. E… pure lei, Jarvis. È perfetto come cugino rompiscatole» disse, strattonando le coperte fino a scoprirgli nuovamente la testa.
«Mi rifiuto…» protestò, trattenendo le scarne difese.
«Ha poco da rifiutare, Jarvis» lo zittì, mostrandogli il testamento. «E non provi a raggirarmi: Corrado mi ha donato le stanze dove alloggiavo e l’accesso alle biblioteche, con la clausola di utilizzarle in pianta stabile. Ergo, non posso essere cacciata da casa mia e dalla mia famiglia».
Così dicendo gli sventolò il testamento sotto al naso, ma l’uomo lo scansò.
«La smetta di fare il difficile».
«Faccio come mi pare. Io sono il Duca!» schermandosi con le braccia appena vide la mano dell’altra levarsi.
Amelia sbuffò, lasciando cadere il proposito ed il braccio insieme.
«Mi creda, lo so. E congratulazioni per avere avuto un padre meraviglioso. Una persona che l’ha amata come se fosse davvero suo figlio, a prescindere dalla sua reale natura».
«Che sta dicendo?» chiese, mentre la guardava frugare nella borsa, da cui emerse un libretto dalla copertina tempestata di agate. «Cos’è?»
«Il diario di Corrado».
«Impossibile. Io avrei saputo…»
«Ne dubito» rispose, indicando un Nodo di Stewart sulla copertina. «Non l’avrebbe potuto leggere neppure se Corrado gliel’avesse messo davanti al naso. E se lo asciughi, che cola».
Jarvis passò velocemente la mano sul volto, ritraendola appiccicaticcia.
«Credo che avesse intuito cosa voleva farmi ed abbia trovato il modo d’infilarlo tra le mie cose. Ascolti cosa scriveva tre anni fa: “Più d’ogni altra cosa, è importante che Jarvis sia in grado di sopportare il distacco dalla forma entro cui è costretto. Da troppo tempo è relegato in un involucro rigido ed inerme. Se lo abbandonasse senza le dovute cautele, temo gli sarebbe impossibile tornare al suo stato di marid. Rischierebbe di precipitare privo d’identità in un limbo senza fine”».
S’interruppe, cercando la pagina successiva, spiando la razione attonita di Jarvis da sopra la montatura degli occhiali. Quelle considerazioni, con ogni probabilità, non l’avevano mai sfiorato. L’ipotesi di scoprirsi troppo debole per sopravvivere al distacco dall’organismo ospite, per poter tornare ad essere un signore del mondo dei demoni, l’aveva sconvolto, benché cercasse di mascherarlo.
«“Devo passare dai muri, è l’unica soluzione, ma le mie competenze esulano da queste operazioni. Mi occorre un Archimago che rimetta in sesto la villa e, per osmosi, la parte incorporea di Jarvis. E a Jarvis serve un amico che lo sostenga, più di quanto possa fare io”» riprese, rintracciando i segnalibri che aveva sparso qua e là durante la lettura. «“Credo che Martini mi abbia indicato la soluzione a tutti i nostri problemi. Dice che la sua allieva è abile e comprensiva. Spero che Jarvis capisca che lo faccio nel suo interesse. É sempre stato un ragazzo sospettoso”. “Devo liberarlo. Subito. La sua sofferenza cresce ogni giorno. Ha smesso di dormire e gli impulsi del suo corpo stanno prendendo il sopravvento”. “Accade troppo in fretta e, per quanto Amelia si sforzi di completare i lavori prima possibile, temo sia tardi”. “Mio padre ha mentito. Ora lo so. Ma non voglio che a pagare sia Jarvis. Forse potrò fare poco per lui, ma tenterò. Oggi, dopo la mia visita nella cripta, ho scoperto che mi ha cercato, aveva paura, temeva per la mia vita. Quale demone mostrerebbe tanto affetto?”. “Voglio che viva”».
Chiuse il libro, posandolo sulle ginocchia.
«Corrado le voleva bene. La vedeva come un figlio e quando ha scoperto il raggiro del padre, si è dato da fare perché lei non pagasse un prezzo troppo alto. Voleva che questa sua nuova libertà fosse un dono, non una condanna come lei crede. Per questo riteneva la mia presenza ben più importante che al principio: voleva che “l’amico” fossi io. Lo ha scritto in un altro passaggio. Diceva che avevo la pazienza e la capacità di perdonare che servivano per aiutarla ad affrontare meglio “la sua nascita”. Era un uomo generoso e l’amava molto. Gliel’ha dimostrato chiudendo gli occhi per molti anni».
«Cosa vuol dire?» chiese, fissandola indispettito accarezzare la copertina del diario.
«Corrado ha scritto che finché i suoi occhi, incastonati nella lapide, fossero stati aperti, lui avrebbe avuto il pieno controllo sulle sue azioni. Ma ha scelto di chiuderli, concedendole il dono del libero arbitrio».
«Mente!» ringhiò.
«Qualcuno l’ha mai obbligata a fare ciò che riteneva sbagliato? Lei ha scelto di sua iniziativa se obbedire alle richieste che le venivano avanzate, valutandole con un metro di giudizio che si addiceva alla sua carica di maestro di corte. Quante volte ha rifiutato le mie proposte? O ha imposto divieti? O vuol forse dirmi che Corrado la obbligava a sopportare la mia presenza a suon di punizioni? A me non risulta» concluse.
Jarvis restò in silenzio. Il numero delle volte in cui era stato punito in quel secolo di convivenza era tanto esiguo da svanire.
L’Archimaga sospirò, sorridendo con dolcezza alla scorbutica lumaca che rifletteva impaurita, avvolta dal suo guscio di stoffa macchiata e maleodorante.
«Renda onore al suo ricordo» suggerì.
«E come? Tenendola qui?» sibilò, confuso da quel che aveva appena sentito.


Gente, ci siamo: il prossimo sarà il capitolo conclusivo di questa storia.
Grazie a erikanordkapp, che arriva alla fine della storia, ma che mi auguro di ritrovare nelle recensioni finali.
Comincio a ringraziarvi fin da ora per averla letta, recensita o anche solo sbirciata.
   
 
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