DUST
Non
c’era persona al mondo che Fedora Thomas odiasse più di sua nonna. Heather
Huxley.
Secondo
lei, smistare dei ragazzini a undici anni è quanto di più idiota si possa fare,
dato che, evidentemente, c’è chi nasce Serpeverde e muore Tassorosso.
Sua
nonna ne è un lampante esempio. Era stata una Grifondoro. Ora è
un’insopportabile, acida e vecchia strega che succhia opache caramelle
zuccherate e mollicce, stringendo le labbra in un’espressione piuttosto idiota.
2013:
la vecchia ha ottantacinque anni. Ha ottantacinque anni e riesce ancora a
insegnare Storia della Magia in tedesco.
Fintanto
che rimaneva lì in Germania, Fedora poteva persino provare un certo affetto da
nipote, per quella sua nonnina. Eppure da quando si era presa il meritato anno
sabbatico, per scrivere quel dannato libro, non aveva fatto che crearle
problemi.
All’uscita
da Hogwarts, Fedora avrebbe voluto sposarsi, lavorare come una matta assieme a
Logan, arrancare per un posto fisso e stipendiato, comprare una topaia di casa
e mettere su famiglia. Non le sarebbe importato di cominciare da un livello
tanto basso. A lei andava bene, anzi la divertiva l’idea.
I
suoi genitori non si erano troppo impicciati. Era bastata nonna Heather a far
sparire in fretta e furia Logan.
Voleva
il suo aiuto, aveva detto, per quel libro.
La
prima risposta era stata “no”, successivamente l’idea degli incassi le aveva
fatto pensare che approfittare di una nonna tanto meschina, non sarebbe stato
poi esattamente sbagliato.
Lei
avrebbe messo da parte dei soldi, ritrovato Logan, e avrebbe vissuto come le
pareva.
La
certezza di Fedora era che qualsiasi idiozia avesse scritto nonna Heather,
sarebbe certamente stata pubblicata e ben venduta. Ovvio, naturalmente, con la
sua fama: attualmente a Hogwarts e in altre tre o quattro scuole in Europa, il
libro di Storia della Magia redatto da lei, era il più aggiornato, il più
comprensibile e dunque quello più in voga.
Era
certo: avrebbero pubblicato anche gli sbadigli di Heather Huxley.
Ora
il suo obiettivo era scrivere la biografia del Mago Oscuro sconfitto sedici
anni prima, il mago di cui lei era quasi coetanea: Tom Riddle.
Non
c’era persona al mondo che Fedora Thomas odiasse più di sua nonna. Specialmente
in quel momento: si trovavano a Notturn Halley a ficcanasare nella casa
affittata a Riddle, nel periodo in cui era commesso presso Magie Sinister.
La
proprietaria di casa – una donna fastidiosamente somigliante a nonna Heather –
aveva chiarito fin da subito che la casa era stata affittata anche ad altri,
dopo Riddle e che quelli avevano lasciato lì roba loro. Fedora sperava fosse
sufficiente questo a cambiare posto, invece sua nonna l’aveva ugualmente
trascinata là dentro.
Che
il posto fosse poco illuminato e, a dirla tutta, piuttosto lugubre, se
l’aspettavano entrambe. In compenso era in ordine.
“Guarda
guarda” aveva sorriso la nonna uscendo dalla camera da letto, con uno strano
ghignetto divertito.
“Le
coperte sono state rubate dai dormitori di Hogwarts, che tipo”
Giusto,
si dice Fedora. Appunto numero ottantaquattro: Riddle aveva tendenze
cleptomani. Quando hanno esplorato la sua stanza all’orfanotrofio hanno trovato
un tacco, un soldatino di piombo e la pagina di un vocabolario di latino.
Tutto
maledettamente decrepito.
Nasce
il trentuno dicembre del ventisei, spaventa i ragazzini, ruba. È mezzosangue,
ma discende da una famiglia pura per generazioni. I Gaunt.
Deglutisce,
entra nella stanza da letto. Coperte verdi. Cuciture in filo argentato, quella
trapunta sembra la cosa più calda
dell’intera stanza.
L’unico
oggetto che contiene un ricordo. Forse.
Comincia
a rovistare nella cassettiera, tenendo il block notes tra i denti, la penna
dietro l’orecchio.
Il
primo cassetto è vuoto, il secondo no. Tira fuori una camicetta ingiallita,
sulla schiena la stoffa è trattenuta da una spilla da balia. Come sui manichini
dei negozi, le viene in mente: lo fanno per far sembrare l’abito più sfiancato.
Trova un reggiseno color crema con una frase scritta col rossetto: “cute as
hell”.
Tira
fuori, poi, un calzettone sottile, appallottolato.
Sul
fondo c’è un sacchetto di tabacco da quaranta grammi, con ancora del tabacco
dentro. Delle cartine, invece, c’è solo la confezione.
La
nonna fa capolino dietro di lei, le prende la camicia dalle mani.
Fa
un ghigno strano.
“Divertente”
dice, solo.
“Cosa
è divertente?”
La
nonna non risponde, fa per andar via.
“Oh
be’, qui possiamo anche lasciar perdere, sai? Pare che dopo Riddle qui ci sia
venuta a vivere un’altra persona. Ormai avrà contaminato quanto di utile si poteva
reperire su di lui”
Esce
dalla stanza canticchiando “What the little boys are made of?”, come una matta.
Fedora
la insegue: che nervi. La padrona di casa gliel’aveva anche detto.
“Hai
riconosciuto quei vestiti?” le chiede, seccata.
“Sì”
risponde la nonna girando la testa bianca, sbirciando distrattamente Fedora con
i rugosi occhi marroni.
“Sono
piuttosto sicura: si trattava di una Serpeverde più grande di me di due anni.
Tale Gray. Niente di ciò che cerchiamo, in ogni caso”
Fischietta,
ora. Fedora sbuffa, s’infila in tasca il sacchetto di tabacco e il calzino nella
borsa. Non che fumi, ma le va. Scende, seguendo la nonna, appuntando sul block
notes solo il dettaglio della coperta.
“Una
Mangiamorte, lei. Morta quasi subito, in realtà. Non era granché”.
Fedora
fa un versetto per assentire.
“Per
esempio, è durata molto di più Virginia Haze”.
Ok,
pensa Fedora, ma chi se ne frega? Chi se ne frega che sa tutte queste cose,
quella vecchia. Sono superflue.
Scendono
in strada. C’è uno strano tintinnio d’intorno, a Fedora ci vuole un po’ per
capire che sono i sonaglietti alle porte dei negozi. Guarda per un momento le
vetrine impolverate. Una strega sulla trentina esce da un negozio con un
cofanetto di mogano e scivola via, tutta curva.
“Penso
che questo ambiente calzasse a pennello, a Riddle” commenta la nonna.
Fedora
scuote la testa.
“Sarebbe
piuttosto banale. Secondo me era attratto dagli ambienti più aristocratici”
La
nonna non risponde, sorride un po’.
“Hai
appuntato tutto, vero?”
“Sì”
“Voglio
intervistare qualche orfano” dice, “tra quelli che sono ancora vivi”.
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Alla
fine si tratta sempre di soldi, a pensarci.
Mi
basterebbero quelli e, per esempio, non mi troverei qui. Mi basterebbero quelli
e non dovrei trovarmi in certe situazioni degradanti, per così dire.
E
tutto sarebbe: perfetto. Obbediente.
Esattamente
come lo si vuole, elastico, modellabile secondo il proprio pensiero. Ad
esempio, ecco: mi ritroverei a toccare scuro e raffinato legno lucido, a
sedermi su poltrone comode e a leggere un libro con una rilegatura come si
deve.
Invece
le cose sono un po’ diverse, direi.
Alla
fine, no. Non si tratta di soldi: la parola giusta è potere. Esatto: si tratta
sempre di potere.
Strofino
tra i polpastrelli un galeone. Un prestito: i miei insegnanti me ne fanno parecchi;
mi adorano, loro. Tutti. Lui no, però.
Chissà
perché, poi.
Con
gli altri è talmente semplice, far sembrare sincero un sorriso, affabile e
brillante un discorso. Eppure sotto quegli occhi, sotto quei dannati occhi,
ogni cosa deve necessariamente vacillare. Ed essere esaminata. Chissà, poi,
secondo quali criteri.
Strofino
ancora un po’ la moneta, cerco con la magia di calcolarne i contatti.
È
stata toccata da ottocentonovantatre persone, due delle quali sono Babbani.
Chissà
in quale assurda circostanza è accaduto.
Faccio
sparire il galeone tra le dita, come per
magia, mi ritrovo a pensare, con un sorrisino.
Chiudo
il libro che stavo leggendo, appoggiato alla stessa finestra dove un mese prima
avevo involontariamente causato la follia di Phinny. L’avevano portato via, d’allora.
Tanto
meglio.
Faccio
per andar via, ma mi soffermo giusto un po’. Che seccatura: troppa confusione.
Sollevo
un sopracciglio, ignoro. Questi dannati orfanelli, chissà che avranno da
divertirsi: la maggior parte di loro finirà col crepare sotto una bomba. Sempre
che non finiscano col farmi arrabbiare prima che ciò accada, come insegna il
buon Phinny.
Sorrido,
di quel pensiero. Dannazione, fortuna che nessuno mi legge nella mente.
Un
paio di persone scendono le scale. Una ragazza, anzi due, una che sembra più o
meno della mia età e una più piccola che le corre dietro.
La
grande attraversa tutta la stanza, guardandomi, per un attimo, con un sorrisino
di chi in realtà sta per scoppiare a ridere, dopo un dispetto.
Nuova,
tra gli orfani, ma ha un’aria conosciuta. È possibile che sia una strega.
Cerco
di ricordarmi. Poi mi viene in mente che sia addirittura una mia compagna di
casata a Hogwarts. Soltanto che non ne ricordo neppure il nome. Questo
significa matematicamente che è una studentessa piuttosto insignificante,
altrimenti l’avrei registrata, come faccio con tutti.
Dà
una risposta sgarbata ai balbettii della Babbana, non capisco neppure cosa
abbia detto, in realtà, fatto sta che quei modi troppo vistosi sono piuttosto
irritanti. Giusto un po’. Non abbastanza da rimanerne perplesso.
Davanti
a loro passano un paio di orfani, m’impediscono di tenerla d’occhio, si fermano
a guardarla, come confusi. Aggrotto le sopracciglia per comprenderne il motivo.
Poi
lo sguardo va a finire sui vestiti di lei. Gonna nera e un maglione verde da
uomo, più grande di parecchie misure.
Il
mio.
La
squadro e serro la mascella.
Davvero irritante.